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Ogni anno oltre 100 detenuti muoiono per "cause naturali"

  • Giovedì, 12 Marzo 2015 15:38 ,
  • Pubblicato in Flash news

Cronache del Garantista
12 03 2015

E’ dal primo marzo che manca l’infermiere per il turno di notte al carcere sardo di Alghero. Il motivo? Il turno notturno è stato sospeso su decisione del commissario dell’Asl e dietro indicazione del responsabile del servizio.

La motivazione sarebbe quella di poche richieste da parte della popolazione carceraria nella fascia notturna, da qui la decisione di spostare l’infermiere nel carcere di Bancali a Sassari, dove a quanto pare sarebbe stata rappresentata una situazione di emergenza.

Per questo motivo c’è molta preoccupazione tra i detenuti del carcere di Alghero e hanno predisposto una petizione – corredata da un centinaio di firme – che è stata inviata al commissario dell’Asl e alla direzione del carcere. Ma non è un problema isolato. L’intero sistema sanitario penitenziario è in deficit a causa dei tagli

iniziati nel 2012 dal governo Monti e per questo motivo i detenuti non ricevono cure adeguate.

Tagli al personale che incidono anche sulle morti in carcere. Ogni anno oltre cento detenuti muoiono per ”cause naturali”. A volte la causa della morte è l’infarto, evento difficilmente prevedibile, ma altre volte sono le complicazioni di malanni trascurati o curati male e un lungo deperimento, dovuti a malattie croniche.

L’articolo 1 del Decreto Legislativo 230/99, sul riordino della medicina penitenziaria stabilisce che: «I detenuti e gli
internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali».

Dall’entrata in vigore di questa legge sono trascorsi 14 anni, nel corso dei quali le competenze sull’assistenza sanitaria dei detenuti avrebbero dovuto gradualmente passare dal Ministero della Giustizia a quello della Sanità: invece, quello che si è sicuramente verificato è stato il taglio delle risorse economiche destinate alle cure mediche per i detenuti, mentre l’attribuzione delle pertinenze è tuttora argomento di discussione e di confusione.

Nel frattempo i detenuti morti per problemi di salute sono aumentati d’anno in anno. Ma l’assistenza sanitaria in carcere è molto complicata anche perché a volte i detenuti ”usano” la propria salute per cercare di ottenere migliori condizioni di detenzione – una dieta speciale, una cella singola, l’autorizzazione a fare la doccia ogni giorno, farmaci con i quali ”sballarsi” – oppure la detenzione domiciliare o il rinvio della pena. I medici, a loro volta, tendono a considerare tutti i detenuti dei simulatori, a minimizzare di fronte ai sintomi di una malattia, a rassicurare il paziente – detenuto sul fatto che ”non è niente di grave”.

Il comportamento di entrambe le parti impedisce l’instaurarsi di un rapporto di fiducia, che pure sarebbe necessario per l’effettività e l’efficacia delle cure. Così, quando un detenuto muore, una azione di ”depistaggio” viene spesso messa in campo per scaricare su altri la responsabilità dell’accaduto, sia all’interno del carcere – gli agenti non l’hanno sorvegliato, i medici non l’hanno curato, gli psicologi non l’hanno capito, i magistrati non l’hanno scarcerato -, sia all’esterno – non è morto in cella, ma durante la corsa verso l’ospedale, oppure subito dopo l’arrivo in ospedale -, il che vuol dire: «Noi non c’entriamo, il carcere non c’entra, da qui è uscito ancora vivo».

Ed è vero che ci sono delle indagini, che un fascicolo viene aperto in Procura, però le notizie diffuse dai mezzi di informazioni si basano quasi sempre sulle versioni ”addomesticate” che provengono dal carcere. Fanno eccezione solo i casi nei quali i famigliari o gli avvocati del detenuto morto s’impegnano fortemente perché venga fatta chiarezza sulla fine del loro congiunto e, allora, si arriva anche all’accertamento delle responsabilità, a sentenze di condanna, a volte alla rimozione di direttori e dirigenti sanitari.

Damiano Aliprandi

La 27ora
04 03 2015

Oggi è il primo anniversario della morte di Riccardo Magherini, deceduto nelle prime ore del 3 marzo 2014 a Firenze. I suoi familiari e gli amici lo ricorderanno a partire dalle 18 con una funzione religiosa e una fiaccolata a piazza Santo Spirito.

È l’1.20 della notte tra il 2 e il 3 marzo dello scorso anno. A seguito di ripetute segnalazioni circa un uomo che grida aiuto, i carabinieri arrivano a Borgo San Frediano.

Riccardo Magherini ha avuto un attacco di panico. Non è una cosa banale. Chi ne soffre sa di cosa si tratta.

