Cronache del Garantista
27 01 2015
by Fouad Roueiha in Lettere dal carcere
Sembravano banconote da 500 lire siriane, piegate e abbandonate negli angoli delle vie di Damasco. Una volta aperti, i foglietti si rivelavano volantini della campagna Inquzu al baqia, ”Salvate i Superstiti”. Siamo a dicembre del 2014 e un gruppo di attivisti vuol riaccendere i riflettori sulla questione dei prigionieri e dei dispersi dall’inizio della rivolta contro Assad, dal marzo del 2011. «Sono 215.000 i detenuti di cui si ha certezza nelle carceri del regime, lo ha verificato sulla base agli standard internazionali, il Syrian Network for Human Rights (SN4HR)» ci dice Susan Ahmad, la portavoce della campagna.
Numeri che si riferiscono ad un rapporto del SN4HR dell’aprile del 2013, l’ultimo che è stato possibile realizzare, e riguardano solo le persone di cui sono noti il nome, la data e le circostanze dell’arresto. Nello stesso rapporto di parla di 80.000 persone sparite, ma questo numero, come quello dei prigionieri, è ben al di sotto di quello reale. «In molti casi non possiamo registrare gli arresti sommari o le detenzioni perché i parenti hanno paura di parlarne» prosegue la Ahmad «I prigionieri non sono arrestati in virtù di un crimine, tutt’altro. Non sono rari i casi di arresti arbitrari e casuali ai check point, è persino nato un mercato intorno agli arresti: quando una persona viene presa, spesso i famigliari vengono contattati e ricattati da militari che si offrono di “aiutare” a far uscire il loro caro in cambio di una ricompensa a a sei zeri. Ci sono famiglie che hanno venduto casa e rinunciato a tutto, per poi scoprire che loro figlio era morto sotto tortura da tempo».
Capita anche il contrario: quando il regime comunica la morte di un detenuto, i famigliari devono recarsi a recuperare la carta d’identità della vittima e firmare, volenti o nolenti, una dichiarazione in cui si dice che il loro congiunto è morto per cause naturali, rinunciando quindi ad ogni ipotesi di rivalsa legale. «Spesso il cadavere non viene consegnato ed è accaduto più volte che un prigioniero dato per morto bussasse alla porta di casa dopo mesi. Sono migliaia le famiglie che non hanno certezza della morte dei loro cari».
”Salvate i superstiti” chiede la liberazione dei prigionieri di coscienza, di quelli in mano agli estremisti (una goccia nel mare), la fine degli arresti arbitrari e che i colpevoli di abusi siano processati. L’ obiettivo immediato è che tutti i luoghi di detenzione siano rivelati e resi accessibili alle ispezioni e all’intervento della Croce Rossa e della Mezza Luna Rossa siriana e che siano rivelati anche i luoghi di sepoltura. La campagna ha raggiunto l’apice nell’ultima settimana di gennaio, con manifestazioni nel nord della Siria ma anche all’estero, in Libano, Canada, negli USA, o qui in Europa a Londra, Istanbul e Parigi, mentre a Roma e Berlino si muoveranno il 31. Durante le iniziative in piazza si leggono lettere dei prigionieri e si rappresentano le condizioni di detenzione. La protesta si è espressa anche attraverso i social network, invasi di testimonianze, interviste, vignette, e col“twitter storm” del 26 di questo mese. Uno sforzo coordinato dalla società civile che resiste in Siria, ma che ha visto coinvolti i siriani della diaspora sparsi ormai in tutto l’occidente ed il mondo arabo.
