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Salute mentale carcere psicofarmaciArianna Giunti, l'Espresso
1 febbraio 2016

In carcere lo chiamano "il carrello della felicità". Passa fra le celle tutte le sere distribuendo compresse colorate, gocce, flaconi e pillole. Farmaci che calmano l’ansia e procurano benessere chimico.

Corriere della Sera
25 06 2015

"Quante divisioni hanno, i talidomidici?", potrebbe chiedere qualcuno facendo il verso alla famigerata battuta di Stalin sul Papa. Nessuna, ovvio. Anzi: è il più indifeso e innocuo di tutti gli «eserciti» del mondo.

Per quanto solo morale e disarmata una «dichiarazione di guerra» delle vittime del talidomide, il farmaco che mutilò migliaia di bambini nati senza braccia, senza mani, senza gambe, metterebbe però la Germania in gravissima difficoltà.

Ci si può difendere anche dall'Isis: non dalla vergogna. E i talidomidici hanno tutta l`intenzione di mettere la Bundesrepublik di Angela Merkel sul banco degli imputati proprio per i decenni di ambiguità, a partire dal «Mammuth Prozess» (noi diremmo processo-lumaca) che finirono per coprire le colpe della casa farmaceutica tedesca Griinenthal di Stolberg, vicino ad Aquisgrana.

La quale solo nel 2012, oltre mezzo secolo dopo, si è rassegnata a chiedere scusa alle migliaia di persone mutilate dalla criminale sciatteria con cui il letale talidomide fu messa in commercio e addirittura consigliato (consigliato!) alle donne incinte. ...

Più attenzione alla salute mentale

Pochi giorni fa l'Agenzia italiana del farmaco ha indicato le cinque categorie di farmaci più prescritte nei primi nove mesi dello scorso anno: al quarto posto si collocano quelli peri il sistema nervoso centrale e in particolare gli antidepressivi. Nulla di cui sorprenderci, visto che numerosi studi internazionali indicano che nel 2020 la depressione, dopo le malattie cardiovascolari, sarà la patologia responsabile della perdita del più elevato numero di anni di vita attiva e in buona salute.
Claudio Mencacci, Corriere della Sera ...

Sono ancora pochi i farmaci “a misura di bambino”

  • Lunedì, 24 Novembre 2014 08:42 ,
  • Pubblicato in Flash news

Linkiesta
22 11 2014

Oggi circa il 60% dei farmaci usati in pediatria sono “fuori indicazione”, con possibili conseguenze

Cristina Tognaccini

«Ogni giorno a migliaia di bambini vengono somministrati farmaci non sperimentati per uso pediatrico. Spesso senza nessuna prescrizione né controllo medico. Non dare loro i tuoi farmaci. Lattanti bambini e adolescenti non sono adulti in miniatura». Probabilmente vi sarà capitato di vedere questo video tempo fa, quando lo scorso maggio l’Agenzia Italiana del farmaco ha fatto partire una campagna per promuovere il corretto uso dei farmaci in età pediatrica. Come ricorda lo stesso spot istituzionale infatti, i bambini non sono adulti in miniatura, e spesso adattare la dose al loro peso non funziona. Non basta dimezzare la dose, perché oltre al peso, adulti e bambini differiscono anche per il modo con cui il farmaco interagisce con l’organismo e viene assorbito; e per come il farmaco si comporta una volta assunto.

Il problema insomma, è che sono pochissimi i farmaci a misura di bambino. La maggior parte sono molecole testate sugli adulti e poi veicolate anche sui bambini, senza sapere però esattamente quale sia la dose e il modo di somministrazione corretta e migliore. Oggi circa il 60% dei farmaci usati in pediatria non sono stati testati su pazienti pediatrici, ma solo sugli adulti, senza tenere quindi conto delle caratteristiche che possono renderli inefficaci o addirittura tossici per i più piccoli. Sono quindi farmaci usati fuori indicazione clinica o “off-label”. Percentuale che sale fino all’80% quando parliamo di neonati. Per cercare di incentivare le sperimentazioni pediatriche e favorire lo sviluppo di farmaci mirati e indicati per i bambini, nel 2007 l’Agenzia europea per il farmaco (Ema) ha dato il via al Regolamento Pediatrico. Un documento per cui le aziende farmaceutiche che vogliono ottenere l’immissione in commercio di un nuovo medicinale, devono presentare necessariamente anche un “piano di indagine pediatrico”.