Cosa lo abbia provocato resta oscuro. È a cena in un ristorante di San Frediano, poi si reca in un hotel di piazza Ognissanti. Chiama un taxi, ma qui si impaurisce e scende. Chiede un passaggio a un automobilista, dice che lo stanno inseguendo e vogliono sparargli. Qualcuno lo ha visto litigare con una persona su Ponte Vespucci. Il cellulare che si perde, un bossolo calibro nove di una pistola a salve che viene ritrovato qualche giorno dopo.

Un mese fa, il giudice dell’udienza preliminare del tribunale fiorentino ha accolto la richiesta del pubblico ministero responsabile delle indagini e ha disposto il rinvio a giudizio di sette persone, quattro carabinieri e tre operatori volontari della Croce rossa, con l’accusa di omicidio colposo.

Secondo il pm, Riccardo Magherini morì per arresto cardio-respiratorio e intossicazione acuta da cocaina “associata a un meccanismo asfittico”: i carabinieri intervenuti per eseguire il fermo avrebbero bloccato Magherini a terra premendo con forza eccessiva sulla regione scapolare e sulle gambe. Un’azione non necessaria, eseguita quando l’uomo era già immobilizzato e in manette. Uno dei quattro militari rinviati a giudizio è anche accusato di percosse, avendo in quel frangente preso a calci Riccardo Magherini.

Gli operatori sanitari giunsero 13 minuti dopo e, secondo l’accusa, non valutarono in modo corretto la situazione, non controllarono i parametri vitali e non aiutarono Riccardo Magherini a riprendere una normale respirazione.

Più volte, in quei momenti, Riccardo Magherini chiese aiuto e implorò ”Non ammazzatemi!“.

Il processo inizierà l’11 giugno.

Rom, celle, migranti: l'Italia non è un Belpaese

Buio-ombreDue dossier sullo stato di salute delle carceri e diritti umanitari, ma l'Italia ne esce con le ossa rotte. Uno è quello di Amnesty International, l'altro è il nuovo rapporto annuale del Consiglio di Europa sullo stato di salute delle carceri dell'intero continente e l'Italia - nonostante che si sia registrato un leggero miglioramento - rimane al primo posto tra i Paesi europei che presentano i dati più preoccupanti
Damiano Aliprandi, Cronache del Garantista ...

l'Espresso
26 02 2015

Quattro agenti indagati e un medico nei guai. Sta dando i primi frutti la complicata inchiesta sui pestaggi avvenuti nella “cella zero” del carcere di Poggioreale, nata dalla denuncia di alcuni detenuti ed ex detenuti, che hanno raccontato ai magistrati di essere stati picchiati a sangue da una squadra di agenti della polizia penitenziaria, nel buio di una cella al piano terra del penitenziario napoletano.

I procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppe Loreto e il pm Alfonso D’Avino hanno iscritto nel registro degli indagati quattro agenti della polizia penitenziaria, che ora non sono più in servizio a Poggioreale. Mentre rimane pendente una denuncia nei confronti di un medico del carcere, accusato da uno dei detenuti di non averlo neppure visitato, facendo finta di nulla quando lui si è presentato in infermeria con lesioni tipiche da pestaggio.

Le indagini stanno andando avanti in silenzio e non senza difficoltà, tanto che i magistrati napoletani hanno dovuto chiedere una proroga di sei mesi, in modo da rintracciare testimoni e altre probabili vittime che, nel frattempo, sono stati trasferiti in altri istituti di pena. Intanto, le denunce dei detenuti sono arrivate a quota 150.

Sospetti abusi di potere che anche l’Espresso aveva denunciato, raccogliendo le testimonianze dei detenuti.

Secondo i loro racconti, nell’istituto partenopeo che all’epoca dei fatti - nel gennaio 2014 - era il penitenziario più sovraffollato d’Europa, un manipolo di agenti della polizia penitenziaria, che si faceva chiamare “la squadretta della Uno Bianca”, commetteva abusi di potere e feroci pestaggi nei confronti dei detenuti (soprattutto stranieri o in attesa di giudizio) che venivano portati in una cella vuota e priva di telecamere, denudati, picchiati e infine minacciati perché non rivelassero a nessuno quello che era successo.

Qualcuno, però, ha trovato il coraggio di parlare. Prima con il garante dei detenuti della Campania, Adriana Tocco, che ha inoltrato un dossier alla Procura. E poi con gli stessi magistrati, che ancora in questi giorni stanno incrociando testimonianze e ricordi, andando a ritroso nel tempo e cercando di rintracciare anche detenuti che nel frattempo hanno lasciato il carcere o sono stati trasferiti in altri istituti, cercando di abbattere quel muro di paura e omertà che si sarebbe creato a Poggioreale.

