Tunisia, un anno di carcere a studente gay

Le persone e la dignità
29 09 2015


Un anno di carcere perché omosessuale. Succede ancora nel 2015 in Tunisia dove uno studente di 22 anni è stato addirittura sottoposto a esami da parte di un medico legale per provare che avesse avuto rapporti sessuali con altri uomini. Lo studente era stato convocato lo scorso 6 settembre a Hammam-Sousse, nel sud della Tunisia, nell’ambito delle indagini sull’omicidio di un uomo. Lo studente ha negato il proprio coinvolgimento, ma ha ammesso davanti al giudice di aver avuto una relazione con la vittima. L’avvocato ha raccontato che a quel punto il giovane è stato costretto a sottoporsi a un esame anale. In base all’articolo 230 del Codice penale tunisino, la sodomia tra adulti consenzienti è punibile con una condanna fino a tre anni di carcere.

“Voglio riprendere la mia vita, non voglio essere rifiutato dalla società”, ha commentato il ragazzo, secondo quanto riferito dal legale.

La condanna del giovane è stata criticata da organizzazioni locali a difesa dei diritti umani che hanno parlato di uno scandalo per il Paese e hanno chiesto di depenalizzare l’omosessualità in Tunisia. Yamina Thabet, presidente dell’associazione tunisine di sostegno alle minoranze ha parlato di una legge “abusiva”, l’associazione Shams, che si batte contro l’omofobia ha definito il test “scandaloso”. Anche i giovani del partito politico Al Massar hanno pubblicato un comunicato nel quale condannano fermamente il test al quale il giovane è stato sottoposto, definendolo “inumano e inaccettabile”, e chiedono l’annullamento dell’art. 230 del codice penale. La norma infatti da tempo presta il fianco a molteplici critiche per la sua genericità.

Morte di un ragazzo. Federico Aldrovandi, dieci anni dopo

  • Martedì, 29 Settembre 2015 10:40 ,
  • Pubblicato in Flash news

minima&moralia
29 09 2015

di minima&moralia


Sono già passati dieci anni dalla morte di Federico Aldrovandi: ripubblichiamo “Ferrara, Italia”, la prefazione di Girolamo De Michele a Zona del silenzio. Una storia di ordinaria violenza, graphic novel sul caso Aldrovandi di Checchino Antonini e Alessio Spataro uscito nel 2009 per minimum fax.

di Girolamo De Michele

in ricordo di Arnaldo Scotti

Chi entra nel centro di Ferrara deve attraversare una specie di invisibile strettoia, un restringimento della coscienza morale non percepibile ad occhio nudo. Bisogna avere l’occhio buono per i fantasmi del passato e del presente, per vederla: buono come quello di Bassani, che per primo ne indicò un tratto. All’imbocco del corso Martiri della Libertà, tra il Castello e il Teatro, un marciapiede fronteggia i portici. Su quel marciapiede, che corre sotto il fossato del Castello, caddero i fucilati del 15 novembre 1943: lo ricorda una lapide. Il turista che (sempre più di rado, ormai) ha conoscenza del racconto bassaniano Una notte del ‘43, o del film di Florestano Vancini La lunga notte del ‘43, sa di cosa si tratta.

E cerca sull’altro lato della strada, con lo sguardo verso l’alto, la finestra al di sopra della farmacia: quella finestra dalla quale Pino Barilari, reso indimenticabile dall’interpretazione di Enrico Maria Salerno, assiste nascosto dalla persiana alla strage fascista senza intervenire. Lasciamo proseguire il nostro turista: appena oltrepassato il Castello si troverà sotto la statua di fra’ Girolamo Savonarola, profeta senz’armi che a Ferrara, “in tempi corrotti”, sferzava le coscienze e fustigava “i vizi e i tiranni”. È scolpito con le braccia larghe e la bocca aperta, nell’atto di inveire contro il malcostume del suo tempo. A Ferrara il Savonarola è ricordato dai cronachisti così: le vicende fiorentine, nelle quali darà prova di pessimo governo, non ne intaccano la memoria. Il turista prosegue alla ricerca della Ferrara Magica, senza badare agli opposti monumenti tra i quali è transitato. La finestra e il profeta urlante che quasi si fronteggiano mettono in scena due città che vivono l’una dentro l’altra.

