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L'11 settembre continua a mietere vittime

  • Giovedì, 27 Agosto 2015 13:43 ,
  • Pubblicato in L'ESPRESSO

l'Espresso
27 08 2015

Il tumore che ha portato alla morte di Marcy Borders, Lady Dust, la giovane donna della foto simbolo dell’11 settembre, potrebbe non essere un caso, ma solo l’ultimo episodio di una lunghissima catena.

In base alle stime diffuse dal WTC Health Care Program, il programma dell’ospedale Mount Sinai di New York dedicato specificamente ai superstiti delle Torri, sarebbero 2500 i casi di tumore certificato sviluppatisi tra i superstiti e i soccorritori dell’11 settembre.

La stima diffusa dal programma è la più prudente tra le molte che circolano e che arrivano persino a contare, almeno secondo un recente articolo del NYPost, 3700 casi certificati: 1100 tra i vigili del fuoco in servizio a Ground Zero sia l’11 settembre stesso, sia nelle settimane successive all'attentato, avrebbero sviluppato un tumore (tra di loro anche il capo del dipartimento newyorkese Tom Riley costretto a lasciare il lavoro da un rarissimo linfoma non-Hodgkin’s comparsogli nell’occhio destro); 2134 sarebbero casi sorti tra poliziotti e soccorritori e 467 quelli sorti tra residenti, lavoratori della zona e passanti.

Dati non ufficiali cui si affiancano però quelli diffusi dal dipartimento dei Vigili del Fuoco che ha un suo programma di assistenza e un suo database e che cita 863 pompieri malati e 109 morti, 44 dei quali per tumore.

La connessione tra le polveri sprigionate dall’attentato e dai crolli e lo sviluppo di malattie come cancro e leucemia è stata, seppur a malincuore, riconosciuta anche dal Governo Federale che, nel 2011, nel suo report sulle conseguenze sanitarie dell’attacco alle Torri cita: “Le indagini mediche e scientifiche dimostrano che il cancro, o almeno certi tipi di cancro, possono essere inseriti nell’elenco delle conseguenze sanitarie dell'attacco al World Trade Center”.

Il report del governo americano traccia anche un elenco delle principali sostanze sprigionate dall’esplosione degli aerei e dal crollo delle Torri: “Il fuoco- si legge nel report- è stato sprigionato dall’esplosione di 91.000 litri di carburante che ha causato la diffusione di circa 100.000 tonnellate di detriti organici, 490.000 litri di olio combustibile, 380.000 litri di gasolio per riscaldamento e carburante delle migliaia di auto parcheggiate nel sotterraneo del WTC. La colonna di fumo levatasi dalle Torri conteneva inoltre fuliggine, metalli, composti organici volatili, acido cloridrico, materiale da costruzione, cemento, vetro, amianto, silice cristallina, metalli, idrocarburi, furani, pesticidi e diossine che nelle ore successive si sono si depositati per decine di miglia attorno Lower Manhattan e a Brooklyn”.

Alla luce di questi dati, nel 2010 il congresso ha approvato lo Zadroga Act, dal nome di un poliziotto newyorkese morto di tumore, un provvedimento che mette a bilancio 4,2 miliardi di dollari per fornire cure e assistenza alle vittime sanitarie di Ground Zero.

Luciana Grosso

Se Instagram censura la foto anti-cancro

  • Venerdì, 03 Luglio 2015 10:21 ,
  • Pubblicato in L'ESPRESSO

l'Espresso
03 07 2015

Guardate questa foto suggestiva. Viene dal “Pride 2015” di New York. La più grande festa di orgoglio LGBT di sempre. Sarà che solo due giorni prima la Corte suprema statunitense aveva stabilito che il matrimonio è un diritto garantito dalla Costituzione anche per le coppie omosessuali. Una decisione storica che aveva fatto subito il giro del mondo, grazie all’istantaneità della Rete e all’hashtag virale “LoveWins”.

Il giorno dopo, Facebook e tutti gli altri principali social network avevano sposato la svolta epocale, con layout ad hoc o consentendo agli utenti di personalizzare la propria immagine del profilo col filtro “arcobaleno”, da quarant’anni simbolo delle comunità gay, lesbiche, bisessuali e transgender. L’iniziativa era stata salutata con entusiasmo da tanti (“sentinelle in piedi” escluse). Una “bella lezione di civiltà”. 2.0.

