Il Manifesto
21 09 2015
Forse il Paese è migliore di quello che ci raccontano i media e i genitori sono meno sciocchi e creduloni di quanto certe campagne d’odio sembrano insinuare. Forse gli insegnanti non hanno dimenticato la libertà di insegnamento e i dirigenti scolastici riconoscono ancora il confine tra il ruolo della famiglia e quello che concerne la scuola, strumento essenziale per la costruzione della cittadinanza e del pubblico.
Questa è la prima considerazione che serpeggiava tra insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, genitori, docenti universitari, esperti/e in studi umanistici e scienze sociali, case editrici, femministe e attiviste/i lgbt, protagonisti a Roma di Educare le differenze, due giorni di scambio di buone pratiche incentrati sulla valorizzazione delle differenze, il contrasto alla violenza di genere e al bullismo omofobico dentro e fuori la scuola.
L’incontro, organizzato dall’Associazione SCOSSE, Il Progetto Alice e Stonewall e co-promosso da 250 organizzazioni, è stato attraversato da 800 persone, provenienti da tutta Italia per seguire 9 tavoli di lavoro paralleli e 2 assemblee plenarie.
Il successo della seconda edizione di Educare alle differenze non è fatto solo di numeri, ma di collaborazioni, reti e competenze che si intrecciano. Testimonia che pur nell’assenza quasi totale di fondi e in un clima di generale ostilità culturale, esistono associazioni e insegnanti che sviluppano quotidianamente progetti di grande interesse per la valorizzazione delle differenze, la scuola multiculturale e meticciata, l’educazione sentimentale, la prevenzione e il contrasto delle violenze legate al genere e all’orientamento sessuale e di ogni forma di discriminazione e sopraffazione.
E’ questo il “mondo vitale” della scuola, generoso e plurale, attento ed esigente. Non rimane passivo a guardare la furia dei movimenti estremisti che prendono le mosse dal discorso del 21.12.2012 di papa Benedetto XVI, in cui il pontefice condannava la “nuova filosofia della sessualità” espressa dal “lemma gender”, che contraddice il racconto biblico della creazione, secondo il quale “appartiene all’essenza della creatura umana di essere stata creata da Dio come maschio e come femmina”. Non si lascia sedurre dalle poche righe della controriforma dedicate al’educazione di genere né smette di lottare contro la buona scuola di Renzi.
Non si accontenta di una circolare della Ministra Giannini che nega l’ideologia gender ma si dimentica di affermare che il genere — inteso come sistema di pratiche sociali e culturali che assegnano ruoli, potere, funzioni e opportunità diverse agli individui in base al loro sesso di nascita e al loro orientamento sessuale — esiste eccome. Ma sa bene che le differenze si intersecano e sono “un bene indivisibile”, che tutte devono essere protagoniste nelle forme e nelle pratiche pedagogiche e educative dell’inclusione in classe, altrimenti non lo sono nessuna. Ha imparato che nominare le parole ha un valore inestimabile, per questo per parlare di bullismo non rinuncia a connotare una violenza specifica e a parlare anche di bullismo omofobico. E’ pronto a rifiutare discorsi istituzionali e soluzioni politiche al ribasso, proponendo delibere ed azioni specifiche agli enti locali.
E’ un mondo vitale maturo e consapevole, che chiede di sedere al tavolo di chi stabilirà le linee guida della scuola di domani. E’ un arcipelago di ricchezza stanco della competizione reciproca per qualche euro messo a bando dalle istituzioni, annoiato dall’isolamento permanente, determinato a unirsi in un progetto culturale e educativo di lungo raggio, dedicato a difendere la scuola pubblica e a valorizzare le differenze.