La prigionia
Oltre alle carceri, ci sono prigionieri chiusi nelle strutture dei servizi segreti e in luoghi sconosciuti. Basta poco per finire in questi gironi infernali: poche righe scritte da qualche informatore in un “taqrir”, un rapporto, magari una parola di troppo davanti al fruttivendolo sotto casa, la foto di una manifestazione o i contatti sbagliati nella rubrica del cellulare. Può bastare anche solo il trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Le condizioni di detenzione variano, ma sono sempre disumane. Nelle carceri destinate ai prigionieri politici e nelle sedi dei servizi segreti la brutalità delle torture fisiche e psicologiche raggiungono il loro picco. Alle percosse continue e gli elettroshock si aggiungono il freddo, il sovraffollamento, la fame, la mancanza di assistenza sanitaria e condizioni igieniche drammatiche: ogni giorno c’è chi muore di stenti o per banali infezioni. Anche l’umiliazione fa parte della quotidianità, anche le più elementari esigenze fisiologiche sono strumento di tortura, in celle con 50 persone ed oltre in cui si dorme a turno, corpi straziati che si incastrano gli uni con gli altri in cerca di riposo prima di un altro giorno di agonia. Diffuse anche le torture relative alla sfera sessuale, dai “semplici” stupri fino ai casi di detenuti costretti ad assistere o persino a partecipare allo stupro di propri congiunti. In alcune strutture detenuti privilegiati possono comprare, corrompendo i carcerieri, un po’ di dignità, ma si tratta di una esigua minoranza.
Le testimonianze
Già nell’estate del 2012, un rapporto basato su 200 interviste ad ex detenuti realizzato da Human Right Watch (HRW) denunciava il sistematico ricorso alla tortura da parte del regime di Assad, svelando la collocazione di 27 delle numerose strutture segrete e descrivendo nei dettagli i più comuni metodi di tortura riportati dai superstiti. Nel settembre del 2013 HRW ha avuto accesso ad alcuni di questi luoghi dopo la conquista di Raqqa da parte delle forze ribelli. Qui sono stati trovati strumenti di tortura e documenti che provano i crimini descritti nel precedente rapporto. Le prove più consistenti sono però nel cosiddetto “rapporto Caesar”: un documento di 31 pagine con le foto di 11.000 corpi, trafugate dal disertore chiamato Caesar, che tra settembre 2011 ed agosto 2013 aveva il compito di fotografare e catalogare i morti nelle prigioni di Assad di un’area del Paese. Immagini esaminate da giuristi e procuratori del calibro di Desmon De Silva, ex procuratore capo del Tribunale Speciale per la Sierra Leone, che ha detto al quotidiano britannico The Guardian che le prove «documentano uccisioni su scala industriale» e ha aggiunto: «Questa è la pistola fumante che non avevamo mai avuto prima » mentre David Crane, anche lui tra i procuratori del Tribunale Speciale, ha affermato che: «Si tratta esattamente del tipo di prove che un procuratore cerca e si augura di trovare. Ci sono foto con numeri che corrispondono a documenti governativi e c’è la persona che le ha scattate. Sono prove che vanno al di là di ogni ragionevole dubbio». Tuttavia, nonostante le foto siano state mostrate al Congresso USA ed al Consiglio di Sicurezza dell’ Onu, non ci sono state conseguenze per il regime di Assad che oggi sembra sempre più riabilitato, quasi un alleato dell’occidente nella lotta contro il sedicente “Stato Islamico”.
Presente e memoria
Le foto trafugate da Caesar mostrano corpi emaciati, con chiari segni di percosse e torture elettriche, alcuni hanno gli occhi cavati o altre mutilazioni. Foto che ricordano tragicamente quelle scattate dall’Armata Rossa 70 anni fa nel campo di Auschwitz. C’è un filo rosso che lega il 27 gennaio del ‘45 ed il nostro presente e non è solo nella similitudine tra quelle foto: il regime di Hafiz al Assad, padre dell’attuale dittatore Bashar, si era servito della consulenza di vari criminali di guerra nazisti nel formare ed addestrare i servizi segreti e le forze speciali. Il più noto era l’austriaco Alois Brunner, la cui morte è stata accertata solo quest’anno. Il gerarca, ritenuto responsabile dell’uccisione di 140.000 ebrei, giunse in Siria nel 1954 dove divenne consigliere di Hafiz al Assad col nome di Dr. Georg Fischer. Nella sua ultima intervista, rilasciata nell’ 87 dalla sua casa di Damasco, Brunner dichiarò «Tutti gli ebrei meritavano di morire, erano agenti del demonio e la feccia dell’umanità. Non mi pento e lo rifarei ancora».
