Global Project
03 08 2015
C’è una fotografia, un’istantanea, che è un immagine plastica di quanto accade in questi giorni a Taranto. In questo scatto ci sono Maurizio Landini, segretario della Fiom, il più grande sindacato metalmeccanico italiano, che abbandona il palco di piazza della Vittoria insieme ai segretari locali e nazionali della triade Cgil, Cisl e Uil, contestati e fischiati da quella Città che non ci sta ai ricatti: che si rifiuta di dover scegliere tra due diritti costituzionalmente garantiti, quello alla salute, riconosciuto dall’art. 32, e quello al lavoro, su cui la nostra Repubblica è “fondata”.
In altre foto invece, ci sono Aldo, Massimo, Rocco e Stefano, che chiedono di poter prendere parola, per spiegare ai loro compagni operai dell’Ilva, e all’intera cittadinanza, cosa significa vivere nella città più inquinata d’Europa per emissioni industriali, e lavorare allo stesso tempo in quella fabbrica dei record: per gli incidenti sul lavoro, per le emissioni di diossine e furani, e quelli di produzione dell’acciaio, in cui l’Ilva rimane, nonostante la crisi globale, ai vertici europei e mondiali. In quel mostro marrone scuro che non dorme mai, dove si varcano i cancelli di mattina, di pomeriggio, o di notte, a seconda del turno, sperando di uscirne vivi.
Chiedono a gran voce di poter raccontare la loro umanità a volte divisa fra la necessità ed il rifiuto, tra i diritti ed i ricatti. Ma oltre il danno anche la beffa, si scopre subito che i sindacalisti, abbandonando il palco si sono portati via anche i microfoni. Vorrebbero impedirgli forse, anche di parlare alla loro Città, che amano più di ogni altra cosa. Dopo aver firmato negli anni, ogni sorta di accordo con la proprietà, riducendo i diritti dei lavoratori a nuda vita, ora si prendono anche la loro libertà di parola. “Si rubano proprio tutto questi sindacalisti venduti”, si vocifera intanto, tra gli operai ed i cittadini che oggi hanno scelto da che parte stare. E non certo da quella di chi ha contribuito in cinquant’anni all’avvelenamento di un intero territorio, delle sue falde acquifere, dell’intera catena alimentare. A quel disastro sociale ed ambientale che non ha precedenti nella storia d’Italia.
In questi scatti, magistralmente immortalati dal mio amico ed attivista Andrea Rotelli, si intravedono le facce degli operai reali, in carne ed ossa, di quell’entità a volte poco compatta, ma che inevitabilmente e naturalmente opposta al nemico di classe, nelle giornate di Taranto si fa motore della storia, che ne diviene soggetto, nel senso hegeliano del termine. Operai sociali, che in quella piazza entrano insieme allo spezzone del neonato “Comitato operai-cittadini liberi e pensanti”, ed a cui si uniscono altri lavoratori, quando diviene oramai chiaro a tutti, che l’azienda ed i sindacati stanno da una parte, e i lavoratori ed i cittadini dall’altra.
“Stiamo scrivendo la storia”, dice Aldo prendendo finalmente la parola: “chiediamo scusa agli altri lavoratori già presenti nella piazza, per la maniera radicale in cui siamo entrati. Avevamo chiesto alla Fiom di poter fare un intervento dal palco a nome del nostro comitato formatosi da pochi giorni, che chiede per la Città di Taranto, un futuro differente che parli di salute, di reddito di cittadinanza, che reclama un modello di sviluppo diverso che sappia salvaguardare un bene comune come il territorio”. Ricorda poi, che oggi è il 2 Agosto, l’anniversario di una “strage di stato”, quella alla stazione di Bologna, di una tragedia rumorosa che fece il botto. Quella di Taranto, invece è una strage silenziosa che dura da cinquant’anni, è un’esposizione ai veleni che non ha provocato solo patologie tumorali. Ma che “ha causato nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell'organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte".
Effetti dovuti sicuramente all’inquinamento del complesso siderurgico, ma non solo, anche ai cementifici e alla raffineria, e alla marina militare, che da questi parti non hanno mai rispettato regola alcuna, e che hanno eletto il cielo e l'aria di Taranto ai vertici delle classifiche mondiali per emissioni nocive. Emissioni che da queste parti si sommano ad omissioni e a complicità dei vertici politici-istituzionali. Di questo disastro ambientale descritto da autorevoli documenti scientifici, la piazza ne indica chiaramente i colpevoli, i mandanti, i complici. E nulla da oggi sarà più come prima. Sono quelle stesse foto a segnalare la crisi oramai irreversibile della rappresentanza sindacale, così come l’abbiamo conosciuta durante il corso del Novecento. Certo la questione di Taranto rimane complessa, è drammatica, non ci sono soluzioni facili, ma se c’è un dato politico che ci indica la giornata di oggi, è che indietro non si torna.
Che le soluzioni non possono essere, che quelle espresse ed indicate dalla cittadinanza, dai movimenti sociali e soprattutto dagli operai che sono stati sino ad ora quella forza che muove l’acciaio. Saranno loro a cercare le invenzioni giuste, le ipotesi, gli schemi di ragionamento, le nuove forme di vita per questa Città. Non potranno certo più essere quei politici ed amministratori, quei sindacati, quella Confindustria, e quei docenti universitari, che da settimane ormai, costantemente ci ricordano, attraverso una parte della stampa locale e nazionale, che questa fabbrica conta circa 15mila dipendenti, e quanto essa sia importante non solo per la città, ma per l’intera nazione. Chel’Ilva è un tesoro che produce acciaio e muove l’economia italiana. Un tesoro costruito però, a ridosso delle case del quartiere Tamburi, un posto in cui, ai bambini, per ordinanza del sindaco Ippazio Stefano, è vietato di giocare in strada, per l’alta esposizione al berillio e ad altri minerali.