Da un lato, la città del quieto vivere, della nebbia che nasconde, che spinge a chiudersi nelle proprie case, nel privato: la città dell’indifferenza. Quella Ferrara che con troppa leggerezza, all’indomani del ‘45, dimenticò i suoi trascorsi fascisti e nascose sotto un’improvvisata barba da antifascista vent’anni di obbedienza passiva (ma anche fruttuosa, per l’agraria inurbata e la borghesia rampante) al Regime. Dall’altra parte, la città dell’impegno civile, degli intellettuali raffinati, delle scuole polo nazionali. La città che parla, comprende, scrive, riflette. Due città. In perpetua lotta tra di loro: la città della nebbia e della viltà, dei salotti buoni e degli affari che aggiungono sempre un posto a tavola e in cooperativa la Ferrara che cerca di soffocare l’altra, la città dell’impegno che combatte per non lasciarsi schiacciare dal quieto vivere.

La città della CoopCostruttori e degli scandali edilizi, dei livelli di inquinamento ai vertici dell’Europa, e la città dei referendum autogestiti contro inceneritori e centrali a Turbogas. La città degli operai della Solvay morti di tumore, e la città che difende quei “galantuomini” dei dirigenti della Solvay. La Ferrara che ogni anno ricorda l’eccidio del castello, ma poi costruisce un asilo nido su una ex discarica di CVM.

Bisogna attraversarla, questa invisibile strettoia del Corso. Bisogna attraversarla anche per attraversare la Piazza e dirigersi verso quella periferica via dell’Ippodromo dove, in una notte di settembre del 2005, un ragazzo ha incontrato una volante della polizia ed è stato ammanettato ed ha conosciuto i manganelli ed ha urlato per mezz’ora, prima di morire ai piedi di un muro. «Di morte violenta», secondo la deposizione dello specialista cardiologo dell’Università di Padova Gaetano Tiene al processo, lo scorso 9 gennaio. Di fronte al muro: palazzine. Finestre. Persiane chiuse e tapparelle abbassate.

Il 25 settembre 2008, la fiaccolata silenziosa che ogni anno parte dalla Piazza Trento e Trieste per raggiungere l’Ippodromo è sfilata sotto quelle finestre. C’erano i genitori di Aldro, gli amici, gli studenti, qualche insegnante, gli Ultras della Spal. C’era la gente comune. Il silenzio della fiaccolata era rotto da un suono macabro, simile al sibilo di un fantasma della lunga notte del ‘43: le tapparelle che venivano frettolosamente abbassate dai condomini. Quel silenzio era insopportabile: rumoreggiava nella coscienza della città di Pino Barilari, della città che si nasconde dietro le tapparelle. Una città che ha abbassato le tapparelle quella notte in cui i manganelli dei custodi dell’ordine pubblico si rompevano mentre Aldro urlava.

Ferrara, Italia.

La notte del ‘43 è la notte della coscienza morale di un’Italia che ha svestito la camicia nera, ma ha lasciato che l’uomo medio – «un pericoloso delinquente, mostro, razzista, colonialista, schiavista, qualunquista», urlava Orson Welles (doppiato da Giorgio Bassani!) ne La Ricotta di Pasolini – continuasse a perpetrare la propria egemonia. Liberatasi dall’incubo della rivoluzione culturale, politica e sociale degli anni Sessanta e Settanta che ha rappresentato, nella sua selvaggia anomalia, l’unico tentativo di creazione autonoma di una cultura, un’identità, un sapere dal basso, scaturito e temprato nel fuoco vivo delle lotte, l’Italia dell’uomo medio ha dissolto il miracolo economico in un pulviscolo sociale rancoroso.