Forse dovremmo ripensare il senso della Giornata della Memoria: si dice che, quando l’Armata Rossa entrò ad Auschwitz, il mondo scoprì le dimensioni tragiche dell’olocausto nazi-fascista. Stavolta non ci sono scuse, sappiamo in dettaglio cosa sta succedendo in Siria, continueremo a ripeterci, con aria contrita, “Mai più!” o faremo qualcosa per fermare lo sterminio in atto ?
Cronache del Garantista
22 01 2015
Ennesima tragedia all’interno dell’oramai famigerato ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Un detenuto, un cinquantenne italiano, si è suicidato con un cappio ricavato dalla sua maglietta. Per farlo ha aspettato la fine dei controlli giornalieri. Dopodiché ha scambiato due parole con un infermiere e ha guardato gli agenti e il personale allontanarsi dalla cella. Poi, una volta rimasto solo, si è tolto la maglietta intima e l’ha trasformata in un cappio da legare alle sbarre della cella. L’ennesimo dramma è accaduto i primi di gennaio, ma la notizia è emersa ed è stata confermata solo in questi giorni.
Un caso che va ad allungare una lista nera, composta di suicidi, morti che potevano essere evitate – come il caso del ragazzo 29enne morto per soffocamento proprio nel medesimo opg – e tentativi di togliersi la vita, ma anche di gesti di autolesionismo e aggressioni.
«Noi continuiamo a ribadire la necessità di creare una stanza di decompressione, priva di suppellettili, imbottita. Per evitare il peggio e fare attività di prevenzione». A parlare è Michele Malorni del sindacato degli agenti penitenziari Sappe. Che pone l’attenzione su una questione che appare sempre più confermata e ineludibile: «Non si può paragonare un opg a un ospedale. Non si può paragonare una cella a una stanza di ricovero. Qui le stanze sono di cemento armato. Qualche tempo fa avevamo avuto un caso di un internato che continuava a sbattere la testa contro il muro. Sono gesti di autolesionismo che è difficile contenere!».
Oggi nei sei reparti dell’opg di Reggio Emilia sono ricoverate 142 persone (fino a qualche anno fa erano più del doppio), tutti uomini. Ma di questi sono trenta quelli sistemati nel reparto di stretta sorveglianza, guardati a vista 24 ore su 24, e sempre accompagnati negli spostamenti anche dalla polizia. «La struttura del carcere, con le inferriate e le celle, non è adatta a tutti. Alcuni di loro – fa notare sempre Michele Malorni -, quelli che si dimostrano più aperti al dialogo e più collaborativi, dovrebbero essere sistemati in ambienti diversi, dove possano essere curati e riabilitati. Vanno pensate soluzioni alternative».
Ma la storia sulla chiusura e alternativa all’opg è fatta di scadenze non rispettate, infinite proroghe e continue promesse. L ’ultima proroga aveva sollevato reazioni, in particolare quella dell’ ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel firmare il decreto legge aveva espresso «estremo rammarico, per non essere state in grado le Regioni di dare attuazione concreta a quella norma ispirata a elementari criteri di civiltà e di rispetto della dignità di persone deboli». L’ex capo dello Stato aveva comunque «accolto con sollievo interventi previsti nel decreto legge per evitare ulteriori slittamenti e inadempienze, nonché per mantenere il ricovero in ospedale giudiziario soltanto quando non sia possibile assicurare altrimenti cure adeguate alla persona internata e fare fronte alla sua pericolosità sociale». Il decreto legge del marzo scorso, infatti, prescrive che «il giudice disponga nei confronti dell’infermo o del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dal ricovero in opg o in una casa di cura e di custodia, a eccezione dei casi in cui emergano elementi dai quali risulti che, ogni altra misura diversa dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario non sia idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale».
