l'Espresso
21 01 2015
Lunedì 26 gennaio al Parco della Musica una serata straordinaria con la partecipazione di Ute Lemper e altre star della musica. In programma l'esecuzione di musiche scritte da compositori internati nei lager nazisti. Gli spartiti son stati recuperati e catalogati grazie a uno studioso italiano
C'è “qualcosa” che non è morta nei campi di sterminio nazisti, malgrado la furia omicida delle SS, le camere a gas, le persecuzioni, le atrocità che portarono allo sterminio di circa 6 milioni di ebrei innocenti. E' la musica – classica, sinfonica, lirica, jazz, leggera – composta quasi tutta clandestinamente da un manipolo di irriducibili musicisti internati che, prima di scomparire nei lager tra atroci sofferenze, ebbero la forza di dare vita a spartiti, arie, opere, componimenti classici e leggeri che a ragione “ fanno parte del patrimonio musicale del Novecento”, afferma il professor Francesco Lotoro, pianista, docente del Conservatorio “U.Giordano di Foggia”, esponente della Comunità Ebraica di Trani, una vita dedicata al recupero delle musiche nei lager nazisti.
La musica che doveva nascondere l'orrore
Per la prima volta una parte (piccola ma significativa) delle note che videro la luce nel buio dei campi di concentramento nazisti – a partire da Auschwitz, ma anche di tanti altri analoghi luoghi di internamento sparsi in Europa e nei vari teatri di guerra nel corso della seconda guerra mondiale -, sarà eseguita lunedì prossimo 26 gennaio. L'occasione, il settantesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche.
L'appuntamento è a Roma, al Parco della Musica, al concerto a ingresso libero (inizio ore 21) “Tutto ciò che mi resta – Il miracolo della musica composta nei lager” – con la partecipazione straordinaria di Ute Lemper – curato dal professor Lotoro. La serata – che si svolge sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana – è organizzata da Viviana Kasam e Marilena Citelli Francese e dalla Fondazione Musica per Roma in coproduzione con l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia e l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. I testi e le musiche – scelte tra le opere catalogate e salvate dai lager dal professor Lotoro e inserite nella monumentale enciclopedia Tesaurus Musicae Concentrationariae – saranno interpretati da un cast di artisti internazionali. Marco Baliani leggerà la genesi degli spartiti composti nei campi da autori ebrei che, “tra le atrocità del posto, erano costretti dai loro aguzzini ad esibirsi, tra l'altro, per intrattenere i gerarchi nazisti, a comporre musiche originali, molte delle quali furono tenute nascoste. Un patrimonio artistico-musicale che solo dopo lunghe ricerche svolte nel dopoguerra, ora possono vedere la luce”, racconta Lotoro.
Al Concerto della Memoria di lunedì prossimo sarà, quindi, eseguita solo una piccolissima parte dell'enorme patrimonio lirico-sinfonico-jezzistico composto nei lager. Dalle ricerche del professore (“Ma c'è ancora tanto da lavorare e da scoprire”, è solito ripetere) risulta che i musicisti internati nei lager nazisti furono oltre 1600 e che le partiture composte furono oltre 4 mila, “solo il 10 per cento delle quali totalmente recuperate, circa 500 composizioni”. Vale a dire una comunità internazionale di musicisti, in gran parte ebrei, ma anche di altre nazionalità, che in alcuni periodi furono in grado di dare vita a decine di formazioni musicali, sia maschili che femminili, come a Birchenau, come ad Auschwitz dove si esibivano ben sei gruppi, tra cui anche un complesso jazz.
Il gruppo più noto è forse quello che appare nella storica gigantografia all'ingresso di Auschwitz, “dove i musicisti su ordine degli aguzzini nazisti erano costretti a suonare tutti i giorni per dar vita ad un finto clima di serena accoglienza per l'arrivo degli internati”, quegli stessi musicisti che, insieme a tanti altri sfortunati colleghi – conclude Lotoro - “composero musiche struggenti che l'atrocità nazista non riuscì a distruggere e che oggi contribuiscono a ricordarci, con la forza della musica, uno dei momenti più bui della nostra storia”.