L’italiano medio non è più il punto d’intersezione sociale tra le diverse figure che – dal patto costituzionale tra la classe operaia e la borghesia progressiva alle grandi riforme sociali degli anni Settanta – in modo diverso operavano, anche attraverso il conflitto, per modificare lo stato di cose esistente. L’italiano medio odierno è la media tra le molte non-virtù civiili che esprimono il comune sentire di un paese sull’orlo di una crisi: un paese nel quale – come in The Village, il film di M. Night Shyamalan – l’identità diventa una frontiera, nel quale i sentimenti prevalenti sono la paura, come reazione ad un futuro del quale non si riescono ad identificare i tratti; ed il rancore verso ogni possibile elemento di disturbo della nostra condizione.

È contro questa Italia che sfilano ogni anno gli amici di Aldro. Per quest’Italia, uno come Federico Aldrovandi è un fastidio, un problema. Uno da nominare, da scacciare dalla Casa delle Coscienze Assopite.

Un due tre, viva Pinochet. Quattro cinque sei, Al forno gli ebrei. Sette otto nove, Il negretto non commuove. Così cantavano, nelle loro caserme, alcuni carabinieri, quella sera, a Genova. Il nome di Carlo Giuliani era appena stato reso noto. Per ragioni ancora da spiegare, avevano impiegato ore per identificare un ragazzo già schedato, con un riconoscibilissimo tatuaggio sulla schiena che sporgeva dalla canottiera: molto poco Black Bloc, molto poco in chiave con l’immagine del teppista travisato.

Cinque anni dopo, Haidi Giuliani riconoscerà nella strategia di diffamazione di Aldro gli stessi segni, le stesse insinuanti domande alle quali aveva dovuto rispondere. Il ragazzo era drogato? Aveva animali in casa? Era forse un punkabbestia? Le domande non sono mai neutrali: formulate nel modo giusto, restano impigliate nei gangli della memoria. Se formulate bene, con il giusto tono, prevalgono sulle risposte: predeterminano l’ottica con la quale saranno considerate tutte le successive informazioni. «Come di Federico, – scrive Haidi Giuliani a Patrizia Moretto, madre di Aldro, in una lettera pubblicata il 17 gennaio 2006 su Liberazione – anche di Carlo è stato detto che era un drogato, un poco di buono, uno senza lavoro, senza casa né famiglia, come se esistesse una condanna legittima e automatica alla pena di morte per chi lo fosse davvero. Anche a me è stato impedito per molte, troppe ore, di vedere il suo corpo. Anch’io, come te, non so chi l’ha ucciso. Anch’io, come te, ho aspettato che persone competenti, preposte istituzionalmente a questo compito, restituissero alla sua morte almeno la verità; persone impegnate per legge, così io credevo, ad assolvere il loro compito fino in fondo».

Nel caso di Carlo Giuliani, le registrazioni delle conversazioni tra i carabinieri nelle loro caserme, quel 20 luglio 2001, contengono già la risposta alla domanda “chi è quel ragazzo morto?”: una zecca. “Una zecca del cazzo”. Uno a zero per noi, dice ridendo una poliziotta quella notte. Come due squadre alla partita: noi di qua, le zecche di là. Le zecche sono gli ultras degli stadi, nel gergo dei poliziotti. Sono i “comunisti”, gli anarchici, i No Global. I drogati. Sono gli immigrati clandestini, i migranti, i rumeni, gli zingari. Le palandrane del cazzo, urla nei comizi l’onorevole Mario Borghezio. Scacciamo le zecche! Col fuoco, se occorre. I pagliericci sotto i ponti sono pieni di zecche: sono gli immigrati che ci dormono sopra. Carlo Giuliani era una zecca: come Aldro.