Il ministro della giustizia Andrea Orlando però ci prova a far rispettare i termini e ci ha messo la faccia durante la sua relazione al Parlamento sull’amministrazione della Giustizia nel 2014, illustrata tre giorni fa alla Camera. «Quanto al tema degli ospedali psichiatrici giudiziari – ha detto il ministro durante la relazione – il superamento di questo modello ha, purtroppo, subito una proroga, per la complessità delle procedure necessarie alle Regioni per realizzare le strutture sanitarie sostitutive ». E ha sottolineato che «l’impatto delle innovazioni legislative sugli opg viene costantemente monitorato attraverso la rilevazione delle presenze degli internati negli opg del territorio nazionale e attraverso l’analisi delle ordinanze emesse dall’autorità giudiziaria. E ciò al fine di rilevare le condizioni di perdurante pericolosità degli internati, confermando o revocando in ragione di ciò le misure di sicurezza». Infine ha concluso: «È stato costituito presso il ministero della salute l’Organismo di coordinamento per il superamento degli opg: l’obiettivo è quello di evitare ulteriori ritardi e arrivare entro il termine stabilito alla chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari».
Ma c’è gran scetticismo nell’aria. Alcuni dati fanno emergere che la promessa sarà difficile da mantenere. Se si considera che attualmente la regione Piemonte ha già previsto che dovranno passare altri 24 mesi per la realizzazione della struttura sanitaria alternativa, si arriverà dunque a fine 2016 per abolire l’opg in quella regione. Ancora peggio per la struttura sanitaria di Abruzzo e Molise: sono stati stimati 2 anni e 9 mesi. Si arriverà, in questo caso, all’estate del 2017. Ci sarà l’ennesima proroga, oppure il commissariamento delle regioni non in regola come prevede il nuovo decreto legge del marzo scorso?
Cronache del Garantista
19 01 2015
La stretta repressiva invocata da Alfano esiste già. Basta essere musulmani e sospettati di terrorismo per vedere i proprio diritti negati. Leggi speciali, ritiro del passaporto e applicazione di misure antimafia a sospetti terroristi. Questo è ciò che prospetta il ministro degli interni Angelino Alfano come reazione all’attentato jihadista al Charlie Hebdo, a Parigi. Ancora una volta lo stato di diritto vacilla e c’è un’attenzione particolare alle nostre disastrare carceri. Che l’istituzione carceraria rischi di diventare una fabbrica di nuovi terroristi è una realtà più che concreta.
Un ragazzo musulmano che entra in carcere per un furtarello, corre il pericolo di subire un lavaggio del cervello dai fanatici religiosi e magari essere reclutato per entrare a far parte di una cellula terroristica. Ma il reclutamento viene facilitato proprio dalla repressione che avviene all’interno delle carceri e che Alfano vorrebbe accentuare ancora di più in nome della lotta al terrorismo.
La Guantánamo italiana. Fino a qualche tempo fa l’Italia aveva una piccola Guantánamo, ovvero il carcere “speciale” sardo di Macomer che provocò numerose proteste da parte dei detenuti islamici – la maggior parte di loro in attesa di giudizio – per presunte persecuzioni religiose e civili nel regime di massima sicurezza. L’associazione Antigone denunciò i maltrattamenti a cui sarebbero stati sottoposti i presunti terroristi fin dal loro arrivo nel carcere, Presunte violenze confermate anche all’avvocato Rainer Burani, legale di numerosi imputati di 270bis.
“I detenuti mi hanno riferito di non poter comprare le medicine, che costano molto, perché non hanno le possibilità economiche e il carcere non le passa. Inoltre non hanno la possibilità di lavorare in prigione”, raccontò il legale. “Bisogna tener conto che molti di loro non ricevono soldi né pacchi dalle famiglie, anche perché spesso si trovano in Italia da soli”. Particolarmente dure le condizioni di carcerazione: “Mi hanno detto che vivono in isolamento continuo, con il passeggio attaccato alla cella di sette metri quadrati e la porta sempre chiusa – proseguiva Burani -. Inoltre non possono avere vestiti personali né possono contattare i volontari, anche per motivi religiosi”. “Questi detenuti sono sottoposti in modo quasi burocratico all’isolamento”, spiegò un altro avvocato specializzato della difesa dei presunti terroristi, Luca Bauccio.
