la Repubblica
27 03 2015
La Corte dei Conti ha deciso che gli agenti condannati per il caso Aldrovandi devono risarcire con oltre 560mila euro il ministero dell'Interno, che pagò i danni alla famiglia. Enzo Pontani e Luca Pollastri devono versare ciascuno 224.512 euro, Paolo Forlani e Monica Segatto, 56.128 euro. La Procura aveva chiesto 1,8 milioni. "E' la giustizia che va avanti". Così Patrizia Moretti, madre del 18enne ucciso a Ferrara il 25 settembre del 2005 durante un controllo della polizia, commenta all'Ansa la notizia. Per Moretti la sentenza della Corte dei Conti è "particolarmente importante" perché "riguarda tutti e non solo la nostra famiglia. E' il riconoscimento del male che ha subito la società intera".
La decisione è della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti per l'Emilia Romagna, nel collegio composto dal presidente Luigi Di Murro, dal consigliere Francesco Pagliara e dal consigliere relatore Massimo Chirieleison. I quattro poliziotti, condannati in via definitiva a tre anni e sei mesi - la Cassazione è del giugno 2012 - per eccesso colposo nell'omicidio colposo di Federico Aldrovandi, 18enne morto a Ferrara il 25 settembre 2005 in un controllo di polizia, erano stati citati in giudizio dalla procura contabile (ed era stato loro sequestrato un quinto dello stipendio).
I pm contestavano ai quattro un danno patrimoniale per 467.733 euro ciascuno e l'udienza si era tenuta il 28 gennaio. I giudici hanno anche disposto che il sequestro conservativo, autorizzato dal presidente della sezione a suo tempo, si converta in pignoramento per le somme che Pontani, Pollastri, Forlani e Segatto dovranno risarcire.
Nella sentenza di condanna i giudici scrivono che dalla lettura degli atti del processo penale "si evince che il comportamento" dei quattro uomini in divisa. Il danno subito dall'Amministrazione, proseguono i giudici contabili "costituito dalla somma pagata a titolo di risarcimento per il danno subito dagli eredi" del giovane morto nel 2005 "costituisce conseguenza diretta e immediata del comportamento gravemente colpevole dei convenuti".
Ma perché i quattro agenti dovranno versare somme diverse? I giudici lo hanno deciso per marcare "il quantum di danno" dei poliziotti facenti parte del primo equipaggio, rispetto ai componenti della seconda pattuglia, "in relazione alla tempistica dell'operazione di Polizia, così come desunta dagli atti del processo penale, che vedeva gli agenti Pollastri e Pontani intervenuti per primi sul posto".
Huffington Post
19 03 2015
Marinella dice che la prima volta non è riuscita a trattenere le lacrime. Ha pianto quando è tornata a casa.
“È stata l’esperienza che più mi ha impressionato nella vita” racconta, e per avere la giusta misura del commento bisogna aggiungere che Marinella, 42 anni, dipendente dell’Università di Torino, ha avuto anche altre esperienze ad alto impatto, ha lavorato col Gruppo Abele e in comunità che si prendono cura dei bambini con disagi famigliari. Ha spalle forti e voglia di capire.
“Il volontariato fa parte della mia vita. Mio figlio, 16 anni, mi ha chiesto perché lo facevo. A lui e a tutti rispondo che lo faccio perché non voglio giudicare. In carcere incontro donne come me, che hanno avuto una vita diversa solo perché hanno scelto altre strade, altre amicizie o forse non hanno avuto nessuno che le ha aiutate veramente. Sono donne che hanno paura, paura di tutto: anche solo di prendere un pullman nel giorno di permesso”.
Marinella entra in carcere due volte al mese con Fumne - così in piemontese si chiamano le donne -, un progetto unico nel suo genere perché sposta l’asse dell’integrazione: qui sono le detenute a insegnare un lavoro. È un laboratorio, ma soprattutto un processo di riconciliazione con chi vive fuori dalle mura.