L’italiano medio non ama la complessità: non la comprende, non la trova utile. Le passioni tristi sono un cosa semplice: la paura è un ottimo collante sociale. Funziona: che altro? La complessità è problematica, richiede un lavoro di apprendimento, adattamento, rielaborazione senza fine; richiede la disponibilità a mutare pelle, ad abbandonare gli stereotipi, i pregiudizi. Richiede una flessibilità mentale che spaventa. Negli anni Ottanta, uno dei segnali della restaurazione in corso fu l’improvviso successo, tra una generazione di studiosi che avevano teorizzato la trasformazione dello stato di cose esistente, di teorie sociologiche che consigliavano la riduzione della complessità sociale. Da alcuni anni è considerata un valore la “semplificazione del quadro politico”. Forse qualcuno ricorda ancora che uno degli slogan politici della prima campagna elettorale della cosiddetta “seconda Repubblica” era: “o di qua, o di là”. Non dice forse la stessa cosa quel fine pedagogista che ha messo in moto la riforma della scuola? «La mente umana è semplice e risponde a stimoli semplici» (Giulio Tremonti, “Il passato e il buon senso”, Corriere della Sera, 22 agosto 2008, qui). A dispetto della collocazione (solo a p. 37, non in prima pagina, non tra gli editoriali), questo articolo è una delle più efficaci espressioni dell’egemonia culturale della destra al potere che oggi si dispiega. È un manifesto ideologico, che meriterebbe un’analisi, anche stilistica, minuziosa: non essendo questo il luogo, seguiamone alcune linee direttrici.

La società italiana si sta rinchiudendo dietro uno steccato per proteggersi da mostri immaginari che assediano il villaggio: è il rifugio, è il recinto stesso a generare la paura dell’esterno, dell’aperto. Della diversità. Il villaggio regredisce ad un passato immaginario. «Può essere invece il ritorno al passato e all’800, e molti segni sono in questa direzione, può essere che dall’attuale «marasma» prenda inizio un nuovo futuro», scrive ancora Tremonti nel suo articolo-manifesto. Non importa quanto reale e quanto no – basta che sia anteriore a un numero, il 1968: l’unico numero che il Ministro toglierebbe dalla circolazione. Sostituendo i numeri ai giudizi, il mondo (non solo nella scuola, sostiene Tremonti) ridiventa semplice: come dappertutto i numeri sostituiscono i giudizi. «I numeri sono una cosa precisa, i giudizi sono spesso confusi. Ci sarà del resto una ragione perché tutti i fenomeni significativi sono misurati con i numeri». Su questo Tremonti ha ragione, i giudizi implicano l’attivazione della facoltà del giudicare. Per effetto di quel nefasto numero da togliere – «1968, sintetizzato in 68» – presero piede idee e pensatori che vedevano nella società moderna il germe del totalitarismo nell’atrofizzazione della facoltà di giudicare.

Giudicare è azione anch’essa complicata: più semplice è sostituire categorie come giusto/ingiusto con copie più semplici: bello/brutto, dentro/fuori, amico/nemico. L’obbedienza evita la fatica di pensare. Per effetto di quel numero nefasto, persino i poliziotti cominciarono a pensare. A chiedere la democratizzazione della polizia, che faceva il paio con la virtù della disobbedienza predicata da don Lorenzo Milani, il prete che insegnava ai poveri, inventava la scuola del futuro e finiva sotto processo per aver detto che l’obbedienza non è più una virtù.

Una società democratica è una società nella quale nessuno finisce in galera per aver espresso le proprie opinioni; nella quale il diritto all’istruzione non è un’affermazione teorica, ma un fatto; nella quale non si muore mentre si manifestano le proprie idee, né per aver incontrato una volante della polizia. Ora che il tempo si riavvolge all’indietro, anche la democratizzazione della polizia si è rivelata un’utopia: al suo posto è stato concesso il diritto di sparare, si gridava un tempo nei cortei. A Genova un’intera generazione, cresciuta senza sapere nulla di Francesco Lorusso e Giorgiana Masi, di piazza Fontana e dei morti di Reggio Emilia, scopre quanto è facile morire, nell’Italia di oggi. O quanto è facile uccidere.