“Il dramma è che si è passati da una politica emergenziale a una normalizzazione dell’emergenza. I 270bis sono trattati con un automatismo burocratico – che prevede l’isolamento e altre misure – senza che alla base ci sia una valutazione reale dei rischi e della loro pericolosità”. Nel 2009 i detenuti musulmani sottoposti al regime duro al carcere di Macomer inviarono una lettera descrivendo la loro condizione, esordendo con queste parole di denuncia. “Vogliamo raccontare alla associazione gli abusi di potere contro i prigionieri islamici che si verificano al carcere di Macomer (Nuoro). Una piccola Guantánamo nell’isola di Sardegna. Però adesso i prigionieri di Guantánamo stanno meglio di noi che siamo chiusi in questo lager”. Oggi il carcere in questione è stato chiuso, e i detenuti sono stati trasferiti in altre carceri speciali.
Livello di sicurezza AS2. Per i detenuti musulmani accusati di terrorismo, nel 2009, è stato creato appositamente un nuovo livello sicurezza, denominato Alta sicurezza secondo livello (As2), con particolari caratteristiche: isolamento dagli altri reclusi, colloqui e telefonate in numero ridotto (quattro al mese invece di sei), ora d’aria da svolgersi in aree particolari, porta della cella blindata sempre chiusa. E inoltre niente radio né televisione, divieto di leggere giornali arabi, libri e vestiti centellinati, posta controllata e fornelli del gas consegnati giusto il tempo necessario per cucinare e subito ritirati.
Ma soprattutto nessuna possibilità di entrare in contatto con gli altri detenuti, anche per evitare il rischio di proselitismo tra gli islamici imputati di reati comuni. In pratica un circuito speciale all’interno del circuito speciale ad alta sicurezza e ovviamente i detenuti considerano questo modo di procedere una ghettizzazione e un’etichettatura ingiusta, subita per di più prima ancora di essere stati condannati. Quanti di essi poi, per reazione, rischiano davvero di diventare terroristi veri? Attualmente sono circa una quarantina, tutti maschi, i detenuti islamici rinchiusi nelle prigioni italiane e accusati di terrorismo internazionale, il reato previsto dall’articolo 270 bis del codice penale. E questo reato – utilizzato recentemente anche per accusare i tre ragazzi No Tav, recentemente assolti – è un regalo di Al Qaeda.
Nella sua versione attuale venne infatti istituito dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle, quando la situazione politica internazionale, con le guerre in Iraq e Afghanistan, radicalizzò ulteriormente l’attività dei gruppi islamici. La conseguenza fu quella di estendere un reato che puniva gli atti di violenza compiuti contro lo Stato italiano anche a quelli mossi in atto contro altri paesi. Per molti avvocati penalisti, si tratterebbe di una mostruosità giuridica. “È chiaro che lo Stato deve difendersi, ma ho forti dubbi che gli episodi che ci troviamo a trattare in Italia possano essere inquadrati come terrorismo internazionale”, spiegò ad esempio Carlo Corbucci, legale di molti imputati per il 270bis e autore del libro “Il terrorismo islamico in Italia: realtà e finzione”. Ma a preoccupare Corbucci sono soprattutto le successive modifiche apportate all’articolo 270: “L’ultima versione, il 270 quinqes, arriva a colpire anche chi scarica materiali, o semplicemente li visiona, dai siti internet considerati vicini ad Al Qaeda”.
Il ruolo dei magistrati. Il ministro Alfano ha posto una particolare attenzione alle carceri, nelle quali sono recluse decine di migliaia di stranieri, molti dei quali provenienti dal mondo arabo. E viene rispolverato un dossier redatto nel 2010 dall’allora capo del Dap Franco Ionta, che parlò di circa 40mila detenuti sensibili al richiamo integralista islamico.
Si rischia così nuovamente – al livello istituzionale – di equiparare la fede religiosa islamica al terrorismo. Il dossier in questione è composto da 136 pagine e spiega in maniera dettagliata il rischio potenziale del reclutamento jhadista. Per arrivare a compilare la lista dei possibili reclutatori la polizia penitenziaria ha monitorato “i normali aspetti di vita quotidiana” di centinaia di carcerati: “flussi di corrispondenza epistolare, colloqui visivi e telefonici, somme di denaro in entrata e in uscita, pacchi, rapporti disciplinari, ubicazione nelle stanze detentive, frequentazioni e relazioni comportamentali”.