Questa giornata è certamente storica per Taranto. E se ragionassimo in termini di suggestioni collettive potrebbe ricordare quel febbraio del 1977, quando a Luciano Lama, segretario della Cgil, fu impedito di parlare dagli studenti nell’università la Sapienza.
Le cronache di certa stampa, invece, in queste ore, soprattutto di quella vicina al centro sinistra, si esercitano a nutrirsi di veline fantasiose, dei Cobas che avrebbero impedito ai sindacati di parlare. C’è invece, come la virtù, nel mezzo, proprio la ricomposizione di nutriti segmenti di città che reclamano allo stesso tempo reddito e salute, semplicemente un esistenza degna. Ed è questo il dato politico significativo di oggi, ed in generale delle dieci giornate di Taranto. Ma non è questo forse il tempo dell'inganno universale, in cui persino dire la verità diventa un atto rivoluzionario?
In questo racconto di una giornata che rimane splendida ed incredibile, le voci si uniscono alle immagini, in un mosaico sfaccettato e complesso, così come complessa è questa storia. La debolezza profonda delle fotografie è che non possiedono un significato in sé, ma devono essere rivolte a qualcosa per significare. E quel qualcosa siamo noi e loro. Il 99% contro l’1% che fa i profitti sulle nostre vite. E’questo che bisogna comprendere. Sta a noi essere poi all’altezza della sfida, che significa anche essere capaci di raccontarsi, perché è così che si costruisce l’immaginario collettivo.
Se dovessimo narrare con una canzone la giornata di oggi potremmo dire certamente “che questo rumore rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare. Che è la gente che fa la storia ed è per questo che la storia dà i brividi, perchè nessuno la può fermare.La storia siamo noi, siamo noi padri e figli, la storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano. La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano”.
di Gaetano De Monte*
*giornalista, attivista Okkupy Archeo Tower
l'Espresso
23 04 2015
Dentro, un pensionato Ilva sorseggia un caffè circondato da foto e bandiere del Taranto Calcio, che domenica 12 aprile ha battuto il Potenza nella sfida al vertice del campionato di serie D. Fuori, in cortile, tre giovani si affaccendano intorno al generatore che servirà per dare energia alle casse del Primo Maggio, il mega-evento che dal 2013 raduna decine di migliaia di persone nel parco archeologico di Taranto. Il concertone - che quest’anno vedrà sul palco per la prima volta i Marlene Kuntz e Nina Zilli - è organizzato dal Ccllp, il “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” della città jonica, che con i supporter della squadra rossoblù condivide i locali di un edificio nel quartiere Solito-Corvisea. Il Ccllp è la più nota delle associazioni locali schierate sul fronte anti-Ilva. E il suo portavoce, Cataldo Ranieri, operaio della fabbrica, riassume così il pensiero dei compagni: «Se cade Taranto cade l’Italia. Questa città s’è immolata per la nazione e ha ricevuto zero».
L’Ilva e il suo indotto valevano, quando l’impianto siderurgico marciava a regime, il 70 per cento del Pil provinciale. La fabbrica ha segnato la storia della città e seguita a farlo, anche se gli oltre 20 mila addetti del 1980 sono scesi sotto le 12 mila unità. L’Ilva è la più rischiosa delle scommesse di Matteo Renzi: il premier ha promesso che la farà ripartire e che il Mezzogiorno non perderà uno dei suoi ultimi baluardi industriali. Ma il futuro è appeso a un filo.
Taranto e l'Ilva, una città in attesa
Come a Taranto sanno benissimo: essere dipendenti Ilva - traguardo ambito da quasi tutti, per lunghi anni - non basta nemmeno per farsi concedere un piccolo prestito. Alessio, 33 anni, fa il macchinista nell’impianto dal 2004. Lo incontriamo a Talsano, quartiere dormitorio a una decina di chilometri dalla fabbrica. Di fronte all’ufficio dell’Usb (il sindacato che ha scavalcato a sinistra la Fiom e l’ha scalzata dal terzo posto per numero di voti in fabbrica) un gruppetto di ragazzi tira calci al pallone e fuma sigarette rollate a mano. Alessio, sposato e padre di un figlio, racconta: «Nel 2011 ho comprato un appartamento a San Vito, in riva al mare. La banca mi ha dato il mutuo senza problemi. L’anno scorso ho chiesto 3.500 euro per un’auto usata e mi hanno detto che avevo bisogno di un garante». La porta in faccia se l’è beccata pure un dirigente del gruppo. Mentre viaggiamo su un pullmino all’interno dello stabilimento, affiancati al treno della laminazione, con la bramma incandescente che scivola sui rulli del trasportatore, il manager racconta che pochi mesi fa voleva un mutuo per comprar casa ma gli hanno risposto picche: la banca era «preoccupata del futuro della fabbrica». Il prestito alla fine l’ha avuto la moglie: il suo impiego nel settore pubblico è stato considerato più sicuro.
I CINESI FUGGONO DAL PORTO
Ilva, raffineria Eni, porto e cementificio del gruppo Caltagirone. Erano le quattro ruote della macchina industriale tarantina, una delle più ricche del Sud. Ora, a parte la raffineria, le altre hanno le gomme a terra. E fanno sbandare tutto. «La città ha preso atto della crisi quando ha visto i negozi chiudere a raffica. È sempre più facile incontrare per strada gli accattoni, che non c’erano mai stati», dice Vincenzo Cesareo, presidente della locale Confindustria. E Mario, sorridente caposala della Trattoria del Pescatore di piazza Fontana, a due passi dal ponte girevole che collega la città vecchia con la parte moderna, rimpiange il tempo che fu. «Dirigenti, impiegati, fornitori, camionisti: i ristoranti della zona erano belli pieni quando c’era tutto quel via vai. Adesso tanti sono spariti».