Guardate bene questa foto. L’ha scattata, al Pride di NYC, Claudia Ferri, fotografa di scena di Offline, un nuovo programma televisivo che andrà in onda da giovedì 16 luglio alle 23.30 su Rai 2 e che parlerà di culture e “fenomenologie social”. Raffigura due donne coi seni asportati. Hanno subito entrambe una delicata operazione di mastectomia totale. Vittime del cancro al seno, e di una delle sue forme più virulente. Eppure sorridono, mostrando con orgoglio le proprie cicatrici. L’orgoglio LGBT che si mescola al coraggio di non voler soccombere alla malattia. Sul torace della ragazza bionda campeggia la scritta viola “Fuck Cancer”. Lo scatto commuove, fa riflettere con leggerezza e dà corpo e voce alla battaglia senza quartiere contro il più diffuso tumore femminile. Dice più di mille opuscoli sulla prevenzione. Trasuda purezza e forza d’animo. Non suscita pruriti o bassi istinti para-pornografici.

“Ho pubblicato la foto su Instagram e poi l’ho condivisa su Facebook, sul mio profilo e sulla pagina di “Offline" ci racconta Claudia Ferri "Quando ho rifatto l’accesso a Instagram, mi è arrivata la comunicazione che era stata eliminata. Nel frattempo era stata “bannata” anche da Facebook. Sono rimasta di stucco. Il motivo della censura? La foto non era conforme agli standard dell’applicazione”. Un po’ l’equivalente social dell’ “oltraggio al comune senso del pudore”.

Claudia ha protestato: “Avete rimosso un’immagine positiva a favore della lotta contro il cancro al seno. Complimenti! Mi sforzo, mi scervello ma proprio non riesco a capire cosa ci sia di scandaloso in questa foto. È questa la nuova libertà?”. Subito dopo ha ricondiviso la foto “incriminata” su Facebook, e come lei hanno fatto anche altri, e a sua volta qualcuno di loro ha ricevuto una segnalazione per “contenuti inappropriati”.

Negli ultimi tempi Instagram, la più popolare app di condivisione immagini (dal 2012 è di proprietà di Facebook), sta conducendo una crociata contro gli scatti e i contenuti osé o esplicitamente erotici. A pagarne le conseguenze anche celebrities come Madonna e Rihanna. Eppure basta farsi un giro di smartphone per trovarci di tutto, sia su Instagram che sulla casa-madre Facebook. Escort, hashtag scopertamente sessuali, devianze e parafilie varie, elogi a Sara Tommasi&Andrea Diprè (840 mila mipiace su Fb quest’ultimo), autori del video e “hit”, da bassissimo impero “Nel mio privè” (ritornello: “vieni anche tu, nel mio privé/coca e mignotte, anche per te”).

Senza dimenticare il proliferare inesauribile di bufale, sarabande nazi-fascistoidi e insulti al comune senso del buon gusto, e dell’intelligenza. “Facile e anche un po’ ipocrita, poi, una tantum, travestirsi d’arcobaleno” commenta Alice Lizza, conduttrice di Offline, la trasmissione tv (dal 16 luglio in seconda serata su Rai2) in cui saranno trasmessi i filmati originali censurati. Offline ha girato gli States, l’Europa e l’Italia per intervistare, tra gli altri, Zach King (“l’illusionista di Vine”), David LaChapelle, Milo Manara, Paul Budnitz (inventore del social alternativo Ello), l’artista Vanessa Beecroft, Sebastian Chan (l’uomo che sta rivoluzionando i musei rendendoli “usb friendly”), Lorenzo Thione (l’italiano che ha creato il motore di ricerca Bing), Tanino Liberatore, Maccio Capatonda, Caparezza e Linus. Quattro puntate che racconteranno come la società e le interazioni umane stanno cambiando per effetto delle reti sociali che corrono su Internet. Un viaggio intorno ai nuovi modi di vivere nell’era dei social network e del full-time online. Una navigazione fisica nel mondo del progresso, o presunto tale.

Maurizio Di Fazio
Foto di Claudia Ferri

L'abbraccio

  • Venerdì, 29 Maggio 2015 09:32 ,
  • Pubblicato in LA STAMPA

La Stampa
29 05 2015

Una madre cattura con il cellulare l’abbraccio tra sua figlia Maliyah (a sinistra) e un’altra piccola ospite dell’ospedale oncologico di Pittsburgh, in Pennsylvania. Poi lo posta su Facebook. La foto fa il giro del mondo, toccando corde arrugginite ma ancora vibranti in molti cuori non completamente sfibrati dal cinismo.

