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Fondi europei, il grande spreco da 7 miliardi

  • Lunedì, 07 Luglio 2014 09:54 ,
  • Pubblicato in REPUBBLICA

La Repubblica
07 07 2014

L’Italia ha speso cifre ingentissime in corsi di cui non si conoscono né costi né benefici. Inclusione sociale, solo 233 nuovi impieghi contro i 30-50 mila di Germania e Francia. 500 mila progetti di formazione non sono serviti a creare lavoro.

di VALENTINA CONTE

IN 5 ANNI sono stati messi in campo 504 mila progetti di formazione, per una spesa di quasi 7 miliardi e mezzo di euro. Con quali benefici? La risposta dello studio degli economisti Roberto Perotti e Filippo Teoldi è tranciante: i benefici sono ignoti. Dei progetti finanziati con fondi strutturali europei nessuno è in grado di valutare gli effetti.

Una montagna di miliardi, sfuggita di mano. Ogni anno l’Italia spende cifre impressionanti in progetti finanziati con fondi strutturali europei, eppure nessuno è in grado di valutarne gli effetti. Se ad esempio favoriscono davvero l’inclusione sociale, se creano nuova occupazione e se questa è strutturale e come viene retribuita. Anzi, va persino peggio. Non solo non conosciamo l’efficacia della spesa, ma ogni euro di fondi ricevuti ce ne costa due in tasse: uno da versare all’Europa come membri dell’Unione e un altro come cofinanziamento, obbligatorio per utilizzare quei fondi.

Eppure, nonostante il clamoroso black-out informativo, in cinque anni sono stati messi in campo ben 504 mila progetti di formazione, per una spesa di quasi 7 miliardi e mezzo. Con quali benefici? La risposta dello studio curato dagli economisti Roberto Perotti e Filippo Teoldi e pubblicato sul sito lavoce.info è una sola: i benefici sono ignoti.

l'Espresso
14 03 2014

Su 169 milioni di euro prelevati dalle tasche dei contribuenti, solo 404mila sono stati destinati alla cooperazione internazionale e zero è andato a restauri e riassetto idrogeologico. I fondi sono stati infatti dirottati per "esigenze di finanza pubblica".

Cambiano i governi, ma non la disinvoltura con cui si modifica l’utilizzo dei denari pubblici. La commissione Bilancio del Senato, infatti, ha approvato il decreto dell’ex governo Letta che dirotta i fondi che i cittadini italiani hanno deciso di devolvere allo Stato verso tutt’altri fini rispetto a quelli previsti dalla legge.

Le richieste presentate da organizzazioni non governative, soprintendenze e agenzie di protezione del territorio erano già superiori alle risorse disponibili: 278 milioni per il restauro di beni culturali, 123 per il riassetto idrogeologico, 21 per archivi e biblioteche, 20 per i rifugiati, sei per la cooperazione. Ma i senatori chiamati ad approvare il decreto della Presidenza del Consiglio che ripartisce le risorse, si sono trovati di fronte a un vero e proprio scippo.

Su 169 milioni 899 mila 25 euro prelevati dalle tasche dei contribuenti, e dunque pronti a essere distribuiti nei settori citati, 404mila sono stati effettivamente destinati alla cooperazione internazionale, mentre nulla è stato previsto per la tutela del territorio, l’assistenza ai rifugiati e la conservazione dei beni culturali. Perché? Il resto dei fondi se l’è tenuto il governo Renzi, per «esigenze straordinarie di finanza pubblica».

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giovanni Legnini ha ammesso davanti ai senatori: «È un taglio davvero notevole», ma non è indietreggiato di un euro.