Fuori gironzola un gran numero di cani randagi, mentre un uomo chiede «qualcosa per guardare la macchina». Non è l’unico, a saltar fuori da un angolo quando vede avvicinarsi qualcuno. Il centro storico nasconde rovine greche che farebbero gola ai turisti di mezzo mondo, ma è il degrado a balzare agli occhi. Saracinesche abbassate in pieno pomeriggio si notano pure nella centralissima via Di Palma, prosecuzione di via D’Aquino, l’elegante strada dello struscio. Da quando nel 2012 il tribunale cittadino ha imposto il sequestro degli impianti Ilva, tutto è cambiato. La fabbrica ha sempre continuato a produrre e gli stipendi sono stati pagati. Ma un terzo dei dipendenti sta a casa a turno e nell’indotto hanno perso il posto in migliaia. Molti fornitori sono falliti. In zona l’Ilva ha debiti per 200 milioni, su un totale di 1,5 miliardi: tanta roba, per un’azienda che dice di perdere 20 milioni al mese.
Anche al porto la preoccupazione è palpabile. «I lavori per rifare la banchina, dragare il fondale, la diga foranea e bonificare il terminal sono previsti da anni. I soldi sono stati stanziati ma tutto s’inceppa per contenziosi e ricorsi al Tar. I miei manager, che non parlano italiano, sono isterici: ogni volta che li incontro, mi dicono «What a fucking country is this?”, e hanno ragione», dice Carmelo Sasso, segretario della Uil Trasporti e dipendente di Tct, Taranto Container Terminal, di proprietà dei cinesi di Hutchison Whampoa e dei taiwanesi di Evergreen. La società ha spostato tutta l’attività al Pireo, in Grecia, e i 547 lavoratori sono in cassa integrazione a zero ore. Piero Prete è uno di questi. Tira avanti da tre anni con 745 euro, con moglie e due figli da mantenere: «Ho la casa di proprietà ma tra Tasi, Imu e altre spese non riesco ad arrivare a fine mese. Vado avanti grazie all’aiuto dei genitori. Spero che il ministro Delrio riesca a convincere Tct a restare qui, anche perché lo sviluppo del porto può essere un’alternativa». Ha pensato a emigrare, Prete: «Ma ho 40 anni, chi mi assume, con la terza media?».
"FACCIAMONE UN MUSEO"
Anche sull’Ilva, in città, il dibattito è tutto concentrato su cosa fare adesso. Di mezzo c’è la salute dei cittadini. Lo ha certificato più volte anche l’istituto superiore di sanità, secondo cui nella città dei due mari è molto più facile ammalarsi rispetto al resto d’italia. Basti dire che, nell’ultimo rapporto pubblicato a luglio, la mortalità infantile è maggiore del 21 per cento rispetto alla media regionale. Il comitato lavoratori liberi e pensanti teorizza una soluzione radicale: chiudere tutto, bonificare il sito e riconvertire l’economia puntando su turismo, agricoltura e sul porto. La pensa così anche la candidata del movimento 5 stelle alla presidenza della regione puglia, antonella laricchia, studentessa d’architettura fuori corso, che il 31 maggio sfiderà il litigioso centrodestra e la corazzata di michele emiliano del pd, ex magistrato e già sindaco di bari. Laricchia ha un’idea spiazzante per il dopo ilva: «su quell’enorme terreno, dopo la bonifica, si potrebbe fare un museo. La gente potrebbe visitarlo come fa per gli ex campi di concentramento nazisti, per rendersi conto dei disastri dell’industrializzazione selvaggia».
In via Bettolo, nella sede dei tre storici sindacati metalmeccanici, non la pensano così. Al primo piano c’è la Fim. Per il segretario Mimmo Panarelli, «il terremoto è alle spalle, dopo aver perso tempo per un anno ora confidiamo che i nuovi commissari facciano sul serio, rilanciando una società che sul mercato ha perso terreno. E comunque l’amministrazione straordinaria deve essere di breve durata». Panarelli considera ineludibile l’adempimento di tutte le prescrizioni ambientali e srotola con un certo entusiasmo una piantina con il rendering dei due grandi capannoni che copriranno i parchi minerali. «Per noi sono l’opera più importante, per far capire anche agli sfortunati abitanti di Tamburi che si sta voltando pagina sul serio». Il segretario Fim crede che la stragrande maggioranza dei cittadini «non voglia affatto chiudere l’Ilva, come ha dimostrato il referendum del 2013, quando andò a votare il 19 per cento degli aventi diritto, e solo il 9 per cento nel rione Tamburi, il più colpito dall’inquinamento».
Sull’atteggiamento dei tarantini è più crudo Antonio Talò, che al terzo piano dello stesso palazzotto guida la Uilm, l’organizzazione che ha vinto le elezioni del 2013 per la Rsu: «Sa che dicono in città? Glielo dico in dialetto: “Che me ne futte a me”? C’è distacco. La borghesia se ne sta a casa, la Confindustria non è mai stata all’altezza e la politica è rimasta in un angolo senza prendersi responsabilità». Talò non è ottimista: «Siamo nel periodo peggiore dell’Ilva, servono tanti soldi per far tornare in carreggiata la società e ho forti dubbi sui nuovi manager. Il direttore generale, Massimo Rosini, viene dagli elettrodomestici bianchi e s’è portato altri dirigenti di quel settore. Spero di sbagliarmi, ma avrei preferito un esperto di acciaio».