Oggi il Buongiorno è questa immagine. Non c’è niente da aggiungere. Solo da condividere. Da quell’abbraccio affiora ciò che rende una vita degna di essere vissuta. Chiamatelo senso, chiamatelo amore, chiamatelo Dio. Al suo cospetto, ogni preoccupazione o aspirazione quotidiana assomiglia al paesaggio che le bambine osservano dalla finestra dell’ospedale: qualcosa di deperibile e secondario, in fondo inessenziale. Quell’abbraccio contiene già tutto. Il resto, a cominciare da queste, sono soltanto parole.

Massimo Gramellini

la Repubblica
09 04 2015

Sul volo Alitalia da Istanbul a Roma, Aya si toglie l'hijab, il velo delle donne musulmane. Per lei, siriana, che ha 19 anni, indossarlo è una costrizione e con quel gesto liberatorio, le sembra si apra una nuova vita. Sul futuro della ragazza pesa però una grossa ipoteca: un condrosarcoma nel suo calcagno sinistro. In Siria, dopo l'operazione per rimuovere il cancro, i medici le hanno detto che il tumore è tornato. Le resta poco da vivere se non accetta di farsi amputare il piede. "Preferisco morire piuttosto", risponde.

Quei duemila euro spesi per il passaporto (falso). Ma su quel volo i pensieri cupi hanno lasciato il posto ad un'unica certezza: l'Europa è il mondo libero e il peggio sembra ormai alle spalle. Seduto accanto a lei c'è Fady, il suo compagno, arrivato dalla Svezia, dove si è rifugiato nel 2013 in fuga da Homs, luogo simbolo della carneficina siriana. Nella corsa contro il tempo e contro il tumore, Fady ha comprato per Aya un passaporto falso, spendendo 2000 euro. Il volo da Istanbul è uno di quelli considerati a rischio di immigrazione illegale dalla polizia di frontiera di Fiumicino. L'aeroporto di Roma è uno degli accessi all'area Schengen più a sud d'Europa, una porta per i popoli del Mediterraneo. Così gli agenti si preparano a controllare i passeggeri già all'atterraggio, molto prima del controllo passaporti.

Fady farebbe di tutto per Aya. Si è innamorato di lei a prima vista, quando l'ha vista in un video a casa del cugino, che vive in Germania ed ha sposato la sorella di Aya. La prima volta le ha parlato via Skype, lui in salvo in Europa, lei ancora in Siria. Aya non vorrebbe sposarsi perché, dice, potrebbe presto morire di cancro e non vuole rendere infelice un uomo. Fady allora cerca un sistema per portarla in Svezia. Prova con il ricongiungimento familiare, ma servono dai sei mesi a un anno. Chiede all'ambasciata tedesca in Libano un visto per le cure mediche, ma viene negato per ragioni burocratiche. "La donna che amo è in pericolo, non solo per la guerra, ma anche per la malattia" protesta Fady.

Rischiare il tutto per tutto. Decide così di rischiare il tutto per tutto. Aya e Fady si incontrano in Libano. Si sposano. Ripartono dalla Turchia con il passaporto falso per lei. Nel viaggio verso la Svezia decidono di fare scalo a Roma. "Chissà com'è bella la città eterna - pensa Aya - con i suoi monumenti, la sua cultura". Per questo chiede al marito di poterci trascorrere qualche giorno in luna di miele. "Sapevo che era illegale farla viaggiare con un passaporto falso, ma ero forte, perché sentivo che era la cosa giusta da fare per salvarla, dopo aver tentato ogni via legale", racconta oggi l'uomo da una casa di Acilia.

L'arrivo a Fiumicino. È il 6 ottobre 2014 quando la coppia atterra all'aeroporto Leonardo Da Vinci. I poliziotti in borghese fanno i controlli sotto l'aereo. Vedono quella ragazza, che nella foto sul passaporto porta l'hijab, mentre lì davanti a loro non lo porta. tutti e due vengono così portati negli uffici della polizia al Terminal 3, a destra del controllo passaporti. Un corridoio e una serie di stanze con le sedie rosse. Più si aggrava la posizione, più si scivola in fondo. Gli agenti trovano nello zaino di Fady il vero passaporto della donna, quello siriano. L'uomo ricorda quei momenti che resteranno per sempre impressi nella sua mente. "Ho provato a spiegare che Aya era mia moglie, ma il certificato di matrimonio era in arabo e non ci hanno creduto. Ho provato a dire loro che si trattava di una donna malata, ma non è servito".

Moglie e marito vengono separati. Tolgono loro il telefono e il passaporto. Per lui si aprono le porte del carcere di Civitavecchia, con l'accusa di essere un trafficante. Lei viene costretta a salire sul primo volo per Istanbul. Prima di partire, riesce a lasciare un biglietto con il numero di telefono della sorella che vive in Germania ad un algerino in attesa di essere respinto. Quando la sorella di Aya e suo marito ricevono la chiamata, si mettono subito in marcia verso Roma. Guideranno per 15 ore, verso Fiumicino.