«Qualcosa si muove – spiega a Linkiesta Paolo Rossi, direttore del dipartimento Universitario-Ospedaliero del Bambino Gesù e rappresentante italiano della Commissione Pediatrica dell’Ema – soprattutto a seguito della direttiva europea del 2007 che ha istituito il regolamento pediatrico e che di fatto obbliga tutte le case farmaceutiche che vogliono ottenere una autorizzazione al mercato dall’Ema, a presentare un piano di investigazione pediatrico. Chiaramente con le adeguate distinzioni: se il farmaco non può essere usato in pediatria (un esempio sono i farmaci per il tumore della prostata) la ditta può presentare un esenzione. In altri casi possono chiedere un differimento degli studi se la molecola è troppo precoce e ancora non ci sono dati che possono suggerirne l’uso sui bambini. Nella maggioranza dei casi però devono presentare un piano per lo sviluppo della molecola non solo nella condizione dell’adulto ma anche del bambino. Questo meccanismo che è alimentato da una serie di incentivi per le industrie che fanno questi studi ha determinato un movimento in alto del numero delle sperimentazione in pediatria».
Nonostante questo però, e nonostante i numeri di indagini pediatriche approvate dall’Ema dal 2007 a oggi siano aumentate tanto da arrivare a circa 600, i medicinali che hanno ottenuto la specifica indicazione pediatrica sono ancora pochi. Circa una quarantina. Per una serie di meccanismi tecnici, politici ed economici, infatti, non tutte le sperimentazioni approvate si sono completamente concluse e hanno dato luogo a farmaci con indicazione pediatrica. «Nonostante la positività della legge, gli incentivi, e una volontà politica per far sì che i bambini abbiano farmaci su misura, c’è ancora un ritardo nell’immissione al mercato di famaci a indicazione pediatrica» continua Rossi. «Questa è una criticità del sistema che deve essere corretta se vogliamo avere questi farmaci in farmacia».

A frenare le sperimentazioni sono prima di tutto i motivi economici. Perché fare studi in pediatria è più costoso, sia per l’assicurazione (più alta sui bambini) sia perché si devono mobilitare intere famiglie, e perché spesso si tratta di malattie rare e più complesse, più difficili e lunghe da gestire. «Purtroppo in Europa la sperimentazione non è affatto efficiente» sottolinea Rossi. «Non lo è nell’adulto (tant’è che il numero di trial è diminuito negli ultimi anni) figurarsi nei bambini. Va rivisto sia il regolamento sia le infrastrutture che questo regolamento deve supportare. Noi al Bambin Gesù, per esempio, abbiamo creato un Clinical trial center, un unico punto di contatto da parte delle industrie per far partire una sperimentazione ed entrare nell’ospedale. Con personale specializzato e dedicato. Questo già è un meccanismo di facilitazione del processo. Anche perché così c’è un contatto maggiore con il comitato etico e una riduzione dei tempi di attesa da parte dell’industrie per l’approvazione del protocollo. Ora stiamo cercando di estendere questo modello anche ad altri ospedali nel resto d’Europa, per creare una rete. L’idea è creare delle strutture dedicate a questi trial e collegarle fra loro per agevolare le aziende e le procedure».

Utilizzare farmaci fuori indicazione significa anche andare incontro a eventi avversi non previsti con l’utilizzo dei farmaci in-label (in indicazione). Dalla letteratura scientifica (qui, qui, qui e qui alcuni esempi) emerge infatti che l’uso di farmaci off-label nella popolazione pediatrica si associa a un aumento del rischio di reazioni avverse rispetto a i farmaci utilizzati in maniera conforme a quanto riportato nella scheda tecnica (cioè in indicazione). Ma non si può neanche generalizzare, come spiega Rossi, in alcuni casi sono farmaci utilizzati da molto tempo che nonostante non abbiano un’indicazione approvata possono essere considerati in-label, perché sono state fatte molte pubblicazioni su quell’uso. In altri sono maggiori i rischi di non utilizzarli che nel farlo. «Anche gli antibiotici sono stati usati nonostante non abbiano indicazione. Il problema è che magari stiamo dando una dose non è adeguata, magari troppo alta o troppo bassa, perché nessuno si è preso la briga di vedere qual è la dose giusta con dei test. O magari stiamo usando una formulazione non adatta al bambino. Un esempio sono i farmaci per l’Hiv. Ora per fortuna il problema si sta riducendo, perché sempre più i farmaci hanno ottenuto indicazioni pediatrica, ma prima i bambini dovevano prendere delle pastiglie enormi. Una formulazione non adatta ai bambini».
Uno studio clinico, a prescindere dall’età, prevede che ogni paziente per partecipare debba firmare un documento, detto consenso informato, in cui prende atto della sperimentazione e accetta di parteciparvi.

