×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 415

Marijuana coltivata in casa, depenalizzazione in vista

  • Giovedì, 12 Marzo 2015 09:39 ,
  • Pubblicato in L'ESPRESSO

l'Espresso
12 03 2015

Perquisizioni e arresti per qualche pianta di marijuana coltivata sul terrazzo di casa potrebbero diventare solo un ricordo lontano. Tanto chi fa uso dell’”erba” per problemi di salute che chi la fuma per piacere, come accade già in altri Paesi, in Italia potrebbe a breve non rischiare più di finire indagato e poi processato solo per qualche vaso di canapa indiana. Come non è reato consumare droga, ma solo spacciarla, potrebbe infatti non esserlo più coltivarla per uso esclusivamente personale. A mostrare un’apertura verso la depenalizzazione di chi coltiva canapa sono stati, il 10 marzo scorso, i giudici della Corte d’Appello di Brescia, che hanno sospeso il processo a un coltivatore appunto e inviato gli atti alla Corte Costituzionale.

Davanti ai magistrati lombardi è finito il caso di un commerciante bresciano, trovato con otto piante di canapa indiana in garage e 25 grammi di marijuana nel comodino. Nel processo di primo grado non è emersa alcuna prova su un’eventuale attività di spaccio da parte del coltivatore. “Quello che mi è stato sequestrato era solo per me, mai pensato di darla ad altri”, ha assicurato. Ma come accaduto a tanti altri, da Nord a Sud della penisola, visto che l’attuale legge considera un reato la semplice coltivazione di canapa, il commerciante è stato condannato lo scorso anno dal Tribunale di Brescia a otto mesi di reclusione e mille euro di multa.

A quel punto l’imputato ha impugnato la sentenza e i suoi difensori, gli avvocati Claudio Miglio e Lorenzo Simonetti, hanno riletto tutta la giurisprudenza degli ultimi venti anni in materia. Con il referendum del 1993 fare uso di droga non è più reato. Quanti vengono trovati in possesso di sostanze stupefacenti, per uso personale, vengono così soltanto segnalati alla Prefettura. Una semplice violazione amministrativa. Chi coltiva canapa indiana finisce invece sempre e comunque davanti a un giudice, con tanto di avallo, nel 2008, della Cassazione a sezioni unite.

Per la difesa dell’imputato tale situazione limita un diritto fondamentale della persona, il principio di uguaglianza. E dello stesso avviso è stata la Corte d’Appello di Brescia, che con un’ordinanza ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale, ritenendo che sia ora di rivedere la norma. I giudici lombardi hanno specificato che i coltivatori per uso personale non vanno a intaccare il cuore della legge antidroga, che consiste nel “combattere il mercato della droga, che pone in pericolo la salute pubblica la sicurezza e l’ordine pubblico, nonché il normale sviluppo delle giovani generazioni”.

Se la Consulta appoggerà la tesi della Corte d’Appello di Brescia, coltivare canapa indiana non sarà dunque più reato. E l’ordinanza emessa il 10 marzo è stata intanto trasmessa alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e ai presidenti delle Camere. Dopo l’abolizione della Fini-Giovanardi, che ha ripristinato la distinzione tra droghe leggere e pesanti, un altro possibile colpo al sistema messo in piedi in Italia per gestire il tema degli stupefacenti.

Clemente Pistilli

l'Espresso
26 02 2015

Quattro agenti indagati e un medico nei guai. Sta dando i primi frutti la complicata inchiesta sui pestaggi avvenuti nella “cella zero” del carcere di Poggioreale, nata dalla denuncia di alcuni detenuti ed ex detenuti, che hanno raccontato ai magistrati di essere stati picchiati a sangue da una squadra di agenti della polizia penitenziaria, nel buio di una cella al piano terra del penitenziario napoletano.

I procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppe Loreto e il pm Alfonso D’Avino hanno iscritto nel registro degli indagati quattro agenti della polizia penitenziaria, che ora non sono più in servizio a Poggioreale. Mentre rimane pendente una denuncia nei confronti di un medico del carcere, accusato da uno dei detenuti di non averlo neppure visitato, facendo finta di nulla quando lui si è presentato in infermeria con lesioni tipiche da pestaggio.