Comune - info
21 09 2015
Nei giorni del delirio contro i fantasmi del Gender e mentre Roma (19 e 20 settembre) ospita il più grande incontro annuale nazionale dedicato all’educazione alle differenze e all’affettività (di cui Comune è media partner), offriamo questo saggio di Lea Melandri: spiega come e perché possiamo portare l’educazione alle radici dell’umano, cioè in prossimità della vita di ogni giorno, nella sua interezza e fragilità, consapevoli che le tradizionali separazioni tra corpo e pensiero, natura e cultura, reale e virtuale sono venute meno. Qualsiasi esperienza di cambiamento, cioè la costruzione di una società senza relazioni di dominio, deve allora fare prima luce su un terreno che resta per lo più confinato in una “naturalità”: la nascita, l’infanzia, i ruoli sessuali, l’amore, l’invecchiamento, la malattia, la morte. Ma per muoversi in questo terreno occorre che insegnanti ed educatori abbiano acquisito capacità di cura e conoscenza di sé e sperimentato una dimensione collettiva. Siamo pronti per questo cambiamento antropologico epocale?
di Lea Melandri*
L”educazione di genere”, di cui oggi si parla molto, anche dietro la spinta dei dati allarmanti sulla violenza maschile contro le donne, specie in ambito domestico, se non vuole restare nell’ambito di una generico invito al rispetto reciproco – il “politicamente corretto” – deve avere il coraggio di andare alla radice di un dominio del tutto particolare, quale è quello di un sesso sull’altro, intrecciato e confuso con le relazioni più intime. Nel momento in cui si scopre che la vita personale, il corpo, la sessualità, gli affetti, l’immaginario, sono sempre stati dentro la storia e la cultura, e che è importante cominciare a sottrarli alla “naturalizzazione” che hanno subìto, cambia inevitabilmente anche l’idea di educazione e trasmissione del sapere. Si trasmette innanzitutto “quello che si è”, nell’interezza del proprio essere, e non solo “quello che si dice o si sa”. Ma, soprattutto, la cultura deve diventare cultura della vita: dare voce al vissuto, all’esperienza di ognuno e, partendo da lì, interrogare i saperi disciplinari a partire da ciò che non dicono, che hanno cancellato o deformato.
Quella che in più occasioni ho definito “scrittura di esperienza” interroga innanzi tutto il pensiero, il suo radicamento nella memoria del corpo, nelle sedimentazioni profonde che hanno dato forma inconsapevolmente al nostro sentire. In quelle zone remote e “innominabili” , la storia particolarissima di ogni individuo incontra comportamenti umani che sembrano eterni, immodificabili, uguali sotto ogni cielo: passioni elementari, sogni, costruzioni immaginarie, rappresentazioni del mondo, riconoscibili in ogni spazio e tempo. Tra queste, vanno a collocarsi le figure del maschile e del femminile, che il corso della storia ha modificato, ma non tanto da cancellare i tratti della vicenda originaria che ha dato loro volti innegabilmente duraturi.
A differenza dell’autobiografia, che lavora sui ricordi, sulla loro messa in forma all’interno di una narrazione, di un senso compiuto, la scrittura che vuole spingersi “ai confini del corpo”, in prossimità delle zone più nascoste alla coscienza, si affida a frammenti, schegge di pensiero, emozioni, che compaiono proprio quando si opera una dispersione del senso. Si tratta di far luce su un terreno di esperienza che resta generalmente confinato in una “naturalità” astorica: la nascita, l’infanzia, i ruoli sessuali, l’amore, l’invecchiamento, la malattia, la morte.
ami
Ci sono domande, emozioni, vissuti che si affacciano nell’infanzia e che, per non aver trovato risposte o parole per essere detti, sembrano aver fatto naufragio.