Orazio La Rocca
Pagina 99
15 01 2015
Trecento persone. È il numero degli ebrei italiani che nel 2014 ha scelto di fare l’aliyah, l’emigrazione verso Israele. Una piccola cifra se paragonata all’esodo che riguarda la Francia, ma nel nostro Paese la comunità è molto più ridotta, attestandosi intorno ai 35 mila membri, secondo le stime della comunità ebraica di Milano. «Non è una migrazione colossale, però è un dato interessante se uno guarda la serie storica» spiega il professor Sergio Della Pergola, docente di Studi sulla popolazione ebraica all’Università di Gerusalemme. «L’immigrazione più massiccia è avvenuta subito dopo la Guerra dei Sei giorni, quando si arrivò al massimo storico, poco più di 350 persone», continua Dalla Pergola. «Quest’anno siamo alla cifra più alta a partire dagli anni ‘70».
Quello degli olim, questo il nome degli ebrei che vanno a vivere in Israele, è un fenomeno in crescita da almeno 10 anni. Come ci racconta ancora Dalla Pergola: «A partire dal 2003-04 si è verificato un continuo incremento nel numero degli immigrati verso Israele. Se guardiamo i dati degli anni precedenti, sia nel 2013 che nel 2012 il numero è di circa 130-140 persone. Nel 2014 abbiamo un raddoppio rispetto ai dati dei due anni precedenti, che a loro volta erano più alti rispetto a quelli di tutto l’ultimo decennio».
Ma chi sono i nuovi israeliani di origine italiana? «Ce ne sono due tipi» racconta al telefono da Tel Aviv Fiammetta Maregani. «Quelli come me che non vengono solo per ragioni legate al sionismo, ma anche per motivi culturali ed economici, e quelli invece più legati agli ideali religiosi e sionisti». Ricercatrice in antropologia all’Università di Tel Aviv, Martegani si è trasferita in Israele nel 2012. «Fino a dieci anni fa – spiega – quelli che facevano l’aliyah per ragioni politiche e religiose erano più numerosi. Oggi, vista anche la crisi in Italia, molti si trasferiscono per motivi economici».
A differenza di altri casi in Europa, come quello della comunità ebraica francese, i motivi che spingono a salire su un aereo per trasferirsi sull’altra sponda del Mediterraneo non sono legati alla paura dell’antisemitismo. «L’Italia non è la Francia. Dal mio punto di vista l’antisemitismo in Italia è quasi inesistente, e non è un motivo per scappare» dice Stefano Jesurum, giornalista, consigliere della Comunità ebraica di Milano e autore del libro Israele nonostante tutto (Longanesi). Per Jesurum i motivi del boom di aliyah sono da ricercarsi nella crisi economica e nella possibilità di contare su una rete di conoscenze nel Paese di arrivo: «Chi ha la possibilità di avere degli agganci in Israele prova a emigrare. Soprattutto i giovani. Un paio di figli di miei amici sono andati lì non tanto con l’idea di trasferirsi, ma perché qui non trovavano lavoro».
Sarebbe impreciso però ridurre l’emigrazione verso Israele a una scelta dettata esclusivamente dalla mancanza di lavoro. Per chi parte, crisi e motivazioni religiose non si escludono a vicenda, anzi. «Israele offre l’opportunità di vivere il proprio ebraismo in maniera più completa. Parecchie famiglie che hanno coltivato il sogno venirci ad abitare oggi si trovano in una condizione che spinge a fare il salto» ragiona da Gerusalemme Jonathan Pacifici. In Israele dal 1997, Pacifici è il fondatore e direttore generale del fondo di Venture Capital JP & Partners e gestore del sito Torah.it. Dal suo punto di vista è sbagliato ridurre tutto alla semplice questione economica: «Io starei attento a descriverla come un’immigrazione di opportunità: perché è comunque determinata da un forte attaccamento identitario, a volte i due elementi si sovrappongono. Fare una vita pienamente ebraica in Italia non sempre è facile, soprattutto per chi ha difficoltà economiche. Il cibo kosher è più caro rispetto a quello di un normale supermercato e l’iscrizione a una scuola ebraica incide pesantemente sulle finanze delle famiglie».