L’educazione delle forze dell’ordine è un fatto semplice: noi, loro. Avanzano battendo i manganelli sugli scudi, allo stadio come in via Tolemaide, a Genova. La loro formazione di base è elementare: tutte uguali, le zecche. Compaiono foto del Duce nei portafogli, Faccetta nera nelle suonerie dei telefonini, celtiche bandiere della RSI nelle camerate. Dal Libro Bianco sui fatti di Genova al recente ACAB: All cops are bastards di Carlo Bonini (Einaudi Stile Libero, 2009), ai molti libri-testimonianza di vittime dei pestaggi alla Diaz e a Bolzanetto (come Genova. Il posto sbagliato, di Enrica Bartesaghi, Nonluoghi Libere Edizioni, 2004) le testimonianze sull’educazione e la prassi delle forze dell’ordine pongono un serio problema di democrazia alla società italiana.

E l’esito dei processi per i fatti di Genova dà l’idea di una dilagante impunità. A Genova sono state necessarie migliaia di telecamere in tempo reale per documentare la morte di Carlo Giuliani: a Ferrara il depistaggio, l’occultamento di elementi probanti, le coperture, le false versioni sulla morte di Aldro hanno un che di sciatto, di malfatto. C’è da stupirsi della percezione di intoccabilità che deve aver pervaso i protagonisti attivi di quell’evento, tanto malaccorti sono stati i loro gesti. E quando il blog della madre di Aldro ha cominciato a sgretolare il muro di omertà, la reazione è stata di stizzito stupore prima, e di arroganza poi.

Il 24 febbraio 2006 Gianni Tonelli, segretario nazionale del Sindacato Autonomo di Polizia ha parlato per un’ora, in Questura, seduto tra due esponenti provinciali del SAP. Ha decretato la verità sulle perizie. Ha criticato e dettato l’agenda politica all’opposizione che senza remore ha definito «pavida», «al popolo silente e moderato che non ha voluto dire nulla». Ha stigmatizzato come «azione di sciacallaggio con sfumature politiche, ideologiche e anche culturali» le iniziative di discussione improntate alla richiesta di verità e giustizia. Ed ha attaccato, con nome e cognome, i due presidi delle scuole ferraresi che hanno concesso agli studenti le assemblee per discutere della morte di uno studente, senza preoccuparsi della gravità e della sproporzione di un’accusa lanciata da un dirigente nazionale di un organismo di polizia contro due semplici cittadini: due presidi, Arnaldo Scotti (il cui cuore generoso si è fermato pochi mesi dopo) e Giancarlo Mori, noti in tutta la comunità ferrarese per la dedizione con cui hanno speso un’intera vita per la scuola. Le scuole non devono insegnare a pensare: devono insegnare ad apprendere i fatti, senza interpretazioni. Perché non ci sono, non ci devono essere interpretazioni: solo fatti. Statuto delle studentesse e degli studenti o meno, diritto d’assemblea o no, non c’è nulla da discutere: «una donna ha chiesto l’intervento delle forze dell’ordine perché c’era una giovane persona che per l’alcol e le sostanze stupefacenti si stava facendo del male. Poi purtroppo questa persona è deceduta».

Non ha dubbi il dirigente del SAP.
La vita e la morte sono fatti semplici, si vive e si muore: cosa c’è da interrogarsi sulla morte di uno come Aldro?
Della morte di una zecca?