Dietro le sbarre a Civitavecchia. Nei due giorni che passa in carcere, Fady pensa sempre alla sua donna. "Siamo in Europa - riflette fra sé e sé - al massimo le prenderanno le impronte e le faranno chiedere asilo in Italia, hanno detto che la rimandano in Turchia solo per spaventarci". Quando esce dal carcere cerca un modo per raggiungerla. Chiede agli agenti di poter fare una telefonata, ma non gli viene concesso. Non ha un soldo. Non vuole prendere un treno senza biglietto, per timore dei controlli. Non gli resta che andare a piedi per fino a Fiumicino: 70 chilometri. "Ogni tanto chiedevo informazioni - racconta Fady - per sapere se ero sulla strada giusta e la gente mi prendeva in giro, pensavano fossi pazzo", ricorda. Dopo diciotto ore di cammino, arriva a Fiumicino e apprende dalla polizia che Aya è stata davvero rimandata in Turchia. All'aeroporto di Istanbul la ragazza ha rischiato di essere rispedita in Siria. Pericolo scampato per un soffio, grazie alla sorella che dall'Europa le ha comprato un biglietto aereo Istanbul - Beirut. Così Aya si ferma in Libano.

Il rientro in Italia di Aya. Riesce incredibilmente a rientrare in Italia un mese dopo, con un permesso per cure mediche, grazie all'intervento decisivo del senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, allertato da una rete di attivisti e dalla giornalista dell'Ansa Marinella Fiaschi. Manconi ha tenuto le fila tra il Ministero dell'Interno, l'Ambasciata italiana in Libano, la famiglia e l'Ospedale San Camillo, dove la prende in cura il professor Santoro, chirurgo oncologo.

La storia prende così una buona piega. Da questo momento in poi, la storia sembra andare in discesa. La coppia di sposi si riabbraccia in aeroporto. Grazie ad una biopsia, si scopre poi che la diagnosi dei medici siriani era sbagliata: le masse presenti nel calcagno non sono tumorali, per il momento. Aya deve sottoporsi a controlli periodici e continuare a monitorare la situazione. Fady è stato nel frattempo condannato ad un anno e mezzo di carcere, ma è libero con la condizionale. "Il giudice ha capito che non sono un trafficante ed ho falsificato il passaporto di Aya solo per ragioni umanitarie", spiega oggi dall'appartamento alla periferia di Roma, dove ora gli sposi sono bloccati. "Il problema è trovare un modo legale per farli arrivare entrambi in Svezia", specifica l'Associazione A Buon Diritto del senatore Manconi. Lui potrebbe partire subito. Ma non vuole lasciare qui sua moglie. Le pratiche per il ricongiungimento familiare sono state avviate dall'ambasciata svedese in Italia. Non si sa quanto tempo ci vorrà.

Intanto a Fady gli bloccano lo stipendio. Nel frattempo, Fady si vede bloccare il suo stipendio da rifugiato in Svezia, perché non è presente sul territorio. A Roma, la coppia si sostiene grazie alla solidarietà ricevuta da Marinella Fiaschi, che li ha ospitati in casa, poi ha attivato una colletta per pagare le spese legali e per prender loro un appartamento in affitto. Migliaia di euro sono ancora necessari per la parcella dell'avvocato. "I soldi possono darteli tutti, l'amore no. L'amore è molto più costoso - dice Fady - Marinella per me è come una seconda madre italiana. L'affetto che tutte queste persone ci hanno dato in Italia è straordinario. Ora sappiamo che a Fiumicino l'errore è stato commesso da un funzionario, non da tutto un Paese". Parole di un uomo che conosce bene il prezzo dell'amore. In fuga e in lotta contro le frontiere e i tribunali per strappare alla morte la donna che ha sposato.

Raffaella Cosentino

Due o tre punture che ti salvano la vita

  • Venerdì, 13 Febbraio 2015 15:42 ,
  • Pubblicato in Flash news

l'Espresso
13 02 2015

Un vero peccato. E pensare che è l'unico metodo certamente capace di prevenire il cancro, nello specifico quello della cervice uterina.

A sette anni dal lancio della vaccinazione contro il virus dell'Hpv, gratuita per tutte le undicenni, sono pochi i genitori che hanno aderito. E diminuiscono di anno in anno anzichè aumentare.

Il piano messo punto dal ministero della Salute stabiliva infatti di vaccinare il 95 per cento delle ragazzine entro tre anni.

I dati reali però sono impietosi. ...

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