Sara Battaglino ci racconta come è iniziato tutto. Lei e Monica Gallo sono architetti con la passione della moda e del mondo fashion. Invece di aprire un negozio o di dedicarsi allo shopping hanno messo su una associazione culturale – La casa di Pinocchio - e sono entrate in carcere, nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino : hanno dato la possibilità alle detenute di imparare un lavoro e di insegnarlo ad altri.
“Il laboratorio all’interno del carcere è come un ambiente di vita, e non un luogo di insegnamento e di ricezione passiva. È organizzato come un atelier. Dal carcere escono borse, accessori e bijoux realizzati con pezzi e stoffe riciclate. Le detenute escono da uno stato di ozio e inattività all’interno della cella e in gruppo iniziano a fare, a creare, a inventare, ad assemblare. Hanno una piccola fonte di guadagno e per loro non è una cosa da poco. Apprezzano il fatto di avere rispetto, reputazione e una nuova opportunità di vita. Forse all’inizio sono un po’ intimorite, ma dura poco. Poi acquistano una grande sicurezza e anche coraggio nel affrontare il mondo che c’è fuori”.
“Nascono delle amicizie, ci si confronta e ci si aiuta. Mi ha colpito molto una donna”, è di nuovo Marinella a parlare: “Quando l’ho vista era tutta contenta per il giorno di permesso che aveva avuto. Era riuscita a vedere l’edicola: non si ricordava più come erano fatte. Ed era riuscita a bere un cappuccino vero, un cappuccino fatto al bar. Come fai a non rivalutare la tua vita dopo racconti così”.
Da fuori spesso ci si domanda come sono le donne che vivono in carcere. “Ecco io rispondo che sono donne che vanno aiutate. Anche se a volte è difficile perché ti trovi davanti persone che hanno commesso delitti. Mi è successo, ero combattuta, avevo letto di questa donna sul giornale. Aveva ucciso. Ma mi sono detta che dovevo distaccarmi da quello che aveva fatto e vedere solo la persona che avevo di fronte. Le sue parole non le dimentico, mi ha detto: io me lo merito di stare qua dentro, ma vorrei starci con dignità”.
Oltre al Lab, Fumne è anche un brand etico e sociale venduto in tutta Italia e anche in Francia, Giappone, Grecia e Australia.
Nicoletta Moncalero
Il Fatto Quotidiano
19 03 2015
“A Ferrara ci sono state altre situazioni molto dubbie risolte in modo abbastanza… ‘in carrozza’”. In carrozza, cioè alla buona, senza tribolare, alla carlona. È una frase che esce dalla bocca di un ispettore della questura di Ferrara, Alessandro Chiarelli, responsabile dell’ufficio minori e segretario provinciale del Siap (Sindacato italiano appartenenti alla Polizia).
Il poliziotto sta parlando del suo ultimo libro, “Il caso Aldrovandi 2005-2015”. Ma a destare il mio interesse è qualcosa che nel libro non c’è.
Nel corso della presentazione pubblica, avvenuta a Ferrara, l’autore, dando per scontate le colpe dei quattro colleghi (“gli errori ci sono stati, Federico è stato immobilizzato in maniera cruenta e non come da manuale”), critica il comportamento della questura estense all’indomani della morte di Federico: “Era sbagliato già il mattinale nel quale nemmeno si parlava dello scontro, un tentativo riduzionista per risolvere la situazione come se ne sono visti tanti nel corso dei decenni in Italia”. E aggiunge: “Anche a Ferrara ci sono state altre situazioni molto dubbie risolte in modo abbastanza ‘in carrozza’”.
Ora, un ispettore della questura di Ferrara, finita per anni nell’occhio del ciclone per ipotesi di depistaggio (un ufficiale condannato in Cassazione e uno assolto per prescrizione), afferma pubblicamente di essere a conoscenza, diretta o indiretta, di casi simili o assimilabili. Casi, a suo dire, “risolti” attraverso un metodo per decenni sperimentato con successo in tutta Italia (è sempre la parafrasi delle sue parole), quello dell’insabbiamento.
Sarò ancora più diretto: un funzionario importante della questura e sindacalista della Polizia di Stato ci sta dicendo che è al corrente del fatto che in passato ci sono stati altri casi Aldrovandi, con vittime non necessariamente finite all’obitorio. Casi rimasti sepolti.