A. Mas.

Ecco i contenuti della proposta di legge regionale sul "riordino delle disposizioni per contrastare la violenza contro le donne in quanto basata sul genere e per la promozione di una cultura del rispetto dei diritti umani fondamentali e delle differenze tra uomo e donna". ...
Corriere della Sera
17 01 2014

Quali buone notizie possiamo aspettarci, nel 2014, per il «paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione» (per usare le parole dell’articolo 9 della Costituzione)? Il più importante repertorio di immagini della prima età moderna – l’Iconologia di Cesare Ripa – contiene un’allegoria della Conservazione il cui senso è che la «durazione» delle cose si può assicurare solo a condizione di una «trasmutazione». È proprio così: l’ambiente e il patrimonio storico e artistico dureranno solo se gli italiani «trasmuteranno» la loro mentalità. Per farlo abbiamo bisogno di pensieri diversi, di parole che non siano quelle – fruste, inefficaci, fallimentari – che affondano ogni giorno il discorso pubblico italiano.

Il primo ‘mantra’ da cambiare è: «non ci sono soldi per il patrimonio». Da almeno trent’anni è questo il dogma su cui si basa la non politica culturale italiana. La mancanza di soldi non è un’alluvione o un terremoto, non è una catastrofe naturale: è una scelta politica. Una scelta regressiva, e irresponsabile: se nemmeno una delle prime potenze economiche al mondo ritiene di poter investire sul proprio patrimonio culturale, cosa mai dovrebbero fare paesi come la Grecia, l’Egitto, l’Afghanistan o l’Iraq? Ma quanto ci vorrebbe per mantenere il patrimonio culturale italiano (arte, biblioteche, archivi, opera lirica, teatro, cinema…) senza che vada in rovina, chiuda o debba vivere di interessate elemosine? Basterebbe un quinto della spesa militare, un decimo di quanto lo Stato ha speso per salvare le banche che si erano colpevolmente esposte nella crisi finanziaria.

Dopo che, nel 2008, Sandro Bondi dimezzò il bilancio dei Beni culturali (allora attestato sui tre miliardi e mezzo l’anno, già insufficienti), i suoi successori Giancarlo Galan e Lorenzo Ornaghi hanno perso un altro mezzo miliardo: oggi siamo circa a un miliardo e mezzo. Le armi, invece, ci costano circa venticinque miliardi cui forse se ne aggiungeranno altri dodici per i bombardieri F-35. E il salvataggio delle banche che si sono compromesse col grande risiko finanziario che ha portato alla crisi è costata ai cittadini italiani (già vittime di quella stessa crisi, e dunque di quelle stesse banche) oltre quaranta miliardi.

Venticinque, trentasette, quaranta, contro uno e mezzo: sono queste le cifre del suicidio culturale italiano. Un suicidio a cui il pensiero critico ha il dovere e il potere di proporre un’alternativa: perché non è vero che non c’è alternativa a un’autodistruzione consumata in nome della sovranità, anzi del culto religioso, del mercato. In Europa le cose stanno diversamente: la nostra spesa per la cultura equivale al 1,1 % della spesa pubblica, mentre la media europea è esattamente il doppio, 2,2 % (è di 2,5 in Francia, di 3,3 in Spagna). Se raddoppiassimo torneremmo alla cifra pre-Bondi: e sarebbe già un successo. Se, con una svolta neokeynesiana, decidessimo di investire in qualcosa che ci fa bene, e riuscissimo ad arrivare a 5 miliardi l’anno, avremmo un patrimonio mantenuto con lindore svizzero, e senza chiedere aiuto a nessuno speculatore privato. Certo, saremmo sopra la media europea: ma il nostro patrimonio non lo è?

Ma temo che tutto questo non lo vedremo: almeno non nel 2014. Passiamo allora ai premi di consolazione. Vorrei indicarne uno di sistema, e tre puntuali: uno al nord, uno al centro e uno al sud. Il primo è la riforma del Ministero per i Beni Culturali: il ministro Massimo Bray (la cui tenacia è stata la vera buona notizia del 2013) ha creato una commissione (della quale faceva parte anche chi scrive) che ha avanzato una serie di proposte puntuali per cambiare faccia al sistema della tutela. Durante la seduta finale, Bray ha detto che le proposte della commissione sarebbero state «attuate e rispettate con grande attenzione», e che il Mibac sarebbe stato riformato radicalmente, «con segni forti di discontinuità nelle responsabilità». Se al ministro sarà consentito di continuare a lavorare, e se avrà coerenza e forza sufficienti per poter attuare questa riorganizzazione del governo del patrimonio, sarà una piccola-grande rivoluzione.