Le indagini stanno andando avanti in silenzio e non senza difficoltà, tanto che i magistrati napoletani hanno dovuto chiedere una proroga di sei mesi, in modo da rintracciare testimoni e altre probabili vittime che, nel frattempo, sono stati trasferiti in altri istituti di pena. Intanto, le denunce dei detenuti sono arrivate a quota 150.

Sospetti abusi di potere che anche l’Espresso aveva denunciato, raccogliendo le testimonianze dei detenuti.

Secondo i loro racconti, nell’istituto partenopeo che all’epoca dei fatti - nel gennaio 2014 - era il penitenziario più sovraffollato d’Europa, un manipolo di agenti della polizia penitenziaria, che si faceva chiamare “la squadretta della Uno Bianca”, commetteva abusi di potere e feroci pestaggi nei confronti dei detenuti (soprattutto stranieri o in attesa di giudizio) che venivano portati in una cella vuota e priva di telecamere, denudati, picchiati e infine minacciati perché non rivelassero a nessuno quello che era successo.

Qualcuno, però, ha trovato il coraggio di parlare. Prima con il garante dei detenuti della Campania, Adriana Tocco, che ha inoltrato un dossier alla Procura. E poi con gli stessi magistrati, che ancora in questi giorni stanno incrociando testimonianze e ricordi, andando a ritroso nel tempo e cercando di rintracciare anche detenuti che nel frattempo hanno lasciato il carcere o sono stati trasferiti in altri istituti, cercando di abbattere quel muro di paura e omertà che si sarebbe creato a Poggioreale.

I ricordi di quelle violenze sono ancora ben impressi nella mente di uno dei detenuti, R.L., uno dei primi ad aver sporto denuncia in Procura, che oggi racconta a l’Espresso: “Mi ricordo ancora come fosse ieri, era il luglio del 2013. Mentre mi portavano in quella cella uno degli agenti si sfregava le mani e si toglieva gli anelli, poi continuava a ripetermi: 'Tu sei una brava persona'. E più me lo diceva più io tremavo, perché capivo che stava per succedermi qualcosa”. I dettagli, agghiaccianti, concordano con quelli degli altri detenuti: “Una volta arrivato nella cella, gli altri agenti quando mi hanno visto hanno detto: “E chi è ‘sta munnezza?” Poi mi hanno fatto spogliare completamente nudo. E sono iniziate le botte”.

L’uomo - che era finito in carcere per una vicenda di ricettazione e che oggi ha scontato la sua pena - elenca anche altri dettagli, pure questi finiti sul tavolo del magistrati: “Le vittime di questi pestaggi erano soprattutto stranieri, o comunque persone normali, senza grossi curriculum criminali. Prima di pestare un detenuto, andavano a vedere nei registri chi era e cosa aveva fatto. Non si azzardavano a picchiare i camorristi, per paura di vendette e ritorsioni”.

Nel mirino dei magistrati però non sono finiti solo gli agenti della penitenziaria ma anche un medico, che avrebbe dovuto denunciare d’ufficio le botte subite dai carcerari, e invece non lo avrebbe fatto. “Quando mi sono fatto visitare in infermeria avevo paura a raccontare di essere stato vittima di un pestaggio, però le botte sul mio viso e sul corpo erano inequivocabili - racconta oggi a l’Espresso l’ex detenuto - Ma lui senza neppure visitarmi ha detto: “Torni pure in cella, è tutto a posto”. “In quella cella mi hanno umiliato, mi hanno ferito. Mi hanno annullato come essere umano”.

Accuse pesantissime che devono ancora essere dimostrate. Certo è che la notizia di questa svolta nell’inchiesta sembrerebbe aver dato ragione all’ex detenuto Pietro Ioia, uno dei primi a parlare dell’esistenza della “cella zero”, che oggi fa parte dell’associazione ex detenuti napoletani: “Qualcosa si sta muovendo, dopo anni di silenzio su quello che succedeva in quel carcere. Ora chi ha sbagliato deve pagare. Non dimentichiamoci mai che il carcere deve essere un luogo di recupero per chi sbaglia, non di tortura”.

E qualche effetto positivo, questa inchiesta, l’ha avuto: dopo un’ispezione, sono cambiati i vertici dell’istituto e della polizia penitenziaria e il clima a Poggioreale è decisamente migliore. “Con l’apertura delle celle e l'aumento di varie attività nel carcere - conferma il garante dei detenuti Adriana Tocco - non sto ricevendo più denunce, né verbali, né scritte per abusi e violenze”.