E nel caso dei bambini, il consenso informato viene adattato all’età, in modo che loro stessi possano comprenderlo e accettare. «Nel nostro ospedale sono i bambini stessi a collaborare alla stesura del consenso informato» conclude Rossi. «È necessario fare come in Inghilterra e negli Stati Uniti dove sono nate delle associazioni di bambini che supportano queste attività: sono loro stessi a parlare agli altri bambini per spiegargli che cosa significa fare una sperimentazione. Io penso che questa sia la strada giusta: dobbiamo coinvolgere i nostri bambini e i nostri adolescenti e farli partecipare direttamente a queste attività. In fondo dopo i sei anni un bambino è in grado di affrontare qualsiasi argomento. Io sono un pediatra, e posso dirle che i bambini in questi anni di lavoro, mi hanno insegnato davvero molto».

Corriere della Sera
15 09 2014

Secondo l’Oms in Europa i costi della non aderenza alle terapie farmacologiche si aggirano intorno ai 125 miliardi di euro l’anno. Ecco i motivi degli sprechi

di Maria Giovanna Faiella

Farmaci di cui si fa uso eccessivo, o al contrario lasciati inutilizzati nell’armadietto anche se il dottore li ha prescritti; medicine non assunte nel modo giusto perché possano dare benefici - abusandone, o viceversa, in dosi insufficienti - o, ancora, terapie interrotte non appena si sta un po’ meglio, anche se la malattia è cronica e va tenuta sotto controllo. Tutti errori che si pagano, non solo in termini di salute, ma anche in termini di soldi “buttati via”, in un modo o nell’altro. In Europa i costi della non aderenza alle terapie farmacologiche, secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, si aggirano intorno ai 125 miliardi di euro l’anno. E se le condizioni di salute peggiorano, bisogna fare ricorso nel migliore dei casi ad altre medicine, ma aumentano anche gli accessi al pronto soccorso, i ricoveri, le morti premature.Ma questa è solo una delle due facce della «appropriatezza delle cure farmacologiche»: l’altra è la prescrizione adeguata, ed è compito dei medici. Nel suoi due aspetti l’appropriatezza delle cure è, specie in un periodo di scarse risorse e in cui aumentano popolazione anziana e malattie croniche, una sfida per tutti i Servizi sanitari, compreso il nostro.

L’uso inappropriato degli antibiotici
Ma quali farmaci “sprechiamo”? Ce lo dice il “Rapporto OsMed 2013”, elaborato dall’Osservatorio nazionale sull’impiego dei Medicinali, istituito presso l’Aifa-Agenzia italiana del farmaco. Il Rapporto, per esempio, segnala ancora una volta l’annosa questione degli antibiotici: l’anno scorso il loro consumo è cresciuto del 3,5% rispetto al 2012. Se ne assumono di più, indicano i dati OsMed, in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. L’impiego non appropriato di antibiotici supera il 20% in tutte le condizioni cliniche, ma si arriva al 49,3% per la laringotracheite e al 36,3% per la cistite non complicata. E a poco sono serviti finora i moniti degli esperti, che ripetono, come fa una volta di più il direttore dell’Aifa, Luca Pani: «L’uso inappropriato degli antibiotici non rappresenta solo un problema di costi a carico del Servizio sanitario, ma soprattutto un problema di salute pubblica, poiché favorisce l’insorgenza di resistenze batteriche con una progressiva perdita di efficacia di questi farmaci».

Minore aderenza alle terapie
Dall’analisi dei dati delle Aziende sanitarie locali, poi, emergono bassi livelli di aderenza alle prescrizioni principalmente per i medicinali utilizzati nei disturbi ostruttivi delle vie respiratorie, per gli antidepressivi e i farmaci per la prevenzione del rischio cardiovascolare. In quest’ultimo caso, secondo il Rapporto OsMed, pur essendo circa 16 milioni gli italiani che soffrono di ipertensione (uno dei più importanti fattori di rischio per malattie cardiovascolari, ictus e insufficienza renale), ad assumere antipertensivi sono in meno di 8 milioni, sebbene abbiano ricevuto la diagnosi e quindi la prescrizione. A causare una minore aderenza alle terapie ci si mettono anche, stando almeno ad alcuni studi, i costi dei ticket. «L’aumento dei ticket sui medicinali in fascia A (a carico del Servizio sanitario), soprattutto in alcune Regioni con piani di rientro, è un “ostacolo” nell’accesso alle cure segnalato sempre più dai cittadini - sottolinea Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, che ha promosso la campagna “I due volti della sanità: sprechi e buone pratiche” -. Per esempio, il Rapporto OsMed rileva i bassi livelli di aderenza ai farmaci di chi soffre di bpco, la broncopneumopatia cronica ostruttiva. Perché? Forse perché, pur essendo una malattia cronica, non è ancora riconosciuta come tale dalla nostra Sanità, per cui il malato non ha diritto all’esenzione e deve pagare i ticket, per molti troppo onerosi. E così si rinuncia ai farmaci prescritti».