Infine, tre sguardi ad alcune tra le infinite emergenze del patrimonio. Se apparisse il genio della lampada, gli chiederei di bloccare entro quest’anno l’accesso a Venezia delle Grandi Navi, che infliggono gravissimi danni, attuali e potenziali, ai cittadini, ai monumenti, alla Laguna. Poi gli chiederei di salvare il grande ospedale medioevale del Santa Maria della Scala, a Siena, riunendoci la Pinacoteca Nazionale (tutta intera!), il Dipartimento di Storia dell’arte, la biblioteca di Giuliano Briganti: sarebbe un potente simbolo del vero fine del patrimonio, che è quello di produrre conoscenza. Infine, gli chiederei due segnali potenti a Napoli, capitale del degrado del patrimonio: sarebbe importante se il 2014 vedesse due riaperture ai cittadini. Quella della Biblioteca dei Girolamini (saccheggiata e devastata da un manipolo di criminali appoggiati dalla peggiore politica), e quella della bellissima, importantissima chiesa di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, chiusa da prima del terremoto del 1980: due simboli di patrimonio negato che potrebbero diventare due simboli di rinascita.

Nessuna di queste cose è impossibile: in fondo, dipendono tutte e soltanto dalla nostra volontà.

Tomaso Montanari

 

Se rischiamo di perdere la Memoria

  • Venerdì, 20 Dicembre 2013 12:40 ,
  • Pubblicato in Flash news

MicroMega
20 12 2013

Può chiudere i battenti, per mancanza di fondi, il Museo storico della Liberazione di via Tasso a Roma. Negli anni preso di mira dai neofascisti. Si chiedono soldi al ministero dell’Istruzione per il 2014, intanto è partita la campagna di azionariato popolare e organizzata una serata di finanziamento il prossimo 21 dicembre.

Rischia la chiusura. Per mancanza di fondi. Eppure è un patrimonio politico, storico e culturale per la nostra Memoria. Quasi 15mila visite solo nel 2013, tra cui moltissimi studenti. “Siamo in attesa che arrivino i soldi dal ministero dell’Istruzione, altrimenti sarà dura andare avanti”, è il grido d’allarme giunto dal Museo storico della Liberazione di Roma, a Via Tasso. Nel cuore della Capitale.

Istituito con la legge 227 del 14 aprile 1957, l’attuale stabile – di proprietà statale – venne utilizzato nei mesi dell’occupazione nazista di Roma (11 settembre 1943 – 4 giugno 1944) come carcere dal Comando della Polizia di sicurezza. Divenne tristemente famoso come luogo di reclusione e tortura da parte delle SS per oltre 2000 antifascisti, molti dei quali caddero poi fucilati a Forte Bravetta e alle Fosse Ardeatine.

Le celle di detenzione, che allora occupavano l’intero edificio mentre adesso soltanto due dei quattro appartamenti destinati a museo, sono ancora come furono lasciate dai tedeschi in fuga. Ora sono dedicate alla memoria di coloro che vi furono detenuti, e ricordano le più drammatiche e significative vicende nazionali e romane dell’occupazione.

Dal 1980 il Museo ha incrementato le attività arrivando al culmine dei 15mila visitatori di quest’anno. “L’80 per cento è composto da studenti – spiega il presidente Antonio Parisella – Abbiamo intensificato il lavoro con le scuole e i giovani vengono in gita o a consultare i nostri archivi storico-documentaristici. Negli ultimi tempi abbiamo avuto la presenza anche di turisti europei”.

Le iniziative promosse dal Museo – comunemente detto – di via Tasso sono moltissime e vanno oltre le ricorrenze del 25 aprile o del 27 gennaio. Di grande valore l’archivio storico, l’aula didattica e la biblioteca: documenti originali, cimeli, giornali e manifesti, volantini, scritti e materiali iconografici relativi all'occupazione nazifascista e alla lotta che valse alla città di Roma la medaglia d’oro al valor militare durante la Seconda guerra mondiale.