Fondamentale per una città che conta 192 mila abitanti (erano 242 mila qualche anno fa), il più grande impianto siderurgico d’Europa, che fino al 2008 produceva 9 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, secondo parecchi osservatori è strategico per l’industria manifatturiera. «Sì, se non ci fosse l’Ilva il prezzo dei prodotti “piani” (che servono per costruire auto, lavatrici, lattine), aumenterebbe tra il 12 e il 20 per cento. Perché ci sarebbe meno acciaio disponibile e il settore manifatturiero italiano, ora indipendente, dipenderebbe dall’estero», sostiene Carlo Mapelli, professore di siderurgia al Politecnico di Milano. Negli ultimi 45 giorni, aggiunge il docente milanese, «c’è stato un boom dell’import dalla Cina: 250 mila tonnellate, pari a un terzo della produzione Ilva a regime nello stesso arco di tempo». E i prezzi, per i trasformatori dell’acciaio, sono immediatamente saliti.
«Nessuno è mai stato in grado di praticare prezzi competitivi come l’Ilva, che a Taranto ha una capacità produttiva enorme ed è la più efficiente d’Europa, quando funziona a regime. Ecco perché i concorrenti nord-europei sarebbero felici se chiudesse, soluzione che rappresenterebbe davvero una sconfitta per l’Italia. Confido tuttavia nel governo Renzi che, pur avendo perso sei mesi preziosi nel tentativo senza speranza di vendere l’Ilva, ora ci ha messo la faccia», sostiene Massimo Mucchetti, presidente della commissione Attività produttive del Senato.
"HO LE PALLE PER CHIUDERE TUTTO"
Per comprendere cosa significa il dibattito salute-lavoro, bisogna superare i cancelli di un parco che di romantico non ha nulla. Il “parco minerali” è una distesa gibbosa grande come 53 campi di calcio, le cui polveri hanno provocato lutti e rovinato la salute a tanti abitanti dei rioni vicini, tamburi e paolo vi. Appena ci saranno i soldi, dovrebbe essere chiuso in due immensi capannoni. Li costruirà la friulana cimolai, la stessa che ha realizzato il sarcofago della centrale nucleare di chernobyl, e costeranno 250 milioni. Un’opera mastodontica, che coprirà le otto collinette di carbone e minerale di ferro, cioè la materia prima che alimenta i cinque altoforni (di cui tre oggi spenti). Secondo l’ilva e i sindacati, la copertura è il punto fondamentale delle 94 “prescrizioni” dell’aia, l’autorizzazione integrata ambientale, gli obblighi che il governo ha imposto per adeguarsi agli standard europei sull’inquinamento.
Misure da completare entro agosto 2016, pena la chiusura. Invita alla cautela, però, michele emiliano, candidato governatore. Secondo lui rispettare l’aia non basta: «le stime fatte dall’arpa regionale dicono che i rischi sanitari non saranno azzerati, e se sarà così io non potrò che battermi per chiudere l’ilva, ho le palle per farlo. Se invece questi rischi verranno azzerati, appoggerò il piano del governo».
Il piano di cui parla Emiliano è quello affidato ai tre uomini chiamati a gestire l’amministrazione straordinaria. Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba hanno il compito di risanare l’azienda, creando una nuova società da capitalizare attraverso l’intervento di soggetti privati, tipo i fondi specializzati in risanamenti. Per poi venderla in blocco o quotarla in Borsa. Missione difficile, il cui fallimento vorrebbe dire la morte del più grande produttore d’acciaio italiano. I commissari puntano a riportare in pareggio il bilancio entro due anni, obiettivo raggiungibile solo se riusciranno a produrre 8 milioni di tonnellate l’anno, il doppio di oggi.
Tra risanamento ambientale, ammodernamento e gestione ordinaria, dicono di aver bisogno di 2,5 miliardi (ma per Mapelli e i sindacati sarebbero molti di più). E stimano in 1,2 miliardi i quattrini necessari per rispettare le sole norme ambientali. La cifra equivale al tesoro accumulato in Svizzera dalla famiglia Riva e messo sotto sequestro. Soldi che potrebbero finire nelle mani dei commissari tra poco, se così deciderà il tribunale di Milano. Per completare il risanamento e riportare la produzione in alto, i quattrini dei Riva non bastano. E neppure i 400 milioni di prestito obbligazionario che il governo farà stanziare dalla Cassa depositi e prestiti, magari col contributo delle banche.
La vera svolta può arrivare solo con i soldi degli investitori privati. Come i fondi specializzati, che prendono in affitto un gruppo, lo rimettono in sesto e poi lo mettono sul mercato. Strada lunga e piena di insidie, che passa per il riavvio di due altoforni, i possibili contenziosi con l’Ue per aiuti di Stato, il mercato dell’acciaio invaso dai cinesi, le incognite politiche. Intanto, dentro, pure le piccole cose sono difficili. «Mi occupo di manutenzione della mensa e sto chiedendo invano delle guarnizioni da pochi centesimi», dice Giuseppe, che sta con l’Usb e all’Ilva c’è entrato da raccomandato come quasi tutti, sostiene sorseggiando un cocktail al “Sud-Food and Music”, locale trendy del Borgo. Vive coi genitori e di tornare a lavorare al Nord, come fece da giovane, non ha intenzione: «Perché qua, dopo tutto, si sta troppo bene». Intanto il dj ha messo su i Deep Purple, “Smoke on the water”. Fumo sull’acqua. Un’istantanea di Taranto, con i due mari e le sue ciminiere.