Inappropriatezza delle prescrizioni
C’è poi, come si è detto, il fattore “inappropriatezza delle prescrizioni”. Per esempio, in base agli indicatori di appropriatezza utilizzati nel Rapporto, per il 46,5% dei pazienti che assumono inibitori di pompa per il trattamento dell’ulcera e dell’esofagite (a carico del Servizio sanitario) non ci sono i requisiti di rimborsabilità fissati dalle note Aifa, ovvero si tratta di «consumi altamente inappropriati». La stessa Associazione italiana gastroenterologi ed endoscopisti ospedalieri (Aigo) pensa che siano troppi, per citare un caso, i 20 milioni di euro spesi in un anno nel solo Lazio per farmaci contro il bruciore di stomaco e il reflusso gastrico. «Spesso si prescrivono gli “inibitori di pompa” come “copertura” quando il paziente deve assumere antinfiammatori o antibiotici: lo fanno anche otorini, dentisti, ortopedici - dice il presidente di Aigo, Antonio Balzano -. In molti casi potrebbe bastare un semplice sciroppo. Per migliorare l’appropriatezza delle prescrizioni abbiamo avviato uno specifico studio, prendendo come riferimento proprio il caso del Lazio».

Registri di monitoraggio e linee d’indirizzo
E i medici di famiglia? «Tutto sta nel rapporto di fiducia tra il medico - che non è un semplice “prescrittore” - e l’assistito - sottolinea Fiorenzo Corti della Federazione italiana medici di medicina generale -. Se ogni specialista prescrive farmaci, per esempio per il glaucoma, l’artrosi e la bronchite, spetta poi al medico di famiglia fare la sintesi, perché conosce le condizioni cliniche generali del paziente e può verificare anche se i farmaci interagiscono tra loro». Strumenti per assicurare l’appropriatezza d’impiego dei farmaci, ma anche per contenere la spesa farmaceutica, già esistono: dalle “Note Aifa”, al “Documento programmatico per la valutazione dell’uso dei farmaci nelle cure primarie” predisposto dall’Agenzia insieme ai medici di famiglia; dai registri di monitoraggio, ai piani terapeutici. Alcune Regioni hanno redatto anche proprie linee d’indirizzo per l’uso di specifici farmaci, altre hanno avviato report mensili della spesa farmaceutica. «Le linee guida vanno applicate - ricorda Corti -. In alcune Regioni, nell’ambito della “medicina di iniziativa”, i medici di famiglia in collaborazione con le Asl hanno attivato meccanismi di controllo sull’appropriatezza delle terapie, coinvolgendo i pazienti. Ma servono interventi più strutturati anche in altre realtà del Paese».

Le differenze tra Regioni
Nel consumo e nella spesa per farmaci pesano anche le differenze tra Regioni, che «non sempre sono spiegabili alla luce delle evidenze epidemiologiche» segnala il Rapporto OsMed. «A spendere meno in assistenza farmaceutica territoriale sono proprio le Regioni che garantiscono anche gli altri livelli essenziali di assistenza - commenta Giovanni Bissoni, presidente uscente di Agenas -. Ridurre le inefficienze in quelle meno “virtuose”, quindi, non significa tagliare la spesa sanitaria, ma ridistribuire i risparmi in altri servizi per i cittadini, come indica anche il nuovo Patto per la Salute 2014-2016, approvato in Conferenza Stato-Regioni nel luglio scorso». «Gli sprechi - incalza Aceti - andrebbero individuati anche nella burocrazia, in inutili doppioni di centri decisionali, come le Commissioni territoriali per i prontuari farmaceutici».

Gli sprechi «banali»
Ci sono poi sprechi più “banali”, dai quali si può recuperare non poco. Secondo le stime di Assosalute, Associazione nazionale dei produttori dei farmaci di automedicazione, ogni anno si distruggono circa 12 milioni di confezioni di farmaci da banco, per un valore di circa 30 milioni di euro. Le cause? Diverse, e riguardano anche gli altri medicinali. «Per esempio - spiega il presidente Gaetano Colabucci - si riscontra un difetto del packaging, per cui le scatole non vengono messe in commercio; altri farmaci sono ritirati dal mercato perché prossimi alla scadenza. Ma soprattutto, fino a pochi mesi fa, migliaia di confezioni integre venivano ritirate per aggiornare i foglietti illustrativi». Solo nel 2013 sono state circa 5 mila le variazioni dei “bugiardini”. Da giugno, però, la specifica delle modifiche approvate viene consegnata in farmacia al momento dell’acquisto del medicinale. Fino all’esaurimento delle scorte delle “vecchie” confezioni. Che così non finiscono buttate vie.

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