Informazioni che confermano quanto avevano segnalato i servizi segreti con un rapporto nel quale indicavano “un’insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta da “veterani”, condannati per appartenenza a reti terroristiche, nei confronti di connazionali detenuti per spaccio di droga o reati minori”. In realtà i dati non sono attendibili perché si rifanno agli atti giudiziari che hanno portato in carcere i presunti terroristi. Ciò significa che l’analisi si è fatta in base alle accuse ancora non confermate dalla Cassazione. Dagli atti sono state identificate varie sigle che ipoteticamente ricercano nuovi affiliati: si tratterebbero del Gruppo Salafita per la predicazione ed il combattimento (Algeria); Gruppo islamico combattente marocchino; Ansar ai-Islam (Medio Oriente); Hamas ) e naturalmente al Qaeda.
“L’elemento psicologico ed emozionale di cui l’individuo è vittima entrando nel sistema carcerario – segnala il rapporto del Dap – è divenuto col tempo un fertile terreno per i reclutatori delle organizzazioni estremistiche islamiche, che nell’ambito del sistema carcerario hanno saputo col tempo costruire una poderosa rete di controlla e manipolazione”. Ma il rapporto dimentica di citare le condizioni dure cui l’istituzione carceraria sottopone i detenuti in attesa di giudizio di fede musulmana e accusati di terrorismo. È elemento psicologico “perfetto”, supportato dallo Stato.
Damiano Aliprandi
Corriere della Sera
14 01 2015
Anche se un detenuto volesse riverniciare gratis il muro del carcere non può farlo . Se il detenuto lavora la legge impone di pagargli lo stipendio, solo che non ce n’è per tutti. Guarda anche l’inchiesta di Report Il risarcimento
di Milena Gabanelli. Video di Claudia Di Pasquale
Visiti un carcere e misuri il grado di civiltà di un Paese. Rispetto a tutto il mondo occidentale l’Italia, “a parole”, ha maggior sensibilità per il disagio umano, salvo poi infilare 6 detenuti in uno spazio dove ce ne dovrebbero stare 2. Quando la situazione si fa calda, si rimedia velocemente con indulti e decreti svuotacarceri. Il risultato è che il 70% dei condannati, una volta scontata la pena, torna a delinquere. Se la funzione del carcere è quella di restituire alla società un individuo riabilitato, è evidente che qualcosa non va. Eppure, già nel 1975, siamo stati fra i primi ad introdurre le misure alternative al carcere con l’affidamento in prova al servizio sociale. Oggi gli affidati sono circa 12.000, ma è difficile sapere se chi ha evitato il carcere, poi mantenga un comportamento corretto (non spacciare droga, fare il lavoro che gli è stato assegnato...). Questo perché l’assistente sociale, che dovrebbe incontrare l’affidato una volta la settimana, sia a casa che al lavoro, lo vede se va bene 1 volta ogni 2 mesi. Del resto, a Padova, sono in 8 a seguire più di 1000 casi; a Roma in 36 con 3000 casi.
In tutta Europa e negli Stati Uniti, attorno alle misure alternative sono stati organizzati progetti controllati e coordinati. Per esempio a Portland (Usa), i detenuti tengono in vita uno dei parchi urbani più prestigiosi al mondo, quello delle rose, con 600.000 visitatori l’anno. I dati Usa dicono che chi passa da questa “misura” torna a delinquere nel 10% dei casi, rispetto al 25% di chi va in carcere. Poi c’è l’aspetto economico: un detenuto in cella costa 170$ al giorno, ai servizi sociali ne costa 1,43. In Olanda ormai le pene alternative hanno superato quelle detentive, sono in media 40.000 l’anno: vengono mandati a lavorare negli ospedali e nei centri anziani.