“Nella mia breve infanzia non ricordo alcun momento lieve né vera spensieratezza. Tutto pesava gravemente (…). Prendere tutto tra le braccia. Controllare tutto. Reprimere tutto. Dire a chi? Rimettersi a chi? Con chi condividere l’aria troppo dolce, l’odore funebre delle margherite, l’eco dei treni che già collegavo all’idea di allentamento, di separazione (…). Non è la stessa cosa dire che un treno passa o appoggiare i gomiti per ascoltare quel rumore che mi stringe il cuore da sempre. È per questa ragione forse che i cattivi maestri mi dicevano che ero disordinata. Avrebbero dovuto chiedermi perché quel rumore del treno evocava in me un tale strazio. Era il loro compito. Avrebbero dovuto farlo. Avrebbero dovuto farmi le vere domande. Questa parte segreta della mia infanzia rimane come un campo di solitudine. Così sciolta. Non avrò tregua finché questo campo non sarà seminato di tutte quelle parole censurate nella mia infanzia”.
(Francoise Lefèvre, Il Piccolo Principe Cannibale, Franco Muzzio Editore, Padova 1993)
I corpi, la sessualità, gli stereotipi di genere, i sentimenti, la relazione con l’altro, il diverso, hanno nella scuola il loro teatro primo – insieme alla famiglia -, ma anche il loro inquadramento secondo norme di ordine e disciplina. Restano perciò il “sottobanco”, anche se segnalano vistosamente la loro presenza, i loro interrogativi, la loro vitalità.
Oggi la scuola incontra una forte concorrenza nei media: lì il corpo, la vita intima, le “viscere”, sono, al contrario, sovraesposte, benché collocate in una posizione regressiva – esibizionismo e voyeurismo – che non le sprivatizza né le fa oggetto di riflessione. Come tornare a fare esperienza di vissuti, pensieri, passioni così squadernati all’esterno, così ridotti a chiacchiera? Come far sì che il “narrare di sé” diventi nella scuola un momento formativo? È indispensabile, per questo, che l’insegnante abbia acquisito egli stesso famigliarità col mondo interno, l’abitudine all’autocoscienza – cura e conoscenza di sé -, così come è importante la dimensione collettiva.
Siamo qui su un terreno che non è la “lezione” dalla cattedra, parlo di laboratori, che potrebbero utilmente accompagnarla: sperimentazione di nuovi processi formativi, oggi resi necessari dal fatto che sono venute meno le tradizionali separazioni tra corpo e pensiero, natura e cultura, reale e virtuale. Tocca alla scuola dare risposta a questo cambiamento antropologico, portando l’educazione alle radici dell’umano, cioè in prossimità della vita compresa nella sua interezza. Se non lo farà, saranno le nuove tecnologie informative, i social network, il mercato, la pubblicità a prenderne il posto. Quello che già in parte, purtroppo avviene.
Huffington Post
17 09 2015
Non basta guadagnare qualche soldo per potersi considerare un adulto. Così come l'essere popolari su Internet non giustifica un comportamento arrogante. Una madre americana ha trovato un modo originale per insegnare questi due importanti concetti al figlio adolescente.
Il ragazzino si chiama Aaron e ha 13 anni. Da qualche tempo i suoi video su Youtube stanno ottenendo un certo successo e Aaron si stava montando la testa. Così, dopo essere stato rimproverato dalla madre Estella per averle mentito riguardo ai compiti, il 13enne ha scritto su Facebook che dal momento che ora sta facendo soldi sua madre non ha più il diritto di dirgli che cosa deve fare.
Cattiva idea. Estella ha visto il post del figlio e ha subito pensato a una maniera per fargli abbassare la cresta. Come ha riportato sulla sua bacheca social, la donna ha appeso sulla porta della camera del ragazzo una lettera mirata a dargli una lezione sull'essere responsabili, sul rispetto e sulla finanza. "Il bambino avrà un brusco risveglio oggi dopo quello che mi ha detto la scorsa notte", ha scritto Estella. "Non solo si ritroverà il letto senza lenzuola, ma gli confischerò anche i giocattoli e i vestiti che gli ho comprato". La mamma esordisce così:
Poiché sembra che hai dimenticato che hai solo 13 anni e che il genitore sono io e che ritieni di non dover essere controllato, penso che debba imparare una lezione sull'indipendenza. Inoltre, dal momento che mi hai rinfacciato che ora stai facendo soldi, ti sarà più facile ricomprarti tutti gli oggetti che ho acquistato per te in passato.