Maurizio Maggi, Gloria Riva e Stefano Vergine
Micromega
09 02 2015
“Sull’inquinamento dell’aria a Taranto false accuse a Legambiente”. Con una lettera a MicroMega, che pubblichiamo, l’associazione ambientalista replica all’articolo “Ilva, un pauroso finale” di Antonia Battaglia. Che risponde qui con dati che evidenziano la non correttezza dell'informazione fornita da Legambiente nel rapporto “Mal’aria 2015”.
La lettera di Legambiente
Egregio Direttore,
abbiamo letto con stupore l’articolo “Ilva, un pauroso finale” di Antonia Battaglia pubblicato dalla vostra testata e vogliamo precisare quanto segue. Innanzitutto Legambiente non è vicina a nessun partito né tantomeno al governo di cui abbiamo denunciato più volte le malefatte, come quelle relative al recente decreto Sblocca Italia o messe in atto per fermare la rivoluzione energetica fondata su efficienza e rinnovabili, solo per fare due esempi.
È falso poi sostenere, come si fa nell’articolo, che nel nostro rapporto “Mal’aria 2015” ci sia scritto che l’aria della Taranto dell’Ilva sia tra le migliori d’Italia. Con questo nuovo rapporto Legambiente ha denunciato a livello nazionale ancora una volta, come fatto puntualmente negli ultimi 25 anni, il problema ancora irrisolto dell'inquinamento atmosferico in Italia. Troviamo francamente imbarazzante “confondere le mele con le pere”. Il rapporto infatti si concentra sulla qualità dell'aria nelle città capoluogo del Paese e sugli inquinanti (a partire dal pm10, le famigerate polveri sottili) emessi prevalentemente da fonti urbane quali il traffico o il riscaldamento domestico, non analizzando nello specifico gli altri veleni emessi invece dai camini industriali (evidente quindi che Taranto, così come le altre città che ospitano i grandi impianti produttivi rappresentano, come riportato anche testualmente nel rapporto, un caso a parte).
Del resto quello che pensiamo sull'Ilva e sullo smog che minaccia da decenni pesantemente la salute dei tarantini lo si può rilevare nei nostri numerosi rapporti pubblicati a partire dagli anni ‘80, nelle manifestazioni organizzate dalla nostra associazione (a partire da “Mal’aria industriale” del gennaio 2009, con migliaia di lenzuola anti smog appese sui balconi dai cittadini del rione Tamburi), nelle denunce presentate in Procura o nelle costituzioni di parte civile in sede processuale, oggi come nel passato.
Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale Legambiente
La replica di Antonia Battaglia
In risposta alla lettera del Presidente Nazionale di Legambiente a MicroMega, relativa al mio ultimo articolo pubblicato su micromega.net il 3 febbraio 2015, nel quale sono svolte considerazioni sul Rapporto di Legambiente “Mal d’Aria 2015”, desidero approfondire alcuni punti fondamentali.
La classifica stilata da Legambiente evidenzia la pericolosità dell’aria in diversi capoluoghi italiani, ma Taranto non è tra di essi.
Le tabelle pubblicate a sostegno della classifica raccolgono dati del primo mese del 2015 e degli anni 2014, 2013 e 2012. Sono dati relativi alle polveri, nelle frazioni PM10 e PM2.5, al biossido di azoto (NO2), all’ozono (O3) e ad altri inquinanti emessi in atmosfera.
Secondo le tabelle sul PM10 e sul PM 2.5, Taranto non rientra in quei capoluoghi che hanno superato la soglia limite giornaliera di 50 microgrammi/metro cubo.
Il problema di fondo ignorato dalla classifica “Mal d’Aria” è che non ci si può basare sul calcolo del PM10 in maniera esclusivamente quantitativa.
Nel misurare le polveri, infatti, occorre contemporaneamente verificarne l’incidenza, così come ha fatto lo Studio Sentieri dell’Istituto Superiore di Sanità, il quale ha stimato che a Taranto ogni microgrammo di PM10 ha un pericolosità 2,2 volte superiore rispetto a quello di altre città, per via del concentrato di sostanze chimiche, derivanti dall’inquinamento industriale, che vi si poggia sopra.
Si legge, infatti, nello Studio Sentieri: "I risultati della mortalità evidenziano, nel complesso, un aumento di 0.69% del rischio di mortalità totale per incrementi di 10 microgrammi/m3 di PM10, effetto superiore a quello riscontrato nelle principali analisi pubblicate in Europa (0.33%), nel Nord America (0.29%) e nei precedenti studi italiani (Studio MISA su inquinamento atmosferico e salute, 0.31%)", pubblicato su “Epidemiologia&Prevenzione” di Settembre-Dicembre 2011, p.136.
Ad incrementi di PM10, corrispondono, a Taranto, effetti sanitari in termini di mortalità più che doppi rispetto a quelli di altre città. A Taranto la media del 2014 di PM10 è di 30 microgrammi a metro cubo. Il limite, calcolato come media annuale, è 40 (il limite è 50 solo come soglia limite giornaliera ma su base annua è 40). Se si moltiplica 30 per 2,2 viene 66 microgrammi/m3, ben oltre il limite di legge!
Paragonare il PM10 di città diverse come se avesse un uguale potere tossico è un raffronto troppo sommario.