Il Fatto Quotidiano
21 09 2015

Il pubblico ministero ha appena chiesto otto mesi di reclusione per Erri De Luca. Non si può tutelare chi istiga all’illegalità, ha detto. Mi interrogo su quante volte io abbia istigato a commettere illeciti penali. Primo tra tutti, il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che ho commesso io stessa ben più di una volta. Inutile dire che ne vado fiera.

La Tav va sabotata, aveva detto Erri in un’intervista. E – certo non evitarsi la galera, ma per continuare a esercitare quel diritto di parola che gli si vorrebbe togliere e che invece esige di spiegare le proprie stesse parole contrarie a chi non è in grado o colpevolmente finge di non comprenderle – ci ha raccontato nel suo libro (dal titolo, appunto, “La parola contraria”) i tanti significati del verbo sabotare e come l’esercizio di grammatica non c’entri nulla con un processo nel quale lo Stato neanche si degna di entrare quale parte civile, lasciando a una ditta privata francese tutto l’onere di difendere un’opera pubblicamente definita quale strategica. Se condannato, Erri dovrà risarcire dei privati cittadini francesi. E perché non lo Stato italiano, che tanto sostiene essere essenziale per il Paese l’alta velocità per raggiungere Lione?


Ma mi faccia il piacere. I cittadini italiani non sono così idioti da farsi prendere in giro. E infatti a restare sola questa volta è stata l’accusa. La solidarietà a Erri De Luca è arrivata in massa lungo tutto questi mesi. E continuerà ad arrivare anche sotto le finestre di una galera. Ribellarsi a ordini ingiusti è la cosa più giusta che si possa fare, e la storia ce lo ha insegnato tante volte. Avere sempre in bocca la propria parola, e non quella di qualcun altro, è ciò che ci fa persone. E, se capita che questa sia una parola contraria, non ci faremo spogliare della dignità di uomini nel farcela zittire.

Ci dispiace che le energie e i costi della giustizia debbano essere usati per mettere a tacere le opinioni della gente invece che per fini più seri. Una sentenza di condanna per Erri non sarà mai in nome del popolo italiano. In tantissimi nei mesi scorsi hanno organizzato proteste, maratone di lettura, pagine web a sostegno di De Luca e della libertà di pensiero.

Il codice penale del 1930 va sabotato. E adesso processatemi.

Caso Cucchi, l'inchiesta è a una svolta

  • Martedì, 15 Settembre 2015 14:01 ,
  • Pubblicato in L'ESPRESSO

L’Espresso
15 09 2015


inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi è a una svolta. I magistrati hanno ascoltato numerose persone e non solo i due testimoni “in divisa” che hanno raccontato le confidenze sulla notte dell'arresto di Stefano ricevute da alcuni colleghi . Le indagini, quindi, procedono spedite. Lo conferma anche l'incontro che si è tenuto in queste ore tra il procuratore capo Giuseppe Pignatone e la famiglia Cucchi. «C'è stato un lungo confronto su alcuni aspetti critici della perizia del processo che non evidenziava la frattura recente ora emersa dalla nuova perizia che abbiamo depositato», spiega a “l'Espresso” l'avvocato Fabio Anselmo.

In effetti non si escludono novità eclatanti. Le parole pronunciate pochi giorni fa dalla sorella di Stefano, Ilaria, fanno riflettere: «Quello che posso dire è che Stefano Cucchi è morto perché è stato pestato. E siamo in grado di dimostrare anche il fumo che è stato fatto nel processo e che non ha permesso di arrivare alla verità. Adesso questo fumo si sta diradando».

Insomma, nelle perizie presentate durante il processo qualche anomalia pare esserci. E la nuova radiografia portata ai magistrati dalla famiglia Cucchi sembra dimostrarlo. In quest'ultima, infatti, si può notare una frattura recente riconducibile alle botte subite dal giovane geometra romano. Ne sono certi i familiari e l'avvocato.