Ovunque però il grosso della partita si gioca dentro alle carceri. La nostra legge prevede di occupare i detenuti non pericolosi con i lavori di pubblica utilità su base volontaria a titolo gratuito, ma buona parte dei sindaci nemmeno sa che può farne richiesta per ridipingere i muri dai graffiti o pulire gli argini dei fiumi. È previsto anche l’obbligo per l’amministrazione carceraria di dare un’occupazione al condannato in via definitiva, poiché il lavoro è lo strumento principale per il reinserimento nella società. Il problema è che il detenuto se lavora, per legge, va pagato. Giusto. Solo che i soldi per pagare i 54.000 detenuti non ci sono. Quindi alla fine lavorano in pochi, e a rotazione, e solo l’1% si occupa di manutenzione ordinaria. Intanto 4000 posti nelle carceri sono diventati inagibili e sono in corso appalti per decine di milioni di euro. Se fossero i carcerati a intonacare o riparare i rubinetti, invece di spendere 500 milioni di euro per il piano carceri, spenderemmo meno e lavorerebbero tutti. È sempre una questione di soldi: il sistema penitenziario costa complessivamente 2 miliardi e 800 milioni euro l’anno, che vuol dire circa 4000 euro al mese a detenuto. Si può uscire da questa spirale di inefficienza colpevole guardando anche come fanno gli altri?
Nelle carceri irlandesi praticamente tutti i detenuti fanno qualcosa. Quelli che lavorano a tempo pieno in cucina, in lavanderia e nella manutenzione arrivano a 18 euro la settimana e hanno diritto alla cella singola con doccia in camera e a volte anche col computer. Si chiamano superior deluxe rooms. Ce ne sono 140.
In Austria per ogni ora di lavoro riconoscono dai 7 ai 10 euro, ma il 75% rimane all’amministrazione per le spese di mantenimento. In carcere il detenuto impara a fare il falegname o il panettiere, e spesso succede che, quando ha finito di scontare la pena, viene assunto. Nel carcere americano di Portland lavora il 60% dei detenuti. Lo stipendio viene calcolato, ma l’amministrazione se lo tiene a compensazione del costi di mantenimento e dà al detenuto circa 50 dollari al mese per le piccole spese. Non è obbligatorio lavorare, ma se lo fai, anche qui c’è uno sconto di pena e dei benefits.
Noi, al contrario, tratteniamo dallo stipendio 50 euro per le spese di mantenimento. Così a lavorare sono in pochi, perché i soldi non ci sono. E quei pochi lavorano pure in condizione di disparità. Chi si occupa della mensa per conto dell’amministrazione penitenziaria per esempio prende uno stipendio di 400 euro al mese, se invece lavora per le cooperative prende fino a 1200 euro. Proprio domani scade la convenzione con un decina di cooperative che gestiscono le mense dentro le carceri. Era una sperimentazione, sicuramente conveniente per le coop: la cucina e le derrate le compra il ministero, mentre la coop deve provvedere a pagare lo stipendio a quei 6 0 7 che preparano i pasti. Come vengono scelti quei pochi “fortunati?”. Chi lo sa. Certo è che alle cooperative abbiamo delegato molto in cambio di sgravi fiscali: 16 milioni di euro solo l’anno scorso. Molte fanno attività nobilissime, ma se parliamo di “lavoro”, a parte l’eccellenza di Bollate (che impegna quasi il 50% dei detenuti ), è quasi il nulla. Al femminile di Rebibbia lavorano in 10. Al Regina Coeli invece c’è solo una lavanderia, lavorano in 2, tra i fondatori della coop l’ex brigatista Anna Laura Braghetti, la carceriera di Aldo Moro. A Secondigliano su 1300 detenuti solo una ventina lavorano, fra cui alcuni ergastolani con storie da 41 bis (condannati per mafia, omicidi, traffico di droga). Loro coltivano le zucchine pagati dalla cooperativa di turno, mentre gli altri, quelli che scontano pene meno gravi e certamente usciranno, guardano il soffitto.
L’alternativa è continuare a difendere il principio che il lavoro va remunerato e se non ci sono risorse, pazienza… oppure cambiare strada, organizzarsi in modo da rendere le carceri autosufficienti, far lavorare tutti quelli che lo vogliono, insegnare loro un lavoro, calcolare lo stipendio, ma trattenere le spese di mantenimento, lasciando al detenuto quel che gli serve per le piccole esigenze, concedergli sconti di pena, permessi, celle decenti. È una proposta che evoca “il lavoro forzato” o è una soluzione pragmatica e civile?