“La biblioteca – si legge sul sito del Museo – si è arricchita, nel tempo, anche di opere generali e particolari relative al fascismo, al nazismo, all’antifascismo del ventennio, alla Resistenza in Italia e in Europa, all’antisemitismo, alla deportazione, all’internamento e al lavoro coatto. Nella fase più recente, nell’ambito del Museo sono state realizzate diverse iniziative di ricerca storico-documentaria volte ad arricchire la documentazione e ad ampliare le conoscenze. Inoltre, il Museo ha avviato contatti in Italia ed in Europa per collegarsi con analoghe istituzioni e luoghi di memoria”.

Per tale prezioso lavoro, negli anni lo stabile è stato preso di mira da gruppi di neofascisti: nella notte tra il 22 e il 23 novembre 1999 fu oggetto di un attentato esplosivo di natura antisemita. Recentemente è stato invece “sporcato” con le scritte ingiuriose "Olocausto propaganda sionista" e "27/01: ho perso la memoria". Accanto, una croce celtica.

A mettere in pericolo la sopravvivenza dello stabile di Via Tasso, più che i neofascisti, è la mannaia sui fondi. Il mese scorso si è rischiato il commissariamento per l’impossibilità di chiudere i bilanci del 2013. Dopo una forte mobilitazione, sono giunti i finanziamenti della Regione Lazio, 25mila euro, e del Comune, 10mila. La vicenda è arrivata in Parlamento con un’interrogazione parlamentare del deputato Pd Emanuele Fiano al Ministro dei beni culturali e al Ministro dell’Economia.

Anche Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, non ha fatto mancare il suo sostegno. “Il Museo della Liberazione di via Tasso – dichiarava in una nota il 5 dicembre – è un patrimonio di tutti quei cittadini che si riconoscono nei valori della libertà, della democrazia e dell’antifascismo. Un luogo e una realtà che siamo tutti chiamati a tutelare per far sì che, attraverso le generazioni, viva il ricordo dei crimini del regime ma soprattutto il coraggio e l’eroismo di chi, a rischio della propria vita, strenuamente vi si oppose”.

Chiuso il bilancio del 2013 e superata la paura del commissariamento, il problema si è spostato sul 2014. I soldi non ci sono. “Il personale è volontario ma non abbiamo le risorse per la spese di funzionamento come luce, condominio, pulizie, manutenzioni, riscaldamento” afferma Parisella. Al Museo servirebbero 30-40mila euro. Dal ministero dell’Istruzione si conferma la volontà di stanziare i fondi: resta il dilemma della legge di Stabilità e dei forti tagli subiti dal dicastero di viale Trastevere. “Ridiscuteremo i finanziamenti a gennaio” fanno sapere. Nessuna certezza, né tempi.

Intanto è stato lanciato un progetto di azionariato popolare per salvare il Museo con cui già sono stati raccolti 6mila euro. Lo storico Sandro Portelli ha pubblicizzato tale campagna scrivendo una lettera uscita su il manifesto: “In un'Italia che eleva coi soldi pubblici monumenti a Rodolfo Graziani, inetto massacratore fascista, l'emergenza di via Tasso dunque è una figura dell'emergenza generale. Aiutare questa straordinaria istituzione a superare anche questa emergenza, e magari cercare di metterla al sicuro da emergenze future, è compito imprescindibile di tutte le istituzioni, e richiamo immediato alla coscienza di tutti noi come cittadini”.

Proprio il 21 dicembre, una grande serata di finanziamento: “Libertango” una maratona di tango popolare, dalle 18 alle 6 del mattino, intervallata da spettacoli teatrali. Allo spazio autogestito Intifada, con la partecipazione di decine di artisti e la presenza dell’assessore alla Cultura di Roma, Flavia Barca. Mobilitazione per il Museo di via Tasso, un bene comune, e per la Memoria di tutti noi.

Giacomo Russo Spena

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