Ora spetterà ai magistrati valutare le differenze tra le perizie e le discordanze nella documentazione che sono state decisive finora per garantire l'impunità dei colpevoli. Ecco perché l'indagine sembra essere entrata nella seconda fase. Dopo aver accertato che Stefano Cucchi è stato picchiato, resta da capire perché i periti non avessero notato quella frattura recente.

A questo si aggiunge un particolare non di poco conto: già durante il processo un perito aveva sottolineato come ci fosse un nesso causale tra le percosse e la morte del ragazzo. Insomma, dopo i carabinieri che hanno riferito ai magistrati della preoccupazione per quel ragazzo “arrestato e ridotto male”, dopo la nuova radiografia che evidenzia una frattura recente sul corpo di Stefano, l'inchiesta sembra avviata verso conclusioni molto diverse da quelle emerse nel primo processo.

L’Espresso
14 09 2015

Donne, detenute e abbandonate: la discriminazione corre dietro le sbarre
Negli istituti di pena italiani la popolazione femminile è nettamente minoritaria rispetto a quella maschile. Il numero esiguo delle recluse, però, diventa spesso causa di svantaggi ed emarginazione. Perché organizzare attività ricreative, culturali o lavorative e garantire i diritti che l'ordinamento penitenziario sancisce solo per loro non conviene


Quando si è in minoranza, è ovvio, non si è mai in una posizione di forza. Quando la minoranza è composta di donne, poi, le cose possono andare anche peggio. Così, paradossalmente, il fatto (di per sé positivo) che nelle carceri italiane la popolazione femminile sia nettamente minoritaria si trasforma nell'ennesimo motivo di discriminazione. Su un totale di 52.389 detenuti nei nostri istituti penitenziari (dato aggiornato al 31 agosto scorso), le donne sono 2.131. Il quattro per cento circa dell'intera popolazione carceraria, una percentuale che le costringe a subire una serie di limitazioni nel corso della loro vita dietro le sbarre.

Del problema si sono resi conto anche gli esperti che, per conto del Ministero della Giustizia, stanno elaborando una serie di proposte in materia di riforma dell'ordinamento penitenziario. A luglio, infatti, il ministro Andrea Orlando ha inaugurato gli Stati generali dell'esecuzione penale, una piattaforma di studio suddivisa in 18 tavoli, ciascuno dei quali incaricato di approfondire un tema specifico tra le numerose problematiche che ruotano intorno al mondo delle carceri. E delle donne detenute si occupa il tavolo tre, coordinato da Tamar Pitch, docente di Filosofia del diritto presso l'Università di Perugia.

Il lavoro del gruppo si è rivelato non facile già dall'inizio, perché la suddivisione per temi ha ridotto il suo ambito di azione: in altre parole, la questione femminile è trasversale e, per forza di cose, s'interseca con altri aspetti, come la salute, l'affettività, il disagio psichico, il lavoro, la formazione e così via. Il team della professoressa Pitch, quindi, rischia spesso di sconfinare nella competenza degli altri tavoli e di doversi limitare a prendere in considerazione la sola tutela della maternità in carcere. Tralasciando problemi altrettanto importanti, tra cui, appunto, la possibilità che le donne siano svantaggiate.

“Il numero delle detenute, esiguo rispetto a quelli degli uomini, non può diventare un alibi per la concessione di privilegi, ma non deve nemmeno trasformarsi in un motivo per negare le loro specificità o per precludere l'accesso a diritti sacrosanti”, spiega Laura Cesaris, docente di Diritto dell'Esecuzione penale a Pavia e membro del tavolo tre. Innanzitutto, il principio della territorialità della pena, garantito per legge, viene spesso violato: su 198 istituti penitenziari sparsi per le venti regioni italiane, le donne sono dislocate soltanto in una cinquantina, visto che non tutti sono dotati di sezioni femminili. Il che significa una maggiore probabilità di spostamenti e di allontanamento dal luogo in cui la detenuta viveva o in cui restano i suoi familiari.