La lettera include anche una sorta di contratto, con una lista dettagliata di tutto ciò che Aaron avrebbe dovuto pagare da quel momento in avanti. Tra cui: 430 dollari (380 euro) per l'affitto, 116 dollari (103 euro) per l'elettricità, 21 dollari (18 euro) per Internet e 150 dollari (133 euro) per il cibo.
Dovrai anche svutare l'immondizia lunedì, mercoledì e venerdì così come spazzare per terra e passare l'aspirapolvere durante questi giorni. Dovrai pulire il bagno ogni settimana, prepararti i pasti e tenere pulita la tua roba. Se non fai quanto ti ho chiesto dovrai pagarmi 30 dollari (26 euro) ogni giorno in cui dovrò fare queste cose al posto tuo. Se invece deciderai di tornare a essere il mio bambino invece del mio coinquilino, allora possiamo rinegoziare i termini.
La donna ha poi raccontato che nei giorni successivi Aaron è diventato più rispettoso e ha iniziato a darsi da fare in casa. "Ho notato che sta provando a essere più coscienzioso... Tutto inizia con una luna di miele; quindi solo il tempo dirà se funziona davvero - Ma almeno per quanto riguarda questa settimana, le cose sono migliorate molto e ho alte aspettative".
Andrea de Cesco
Comune - info
14 09 2015
di Alex Corlazzoli*
Expo sì, Expo no. Alla fine ci sono andato (a moderare un dibattito) e mi sono convinto che non porterei mai una classe di ragazzi all’Esposizione mondiale, la Gardaland di Milano. Chi fa il maestro ha il dovere di chiedersi: cosa voglio insegnare ai ragazzi? Come voglio parlare loro del cibo, della terra, dell’aria? Vogliamo dire la verità ai futuri cittadini o mostrare loro una cartolina patinata del mondo? Ecco, se quest’ultima è la vostra intenzione, allora potete andare a visitare Expo 2015. Troverete un grande gioco: potrete timbrare il vostro “falso” passaporto (5 euro a documento) ad ogni Paese che visitate; divertirvi a fare l’henné sulle mani grazie alle donne ugandesi o della Mauritania; saltare sulle reti elastiche del padiglione del Brasile; fare fotografie seduti in una finta tenda berbera; realizzare il vostro menù greco preferito; scrivere il vostro nome con i chicchi di caffè o comprare braccialetti ricordo fatti con i semi. Ma non chiedetevi chi lavora quel caffè; non domandatevi quanti pozzi sono stati distrutti nei terreni dei territori occupati della Palestina; non azzardatevi a capire chi lavora nei campi del Mozambico o del Burundi; non iniziate a farvi domande sui landgrabbing, i ladri di terra. Expo non è il posto dove farvi questi interrogativi e nemmeno dove trovare risposte.
Girando tra i padiglioni dell’esposizione ho avuto la sensazione di aver fatto qualche errore: forse ho sbagliato, durante le lezioni di scienze, a raccontare ai miei ragazzi che il consumo giornaliero di acqua in Africa è di 30 litri rispetto ai 237 in Italia. Probabilmente ho raccontato una frottola quando ho parlato loro dei conflitti per l’oro blu. Devo aver letto male i dati sul Kenya dove il benessere di pochi (2%), è pagato con la miseria di molti (circa il 50% della popolazione vive sotto il livello di povertà). Devo aver visto un altro film finora perché ad Expo non ho trovato una sola riga, una sola informazione che raccontasse alle migliaia di persone che passano in quei padiglioni, il dramma che vivono le popolazioni africane.