Quello che è pericoloso nelle polveri non è il loro peso, ma è la superficie che offrono agli inquinanti di cui sono vettori. E polveri molto fini (che pesano poco) offrono maggiore superficie rispetto a polveri meno fini (che pesano di più). Ciò che poggia sulle polveri sono le sostanze cancerogene e neurotossiche. A parità di concentrazione di polveri si possono avere differenti concentrazioni di sostanze tossiche, cancerogene e mutagene. Pertanto a concentrazioni elevate di polveri potrebbero corrispondere concentrazioni non elevate di sostanze neurotossiche, cancerogene, mutagene. Viceversa, a concentrazioni non elevate di polveri potrebbero corrispondere concentrazioni molto elevate delle stesse sostanze. Quindi, ciò che fa la differenza non è il peso delle polveri (metodo utilizzato da Legambiente per stilare la classifica di “Mal d’Aria”) ma la loro qualità.
Nel caso di Taranto, sulle polveri si poggia un’intera enciclopedia di sostanze tossiche. Secondo i dati del Registro europeo EPRTR esse sono: arsenico, cadmio, cromo, mercurio, nichel, piombo, zinco, diossine, idrocarburi policiclici aromatici, benzene, banadio, tallio, berillio, cobalto, policlorobifenili, solo per citarne alcuni.
L’effetto cumulativo e sinergico degli inquinanti produce conseguenze sanitarie che non sono assolutamente rappresentabili dalla classifica “Mal d’Aria”.
Taranto, secondo tale classifica, non avrebbe avuto alcuno sforamento nei livelli di ozono. I rilievi effettuati da Arpa Puglia, invece, sempre per lo stesso periodo di osservazione di Legambiente, 2013, evidenziano ben 59 sforamenti a Taranto-Talsano, 12 a Taranto-Statte (e poi 73 a Grottaglie e 77 a Massafra per un totale di 284 per tutta la provincia di Taranto). La cifra 0 risulta non veritiera.
L’effetto di un’informazione non corretta sulla qualità dell’aria, indotta dal rapporto Legambiente, ha portato il Sole 24 Ore a scrivere: "Aria fra le migliori d'Italia nella Taranto dell'Ilva", e che "L'aria più sporca d'Italia viene respirata non dove dicono le cronache delle Procure e l'immaginazione dei comitati nimby più attivi".
Per quanto riguarda la vicinanza di Legambiente al Governo, non è affatto trascurabile il fatto che il suo Presidente Onorario sia uno dei massimi esponenti del Partito Democratico, attualmente Presidente della Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera.
Sarebbero ben felici i bambini di Taranto di giocare nella “Bell’Aria” priva di diossine, PM10, PM2.5, ozono, idrocarburi policiclici aromatici. Eviterebbero di avere il 54% in più di tumori rispetto alla media regionale (Studio Sentieri).
Antonia Battaglia
Huffington Post
15 01 2015
Sull'Ilva di Taranto è difficile, e forse anche inutile, fare una classifica delle responsabilità. Ognuno ha le sue colpe - industriali, Governo, media, sindacati, magistratura, associazioni ambientaliste - e nessuno, neanche noi cittadini, può sentirsi del tutto innocente. Però, se devo individuare il soggetto che ha più colpa, almeno da un punto di vista etico, dico il Governo, che prima, ai tempi dell'Italsider pubblico, ha inquinato e ucciso - mi riferisco anche agli incidenti sul lavoro - più di quanto non abbia fatto il privato successivamente, e poi non ha controllato che i Riva rispettassero le regole. Anzi, ha a più riprese scritto delle regole su misura per loro.
A dichiaralo sul mio blog Tipitosti.it è Giuliano Pavone, giornalista, nato a Taranto nel '70, autore del libro Venditori di Fumo, Barney edizioni, che aggiunge: "Gli imprenditori per loro natura ricercano il massimo profitto. Uno Stato dovrebbe fare in modo che i profitti non vengano fatti sulla pelle dei cittadini".
L'espressione "vendere fumo" viene usata da due componenti della famiglia Riva in una conversazione telefonica intercettata. Si allude al fumo vero, cioè all'inquinamento, e a quello metaforico, la disinformazione, la connivenza che ha consentito si propagasse.
Quasi trecento pagine, che sono insieme un romanzo e un saggio, in cui l'autore afferma che l'affaire Ilva è soprattutto una perdurante emergenza sanitaria e ambientale, a cui si deve guardare superando la dicotomia salute o lavoro.
Nel libro il giornalista attacca i tarantini, dicendo:
Dobbiamo farci un severo esame di coscienza per l'indifferenza e la passività con cui per lungo tempo abbiamo lasciato che tutto ciò accadesse, benché i problemi fossero ben noti da tempo. Il benessere economico, di cui la città ha goduto fino ai primi anni '80, è stato un buon anestetico, e successivamente il ricatto occupazionale ha avuto il suo peso per tenerci buoni. Ma credo una cosa: la morsa che ci ha immobilizzato per lungo tempo non è stata solo economica, ma anche culturale. Abbiamo vissuto a lungo in una mentalità secondo cui oltre l'acciaio non c'era e non poteva esserci nulla per Taranto.
Pavone prospetta una terza strada, ben lontana da quella intrapresa dagli ultimi governi coi vari decreti Salva-Ilva. Qualcosa, comunque, comincia a muoversi. A sentire lo scrittore, la parte più attiva della cittadinanza tarantina si è risvegliata dal sogno-incubo della monocultura industriale e lavora per la diversificazione. Il settore agroalimentare è molto forte già adesso. La logistica ( il porto), la riconversione verso un'industria di minore impatto o addirittura green, la cultura (il museo archeologico, la città vecchia, il patrimonio di archeologia industriale del vecchio Arsenale), il mare e il turismo sono solo alcune delle possibili risorse, che andranno sfruttate in modo combinato.