Ma non solo. Le discriminazioni esistono anche per quanto riguarda il cosiddetto trattamento penitenziario, ossia quell'insieme di iniziative e di strumenti che l'ordinamento predispone, affinché l'espiazione della pena corrisponda ai principi costituzionali e tenda alla rieducazione del condannato, oltre che al suo reinserimento in società. Il lavoro, per esempio. Oppure le attività culturali, sportive o scolastiche. Ecco, anche da queste le donne finiscono talvolta per essere escluse per mancanza di organizzazione. O meglio, perché l'organizzazione non conviene: troppo poche le detenute, troppe, in proporzione, le risorse da spendere per attività a loro dedicate.

Capita così che in alcuni penitenziari gli uomini abbiano l'opportunità di coltivare la terra e imparare a fare gli agricoltori, mentre le donne no; capita che quelle che vengono chiamate 'aree verdi', cioè spazi all'aperto in cui i detenuti possono incontrare i familiari senza la presenza delle guardie, siano spesso accessibili solo a papà e mariti. Capita persino che le palestre per fare sport siano prevalentemente occupate dalle sezioni maschili. Ma soprattutto succede che i servizi sanitari e la prevenzione di malattie gravi, già carenti a livello generale, siano ancora più inefficienti per la popolazione carceraria femminile perché non adeguati alle necessità fisiologiche delle donne.

“Le segnalazioni di discriminazioni ci sono state. Abbiamo fatto ispezioni e abbiamo in programma di farne in altri istituti dove si sospetta avvengano delle violazioni”, continua Cesaris. Che ricorda, poi, come al 31 agosto 2015 nelle carceri italiane vivano ancora 38 bambini. Anche l'aspetto della genitorialità, infatti, resta un problema: “Per evitare che questi bambini siano costretti a essere reclusi insieme alle madri, a causa della mancanza di un domicilio sicuro dove sistemarli, si dovrebbero incrementare gli istituti a custodia attenuata e le case-famiglia protette”. Per rendersi conto della situazione, però, basta sapere che al momento, nel nostro Paese, esistono solamente tre istituti a custodia attenuata e una casa-famiglia.

Entro il 15 ottobre prossimo, comunque, gli Stati generali dovranno concludere il loro lavoro, ma già il il 15 settembre presenteranno un primo resoconto: “In quel documento noi del tavolo sulle donne e il carcere esporremo le nostre perplessità e inizieremo a fare proposte - prosegue Cesaris -. Bisogna considerare, tuttavia, che nemmeno il nostro compito è agevole perché le donne subiscono una discriminazione nella discriminazione: persino nel monitoraggio a fini statistici effettuato dal Ministero finiscono per essere un po' dimenticate”. Vale a dire che i dati diffusi dall'amministrazione penitenziaria spesso sono globali e questo rende impossibile distinguere tra uomini e donne.

Cosa che succede, per esempio, nella conta degli atti di autolesionismo o dei suicidi: “Estrapolare il dato femminile per il 2014 non è stato semplice - ammette la professoressa -. Alla fine comunque siamo riusciti a registrare un decesso, 57 tentati suicidi e 362 atti di autolesionismo”.

Numeri abbastanza impressionanti, se confrontati con il totale delle detenute in Italia. Forse sono sintomo di un disagio ancora più accentuato di quanto non lo sia quello degli uomini. E allora, quali soluzioni? “Noi non possiamo intervenire nel concreto, non abbiamo poteri di azione o di sanzione e non possiamo certo compiere verifiche in ogni singolo istituto - conclude Cesaris -. Quello che si dovrebbe fare, da parte dell'amministrazione penitenziaria e del Ministero, è incrementare le risorse, le strutture e gli strumenti, in modo che siano sufficienti a rispondere ai bisogni di tutti. E poi, in particolare per le donne, si dovrebbero trovare delle vere alternative alla pena del carcere”.

facebook