Sono partito dalla Palestina: non un’immagine, una riga, una fotografia dell’occupazione. Ho chiesto come mai e mi è stato risposto che “non era opportuno”. Ho pensato che la scarsità di informazioni riguardasse solo quel Paese. Ho provato ad entrare negli spazi dell’Eritrea, della Giordania, della Mauritania: nulla di più che una sorta di mercatino dei prodotti locali, qualche bandiera, poche fotografie. Zero informazioni. Ho pensato che fosse impossibile ma nemmeno in Algeria ho trovato qualche spiegazione se non una bella esposizione di vasellame e di abiti tradizionali. Mai un solo cenno ai problemi di un Paese. A Expo il mondo è tutto bello: l’importante è non sapere.
Non ho imparato nulla visitando il padiglione del Burundi, del Ruanda, dell’Uganda. Nello Yemen hanno persino tentato, come in ogni mercato, di vendermi tre braccialetti con la tecnica dei venditori di strada: “Provali. Quale ti piace? Ti facciamo uno sconto”. Eppure i bambini e i ragazzi che lavorano nelle piantagioni di cacao africane sarebbero, secondo alcune stime, più di 200mila di età compresa tra i cinque e i quindici anni, vittime di una vera e propria “tratta”. L’ Unicef ricorda che 150 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni nei Paesi in via di sviluppo, circa il 16% di tutti i bambini e i ragazzi in quella fascia di età, sono coinvolti nel lavoro minorile.
A citare i problemi della terra ci ha pensato il Vaticano, presente ad Expo: 330 metri quadrati per dire ai cittadini attraverso una mostra fotografica e un tavolo interattivo che esiste il problema della sete, dell’ingiustizia, della fame. Tutto per slogan, nulla di più. E’ a quel punto che mi è venuta una curiosità, alla fine della rapida spiegazione dell’addetto della Santa Sede: “Scusi, quanto è costata la realizzazione?”. Risposta: “Mi dispiace non lo so”. Cerco la risposta via Twitter all’account del Vaticano (@ExpoSantaSede) che mi rimanda ad un articolo che parla della “sobrietà del padiglione”, secondo le parole del cardinale Gianfranco Ravasi. Viene da fare due conti: un’organizzazione italiana mi ha riferito di aver speso per partecipare a Expo (per organizzare eventi, padiglione, personale) circa 700 mila euro. E il Vaticano quanto avrà sborsato per dire che c’è la fame, la sete e l’ingiustizia? 3 milioni di euro equamente ripartiti tra Santa Sede, Cei, Diocesi di Milano e Cattolica Assicurazioni che ha offerto il suo contributo per l’allestimento delle opere d’arte.
Alle 21, stop. Ho deciso: meglio non portare i bambini a Expo. Che capirebbero del cibo, dello spreco, delle risorse?
Un solo consiglio: se proprio ci andate, vale la pena visitare il padiglione zero e quelli della Svizzera e dei Brunei. Naturalmente non li ho visti tutti, potrebbero essercene altri all’altezza di quest’ultimi. E non ho nemmeno timbrato il passaporto.
Un’ultima osservazione: non cercate un’edicola o una libreria (magari dedicata al cibo) a Expo. In una giornata non le ho trovate. Se le avete viste avvisatemi.
Infine due curiosità. La prima: andata e ritorno Treviglio – Milano Expo con Trenitalia è gratis, nessuno è passato a controllarmi il biglietto. La seconda: arrivato ai tornelli mi sono trovato di fronte delle file chilometriche. Avendo un appuntamento alle 10,30 ho tentato di passare attraverso il passaggio dei media pur non avendo l’accredito ma solo un regolare biglietto. Nessun problema: nessuno ha badato al fatto che avessi o meno il pass. Un abito elegante e una borsa d’ufficio ed è fatta. Fila evitata.
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* Giornalista, ma prima di tutto maestro, è autore di alcuni libri, tra cui Ragazzi di Paolo (Ega 2002), Riprendiamoci la scuola (Altreconomia) e Gita in pianura (Laterza). Da diversi anni promuove NonSoloACrema: un programma di appuntamenti con gli autori per portare la cultura anche in campagna, nei più paesi più piccoli. L’articolo di questa pagina è apparso anche su un blog de ilfattoquotidiano.it e qui con il consenso dell’autore.