Arianna Giunti

Huffington Post
19 02 2015

Caro Dott. Capece,

Lei che mi accusa di istigare all'odio, cosa ne pensa dei recenti commenti degli agenti appartenenti al suo stesso ordine di polizia penitenziaria sulla morte del detenuto 'rumeno'?

Il detenuto 'rumeno' non era forse un essere umano come tutti gli altri, prima ancora che detenuto e 'rumeno'?

E cosa si vuole esprimere esattamente dicendo 'meno uno' o 'mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l'esempio'? Sbaglio quando dico che c'è un enorme problema culturale?

Caro Dott. Capece, vorrei chiederle, è davvero così convinto che sia io ad infangare l'onore della categoria a cui lei appartiene?
Io credo onestamente di rispettare l'onore della vostra categoria molto più di alcuni dei suoi appartenenti.

Le rammento, caro Dott. Capece, che qualcosa come 140 persone hanno visto mio fratello nel suo calvario, che lo ha portato alla morte in quelle terribili condizioni che tutti sappiamo.

Molti di loro erano suoi colleghi. Forse quei suoi colleghi pensavano 'meno uno'. Ognuno di quei suoi colleghi lo ritengo moralmente responsabile della morte di mio fratello, per il semplice fatto che se avessero compiuto quello che era il loro dovere di pubblici ufficiali, cioè denunciare quello che avevano davanti agli occhi, forse e dico forse mio fratello sarebbe ancora vivo.

E nonostante questo mai e poi mai mi sarei espressa in simili termini nei loro confronti. Mai l'ho fatto, nemmeno nei confronti degli aguzzini di mio fratello.

La invito ad una seria riflessione, caro Dott. Capece.

Ilaria Cucchi

 

La gabbia

  • Giovedì, 19 Febbraio 2015 09:38 ,
  • Pubblicato in LA STAMPA

La Stampa
19 02 2015

Un ergastolano si suicida in prigione e sulla pagina Facebook di un sindacato di polizia penitenziaria compaiono commenti di tenebra: «un rumeno di meno», «mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l’esempio». Stupore, scandalo, indignazione. E il solito carico insopportabile di ipocrisia. Come se molti secondini non avessero mai formulato questi pensieri anche prima che la tecnologia permettesse loro di farli conoscere a tutti. Come se, oltre a pensarli, non li avessero già espressi fin troppe volte in pestaggi e torture.

Ma, soprattutto, come se si trattasse di qualche malapianta cresciuta in un giardino di rose anziché dell’ovvia conseguenza di un sistema in cui carcerieri e carcerati condividono le stesse brutture e combattono l’ennesima guerra tra poveri.

La galera in Italia non è un centro di recupero, ma una soffitta orrenda dove stipare rifiuti umani che almeno metà della popolazione vorrebbe vedere sparire per sempre, non fosse altro perché teme che qualche garbuglio legale riesca a rimetterli in libertà molto prima del meritato e del dovuto. Le statistiche urlano che il carcere riesce a cambiare soltanto chi lavora, possibilmente in un luogo sano.

Eppure nella pratica comune i condannati vivono da parassiti e la pena viene espiata in ambienti fetidi e brutali, tranne per chi è abbastanza ricco e mafioso da potersi permettere un trattamento privilegiato. Rendere civili le carceri e dare un senso alla galera non porta voti, quindi è considerato uno spreco. La politica ci risparmi almeno la sua indignazione per la beceraggine di certi immondi carcerieri. È lei ad averli disegnati così.

Carceri"Uno di meno. Che sicuramente non avrebbe scontato la pena per intero, ci sarebbe costato parecchi denari e che all'uscita avrebbe creato di nuovo problemi. Spero che abbia sofferto. Tre metri quadri a disposizione per qualcun altro...". Domenica, ore 12.02. Sono passati meno di due giorni da quando, alle 22.10 di venerdì scorso, Ioan Gabriel Barbuta, romeno di 39 anni, si è impiccato usando i pantaloni di una tuta nella sua cella del carcere di Opera (Milano). 
Cesare Giuzzi, Corriere della Sera ...

facebook