Cinzia Ficco
Micromega
14 01 2015
di Antonia Battaglia
Il nuovo decreto Ilva, approvato in Consigli dei ministri il 24 dicembre scorso, è stato reso pubblico. Composto di nove articoli, il testo rappresenta un via libera totale e senza freni alla produzione dello stabilimento di Taranto, che viene definito di fondamentale interesse strategico nazionale e di pubblica utilità.
Il principio di questo decreto è la volontà chiara di salvare lo stabilimento e di eludere il grave problema ambientale e sanitario, allungando i tempi della realizzazione di quelle misure contenute nell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) per l’abbattimento, seppur parziale, di un inquinamento che è ormai totale e che ha toccato l’intero ecosistema dell’area.
Senza il rispetto dell’AIA (permesso a produrre), così come aveva sottolineato la Corte Costituzionale, l’Ilva non poteva garantire il bilanciamento tra diritto alla salute e diritto al lavoro e pertanto il sequestro degli impianti, del 2012, sarebbe potuto diventare di nuovo senza facoltà d’uso. Adesso l’AIA, scritta nel 2011, rivista nel 2012 e modificata nel marzo 2014 con un Piano Ambientale deludente e annacquato, non esiste de facto più.
Perché il decreto, che allunga i tempi affermando che tale piano si deve considerare completato qualora entro luglio 2015 venga realizzato almeno l’80% delle prescrizioni, in concreto non risponde al problema urgente: mettere un freno alla produzione che, secondo la Magistratura tarantina, inquina e uccide. Perché per il restante 20 % di misure da attuare in un futuro imprecisato (da definire con nuovo decreto ministeriale) ci potranno volere ancora anni, e in quel 20% ci potrebbero essere gli interventi più urgenti e costosi, quelli che farebbero la differenza sulla salute dei cittadini. Ad esempio la copertura dei cumuli di minerali e carboni, le cui polveri si diffondono incontrollatamente sulla città; o ancora, l’aspirazione delle emissioni nocive in fuoriuscita libera dallo stabilimento.
Il decreto pone l’Ilva sotto amministrazione straordinaria, in attesa di trovare un affittuario o acquirente, che possa acquisire l’azienda e garantirne la produzione senza alcun vincolo di natura ambientale o sanitaria. Si parla di bonifiche, rimandando al Piano Ambientale il cui completamento è di là da venire, e si specifica anche che il rapporto di valutazione sul danno sanitario, che potrà essere impugnato solo se la Regione ne chiederà il riesame, non potrà fermare il funzionamento dello stabilimento né modificare l’AIA.
L’Ilva è di pubblica utilità. Il massimo che il decreto concede ai tarantini, la cui vita viene ancora una volta mercificata, consiste nella promessa dell’insediamento di un nuovo “tavolo istituzionale” per il rilancio della città, della sua bellezza e della sua cultura.
Misure e proclami lanciati per cancellare il fatto che il Governo ha deciso che l’Ilva deve continuare a produrre, così come ha fatto in passato, nonostante Taranto.
La urgente e indifferibile emergenza sanitaria che sta decimando la città non interessa. Perché fermare la devastazione avrebbe dovuto costituire il primo obiettivo del governo di uno Stato di diritto degno di tale nome.
Il decreto approva anche le modalità di smaltimento di rifiuti pericolosi e non, già protette da un decreto dell’estate 2013, a firma del ministro Orlando. Le discariche all’interno dell’Ilva erano illegali, ma si è provveduto a renderle legali, questo nuovo decreto lo ribadisce.
Alea iacta est. Il Governo ha scelto di basare la sua competitività sulla malattia e la morte, mettendo al centro non i diritti naturali delle persone e gli investimenti in tecnologie che potrebbero garantirli, ma un nuovo e più odioso decreto che toglie alla popolazione la speranza di un futuro migliore. C’è un aumento costante dei casi di cancro, circa 1.000 nuovi malati ogni anno, in controtendenza rispetto al resto d’Italia, il cui tasso è in diminuzione. Ma la legge dice che Taranto non ha diritto a vivere, deve solo produrre e per contentino, in regalo, tanto orgoglio nazionale e la promessa di mirabolanti progetti culturali a richiamo della gloria passata della città.
Allungare ancora i tempi di attuazione dell’AIA vuol dire consegnare per certo la città e la sua gente ad anni di sofferenza. Lo dicono i dati sui malati di tumore, lo dice la Magistratura con le sue perizie, lo dice lo studio Sentieri, lo dice la Commissione Europea con il Parere Motivato lanciato sulla questione ILVA in ottobre 2014.
Il decreto, infine, stabilisce che i vertici della struttura non potranno essere perseguiti penalmente “per illeciti strettamente connessi all’attuazione dell’autorizzazione AIA e delle altre norme a tutela dell’ambiente”. Ovvero, i vertici della nuova Ilva non potranno essere perseguiti per nessuna delle azioni illegali che potrebbero commettere nell’esercizio delle loro funzioni poiché esse da oggi sono perfettamente legali.
Il nuovo decreto assicura, quindi, che i reati di inquinamento attuale e futuro non possano essere perseguiti penalmente. Ai responsabili della nuova amministrazione Ilva è garantita l’immunità.
In questo senso va anche il Disegno di Legge 1345, sui delitti ambientali. In discussione al Senato da diversi mesi, il DDL 1345 è stato accolto da diverse associazioni come una norma salva-ambiente mentre, al contrario, esso, se approvato, depotenzierà qualsiasi azione della magistratura finalizzata a contrastare i crimini ambientali.