L’impossibilità di coniugare valori ebraici con la vita in Italia è alla base della scelta di Micol Picciotto ed Edoardo Marascalchi, giovane coppia residente a Netanya (30 km da Tel Aviv). «Ci siamo trasferiti quando abbiamo scoperto che aspettavamo il primo figlio» racconta Edoardo, «ci siamo chiesti cosa aveva da offrire Milano a dei bambini ebrei e abbiamo deciso fare l’aliyah. A Milano vivere rispettando la kasherut è costosissimo, in Israele è più economico. Gli stipendi sono paragonabili a quelli italiani e per un osservante c’è tutto, posso scegliere fra tre scuole religiose e dieci non religiose».
Fino allo scoppio della crisi a fare l’aliyah erano soprattutto i giovani, che generalmente sceglievano di rimanere dopo un anno di studio, tanto che la maggior parte degli olim erano studenti sotto i 21 anni. Oggi la situazione è cambiata completamente e a trasferirsi sono soprattutto le famiglie. Secondo i dati dell’Irgun Olè Italia (l’associazione degli olim italiani) il 64% dei nuovi arrivati è sposato.
È cambiata anche la geografia delle partenze: mentre prima si trasferivano soprattutto milanesi, oggi l’aliyah riguarda Roma in primis: il 77% degli emigranti proviene dalla comunità capitolina e solo un modesto 14% da quella milanese. Le ragioni sono da cercare nella composizione socio-economica della comunità ebraica romana, come ci spiega il professor Della Pergola. «A Roma c’è un ceto di piccoli commercianti che è fortemente danneggiato dall’attuale congiuntura, e quindi più interessato a emigrare. Si tratta principalmente di un’immigrazione a basso reddito dovuta al fatto che l’economia israeliana ha retto molto meglio di quella italiana».
L’aumento del flusso di immigrati fa sì che molte famiglie scelgano di vivere in città fino ad oggi poco abitate da italiani. Fino al 2010 chi arrivava dal nostro Paese sceglieva come luogo di residenza grandi città come Gerusalemme e Tel Aviv. Quest’ultima è da sempre il fulcro della vita economica e culturale della nazione, ma è anche una delle città dai costi più proibitivi al mondo. Così, complice il caro affitti, molti dei nuovi immigrati hanno iniziato a creare comunità italiane nei piccoli centri che gravitano attorno a Tel Aviv, come Rahanana, Ashod o Netanya.
Il lavoro per gli olim non manca, ci spiega Edoardo Marascalchi: «Gli italiani sono ricercatissimi perché sono pochi. Il problema è che il grosso della richiesta riguarda il gioco d’azzardo online e il trading online Forex. Nel Forex si tratta più che altro di chiamare i clienti per aiutarli a entrare nel giro delle scommesse finanziarie, essenzialmente tele-marketing. Nel gioco d’azzardo c’è meno contatto col cliente, ma il settore è sempre lo stesso. Il solo fatto di parlare italiano dà la possibilità di lavorare in questo campo, non occorre neanche conoscere l’ebraico, basta un po’ di inglese. Però se inizi a fare quel tipo di lavoro difficilmente smetti».
Il problema per i nuovi israeliani non sembra tanto quello di trovare impiego, ma il tipo di lavoro che si trova, soprattutto per chi non ha specializzazioni particolari o non parla l’ebraico: «Se non conosci la lingua l’integrazione è difficile, e se non la si impara subito è molto arduo riuscirci dopo. Chi arriva in cerca di lavoro spesso non riesce a bilanciare il lavoro con lo studio. Vanno subito a lavorare in aziende di trading online e finiscono per perdersi i sei mesi di Ulpan (il corso intensivo di lingua ebraica messo a disposizione dei nuovi arrivati), col risultato che finiscono a parlare italiano fra italiani». Eppure, nonostante le difficoltà di inserimento e il conflitto coi palestinesi, il numero di ebrei che lasciano l’Italia per Israele pare destinato ad aumentare ancora. Come spiega amaramente Fiammetta Martegani «almeno qui c’è lavoro. In Italia non c’è neanche quello».
Giorgio Ghiglione