I ricordi di quelle violenze sono ancora ben impressi nella mente di uno dei detenuti, R.L., uno dei primi ad aver sporto denuncia in Procura, che oggi racconta a l’Espresso: “Mi ricordo ancora come fosse ieri, era il luglio del 2013. Mentre mi portavano in quella cella uno degli agenti si sfregava le mani e si toglieva gli anelli, poi continuava a ripetermi: 'Tu sei una brava persona'. E più me lo diceva più io tremavo, perché capivo che stava per succedermi qualcosa”. I dettagli, agghiaccianti, concordano con quelli degli altri detenuti: “Una volta arrivato nella cella, gli altri agenti quando mi hanno visto hanno detto: “E chi è ‘sta munnezza?” Poi mi hanno fatto spogliare completamente nudo. E sono iniziate le botte”.

L’uomo - che era finito in carcere per una vicenda di ricettazione e che oggi ha scontato la sua pena - elenca anche altri dettagli, pure questi finiti sul tavolo del magistrati: “Le vittime di questi pestaggi erano soprattutto stranieri, o comunque persone normali, senza grossi curriculum criminali. Prima di pestare un detenuto, andavano a vedere nei registri chi era e cosa aveva fatto. Non si azzardavano a picchiare i camorristi, per paura di vendette e ritorsioni”.

Nel mirino dei magistrati però non sono finiti solo gli agenti della penitenziaria ma anche un medico, che avrebbe dovuto denunciare d’ufficio le botte subite dai carcerari, e invece non lo avrebbe fatto. “Quando mi sono fatto visitare in infermeria avevo paura a raccontare di essere stato vittima di un pestaggio, però le botte sul mio viso e sul corpo erano inequivocabili - racconta oggi a l’Espresso l’ex detenuto - Ma lui senza neppure visitarmi ha detto: “Torni pure in cella, è tutto a posto”. “In quella cella mi hanno umiliato, mi hanno ferito. Mi hanno annullato come essere umano”.

Accuse pesantissime che devono ancora essere dimostrate. Certo è che la notizia di questa svolta nell’inchiesta sembrerebbe aver dato ragione all’ex detenuto Pietro Ioia, uno dei primi a parlare dell’esistenza della “cella zero”, che oggi fa parte dell’associazione ex detenuti napoletani: “Qualcosa si sta muovendo, dopo anni di silenzio su quello che succedeva in quel carcere. Ora chi ha sbagliato deve pagare. Non dimentichiamoci mai che il carcere deve essere un luogo di recupero per chi sbaglia, non di tortura”.

E qualche effetto positivo, questa inchiesta, l’ha avuto: dopo un’ispezione, sono cambiati i vertici dell’istituto e della polizia penitenziaria e il clima a Poggioreale è decisamente migliore. “Con l’apertura delle celle e l'aumento di varie attività nel carcere - conferma il garante dei detenuti Adriana Tocco - non sto ricevendo più denunce, né verbali, né scritte per abusi e violenze”.

Arianna Giunti

Huffington Post
19 02 2015

Caro Dott. Capece,

Lei che mi accusa di istigare all'odio, cosa ne pensa dei recenti commenti degli agenti appartenenti al suo stesso ordine di polizia penitenziaria sulla morte del detenuto 'rumeno'?

Il detenuto 'rumeno' non era forse un essere umano come tutti gli altri, prima ancora che detenuto e 'rumeno'?

E cosa si vuole esprimere esattamente dicendo 'meno uno' o 'mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l'esempio'? Sbaglio quando dico che c'è un enorme problema culturale?

Caro Dott. Capece, vorrei chiederle, è davvero così convinto che sia io ad infangare l'onore della categoria a cui lei appartiene?
Io credo onestamente di rispettare l'onore della vostra categoria molto più di alcuni dei suoi appartenenti.

Le rammento, caro Dott. Capece, che qualcosa come 140 persone hanno visto mio fratello nel suo calvario, che lo ha portato alla morte in quelle terribili condizioni che tutti sappiamo.

Molti di loro erano suoi colleghi. Forse quei suoi colleghi pensavano 'meno uno'. Ognuno di quei suoi colleghi lo ritengo moralmente responsabile della morte di mio fratello, per il semplice fatto che se avessero compiuto quello che era il loro dovere di pubblici ufficiali, cioè denunciare quello che avevano davanti agli occhi, forse e dico forse mio fratello sarebbe ancora vivo.

E nonostante questo mai e poi mai mi sarei espressa in simili termini nei loro confronti. Mai l'ho fatto, nemmeno nei confronti degli aguzzini di mio fratello.

La invito ad una seria riflessione, caro Dott. Capece.

Ilaria Cucchi

 

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