Una nuova petizione, lanciata da Legambiente per l’approvazione del Decreto Legge 1345 sui delitti ambientali, e firmata da diverse tra le più importanti associazioni nazionali, rappresenta un pericolosissimo assist al Governo che preme per una approvazione veloce di questa norma . Qualcosa non torna.
Il testo del disegno di legge, infatti, già approvato alla Camera e in discussione al Senato da mesi, desta numerose perplessità per vari motivi. Esso rappresenta un’ importante sanatoria per chi è o sarà accusato di aver commesso crimini ambientali, ma soprattutto esso mira a definire il disastro ambientale come “reato di danno” piuttosto che come “reato di pericolo”. Per accertare il reato di danno ambientale, infatti, si deve esser verificata una “alterazione irreversibile dell’ecosistema”, ma il testo non specifica i concetti di “compromissione” e di “deterioramento” dell’ambiente stesso, lasciando così margini larghissimi di interpretazione dei fatti e del reato di danno accaduto a chi tali reati dovrà giudicare.
Per accertare come irreversibile un danno ambientale dovranno passare molti anni: l’astrazione della definizione e il lavoro di ricognizione scientifica che il testo chiama in causa fanno presupporre che il reato sarebbe ipotizzabile solo dopo una eventuale dichiarazione di "irreversibilità" del danno ambientale, quindi solo dopo aver provato a ripristinare la situazione antecedente all’inquinamento, attraverso tentativi di bonifica e di decontaminazione.
Passerebbero decenni, perché i disastri possono restare a lungo “invisibili”, prima che emergano i segnali della compromissione totale. Un incendio, uno scoppio, una petroliera che perde in mare sono evidenti; i picchi di cancro negli anni no, possono essere nascosti con grande maestria e uccidere più della perdita di petrolio in mare.
Il Ddl 1345 definisce il reato di danno ambientale quale evento “in violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela” al fine di portare la punibilità del reato di disastro ambientale al livello di meri regolamenti degli enti territoriali locali e quindi per poter perseguire illeciti, anche importanti, con mere ammende amministrative. Si permetterebbe a chi inquina a continuare a operare senza alcun problema di tipo penale e diventerebbe molto difficile per la magistratura poter punire i reati in oggetto. La punibilità di fatti gravissimi dipenderebbe solo dall’osservanza di carenti norme amministrative.
“Chi inquina paga”, se ha violato disposizioni amministrative, e solo se prima il danno è stato definito irreversibile e la sua riparazione è troppo onerosa per lo Stato.
Perché non si definiscono nuove e più pregnanti regole per fermare la devastazione che avanza in diverse zone del Paese, ma si sposta l’ago della bilancia in favore dell’inquinatore? Perché a Taranto ed in altri luoghi esposti al forte inquinamento, tutto avviene secondo le regole, secondo le norme.
Perché le leggi italiane in fatto di emissioni industriali, di smaltimento di rifiuti, di contaminazione, di controllo sulle sostanze immesse in aria acqua etc. non sono adatte a proteggere i cittadini. Né i controlli, affidati alle Agenzie Regionali di Protezione Ambientale si sono mai rivelati all’altezza dei problemi riscontrati.
Il Ddl 1345 è pericoloso per Taranto, Porto Tolle, Gela e Milazzo, Tirreno Power, Brindisi, le discariche romane, la Terra dei Fuochi e per le altre realtà italiane dove sono in atto reati ambientali tra i più gravi in Europa.
Perché Legambiente si mette dalla parte delle lobbies e del Governo?
Perché non si batte, assieme alle altre associazioni, al nostro fianco per una revisione drastica dei limiti di diossina, cosa che potrebbe salvare tante vite umane? Perché non si battono per la legislazione sul benzo(a)pirene, sugli IPA, sui PCB ?
Per il processo Ilva, la conseguenza dell’approvazione della nuova legge potrebbe essere quella di una revisione delle richieste di rinvio a giudizio e quindi dell’apertura di una battaglia legale mirante a sfruttare le numerose ambiguità del nuovo documento. Il Disegno di Legge 1345 è l’arma che può salvare chi è reo di gravi crimini ambientali, perché esso non rende più incisiva la legge né stabilisce limiti dei diversi inquinanti che fanno ammalare e uccidono.
Se il nuovo decreto legge Ilva/Taranto, annunciato lo scorso 24 dicembre, dovesse essere approvato come tale, quindi liberandosi dalla urgente applicazione delle prescrizioni AIA, inquinare a Taranto sarebbe non punibile se non con ammende amministrative. Immettere nell’aria livelli elevanti di diossina, di IPA, di benzoapirene oggi, dopo l’accertamento della magistratura, è un reato penale: il GIP di Taranto parla di attività criminosa. Se il Ddl 1345 fosse approvato, i rei non potrebbero essere perseguiti.
Il Senatore Felice Casson ha presentato una serie di emendamenti correttivi al testo originario, testo il cui obiettivo, lo ribadiamo, è quello di limitare l’azione penale della magistratura. Gli emendamenti presentati vogliono, tra l’altro, sganciare il reato dalla applicazione delle norme amministrative e definire in maniera più esatta e pregnante il concetto di inquinamento, riportando la partita nel campo del pericolo ambientale e sanitario, che viene esplicitamente menzionato.
Resta profondamente sconcertante che Legambiente, WWF e Greenpeace abbiano sostenuto la petizione che vuole l’approvazione immediata di una legge che depotenzia il reato ambientale da penale ad amministrativo. Oggi esiste un pericolo concreto e la magistratura interviene per disastro ambientale, domani prima di intervenire dovrà attendere di accertare la fine dell’ecosistema per arrivare ad una multa.