Ne vogliamo parlare?
Marco Zavagli
Cronache del Garantista
12 03 2015
E’ dal primo marzo che manca l’infermiere per il turno di notte al carcere sardo di Alghero. Il motivo? Il turno notturno è stato sospeso su decisione del commissario dell’Asl e dietro indicazione del responsabile del servizio.
La motivazione sarebbe quella di poche richieste da parte della popolazione carceraria nella fascia notturna, da qui la decisione di spostare l’infermiere nel carcere di Bancali a Sassari, dove a quanto pare sarebbe stata rappresentata una situazione di emergenza.
Per questo motivo c’è molta preoccupazione tra i detenuti del carcere di Alghero e hanno predisposto una petizione – corredata da un centinaio di firme – che è stata inviata al commissario dell’Asl e alla direzione del carcere. Ma non è un problema isolato. L’intero sistema sanitario penitenziario è in deficit a causa dei tagli
iniziati nel 2012 dal governo Monti e per questo motivo i detenuti non ricevono cure adeguate.
Tagli al personale che incidono anche sulle morti in carcere. Ogni anno oltre cento detenuti muoiono per ”cause naturali”. A volte la causa della morte è l’infarto, evento difficilmente prevedibile, ma altre volte sono le complicazioni di malanni trascurati o curati male e un lungo deperimento, dovuti a malattie croniche.
L’articolo 1 del Decreto Legislativo 230/99, sul riordino della medicina penitenziaria stabilisce che: «I detenuti e gli
internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali».
Dall’entrata in vigore di questa legge sono trascorsi 14 anni, nel corso dei quali le competenze sull’assistenza sanitaria dei detenuti avrebbero dovuto gradualmente passare dal Ministero della Giustizia a quello della Sanità: invece, quello che si è sicuramente verificato è stato il taglio delle risorse economiche destinate alle cure mediche per i detenuti, mentre l’attribuzione delle pertinenze è tuttora argomento di discussione e di confusione.
Nel frattempo i detenuti morti per problemi di salute sono aumentati d’anno in anno. Ma l’assistenza sanitaria in carcere è molto complicata anche perché a volte i detenuti ”usano” la propria salute per cercare di ottenere migliori condizioni di detenzione – una dieta speciale, una cella singola, l’autorizzazione a fare la doccia ogni giorno, farmaci con i quali ”sballarsi” – oppure la detenzione domiciliare o il rinvio della pena. I medici, a loro volta, tendono a considerare tutti i detenuti dei simulatori, a minimizzare di fronte ai sintomi di una malattia, a rassicurare il paziente – detenuto sul fatto che ”non è niente di grave”.
Il comportamento di entrambe le parti impedisce l’instaurarsi di un rapporto di fiducia, che pure sarebbe necessario per l’effettività e l’efficacia delle cure. Così, quando un detenuto muore, una azione di ”depistaggio” viene spesso messa in campo per scaricare su altri la responsabilità dell’accaduto, sia all’interno del carcere – gli agenti non l’hanno sorvegliato, i medici non l’hanno curato, gli psicologi non l’hanno capito, i magistrati non l’hanno scarcerato -, sia all’esterno – non è morto in cella, ma durante la corsa verso l’ospedale, oppure subito dopo l’arrivo in ospedale -, il che vuol dire: «Noi non c’entriamo, il carcere non c’entra, da qui è uscito ancora vivo».
Ed è vero che ci sono delle indagini, che un fascicolo viene aperto in Procura, però le notizie diffuse dai mezzi di informazioni si basano quasi sempre sulle versioni ”addomesticate” che provengono dal carcere. Fanno eccezione solo i casi nei quali i famigliari o gli avvocati del detenuto morto s’impegnano fortemente perché venga fatta chiarezza sulla fine del loro congiunto e, allora, si arriva anche all’accertamento delle responsabilità, a sentenze di condanna, a volte alla rimozione di direttori e dirigenti sanitari.
Damiano Aliprandi