l'Espresso
05 02 2015
Due mediatori culturali per cento stranieri. Interpreti qualificati che si contano sulle dita di una mano. Al punto che, quando occorre parlare con una persona appena arrestata, si chiede aiuto al traduttore automatico di Google. Diritti basilari che vengono sepolti e che degenerano in risse, pestaggi, aggressioni agli agenti della polizia penitenziaria. E poi, ancora, più in generale, decessi e suicidi che non si fermano in un lento e anonimo stillicidio.
Fra le emergenze del nostro sistema carcerario che richiedono con urgenza di essere affrontate, il sovraffollamento non è più al primo posto, ma in pole position troviamo la violazione dei diritti dei detenuti stranieri, la cui presenza in carcere è ancora altissima, soprattutto quelli in attesa di giudizio, ai quali non vengono concesse misure alternative al carcere.
E’ il ritratto delle nostre prigioni fatto dall’Osservatorio Antigone, che redige un bilancio sull’anno appena trascorso anticipando i dati ufficiali che saranno contenuti nel rapporto annuale del 2014 e che ha focalizzato i suoi studi sulla presenza degli stranieri nelle celle italiane.
Rispetto a un anno fa, infatti, dati alla mano, il totale dei detenuti risulta diminuito in maniera significativa dopo l’approvazione del decreto carceri che ha fatto evitare al nostro Paese, per un soffio, la sonora condanna da parte dell'Unione Europea per trattamenti inumani e degradanti. E mentre manca ancora la figura di un garante nazionale a tutela dei detenuti, scende il numero totale dei carcerati - al 31 dicembre 2014 erano 53.623 contro i 62.157 dell’ anno precedente - ma continua a rimanere alto quello degli stranieri dietro le sbarre ai quali non vengono concesse misure alternative al carcere: il 32,56% del totale della popolazione carceraria. Di questi il 34% è ancora in attesa di giudizio, mentre gli italiani nella stessa condizione sono il 29 per cento. Tutto questo - spiegano da Antigone - avviene perché mancano investimenti dello Stato sulle comunità, ormai colme, e molto spesso gli stranieri non sono in grado di fornire l'indirizzo di un'abitazione dove scontare eventuali domiciliari. E quindi tutto il sistema si ingolfa.
Così si scopre che nelle celle si continua a morire. Nell’anno appena trascorso i decessi ammontano a 131, di cui 43 sono suicidi. L'ultimo caso si è verificato lo scorso 29 gennaio nel carcere di Palermo. A togliersi la vita è stato un ragazzo di 26 anni. E soprattutto, l’emergenza nazionale diventa la difficile convivenza e lo stato di abbandono dei detenuti stranieri, ai quali vengono negati anche i diritti più elementari previsti dall'ordinamento giudiziario. Come quello ad avere a disposizione interpreti e mediatori culturali.
NIENTE INTERPRETI
Secondo i dati resi noti da Antigone, infatti, sono 379 in tutta Italia. Ovvero meno di due mediatori ogni cento detenuti stranieri. Una penuria di personale che dà vita a storie al limite dell’incredibile, come quella raccontata dalla direttrice di Regina Coeli Silvana Sergi: “Per poter allentare le tensioni negli istituti quando i detenuti entrano ed escono e non abbiamo l’ aiuto prezioso dei mediatori, non ci resta che utilizzare il traduttore di Google”, spiega.
Una situazione, questa, che mette ben in evidenza il ruolo fondamentale svolto dai mediatori culturali che, ad oggi, lavorano solo con piccoli bandi e sono legati ad associazioni e cooperative e non direttamente agli istituti di pena. Figure professionali che il più delle volte vengono garantite, a rotazione, soltanto una volta a settimana.
“I mediatori culturali sono assolutamente pochi – ha spiegato il presidente di Antigone Patrizio Gonnella - . Non possono reggere il peso della quantità di detenuti stranieri presenti in carcere. Di fronte ad una utenza straniera così significativa, parliamo di un detenuto straniero su tre, dovrebbe esserci un grosso investimento nel sistema penitenziario e nel sistema delle figure professionali”. “Capita spesso che i detenuti italiani non capiscano la terminologia di un atto ad esempio di una custodia cautelare – ha aggiunto Natalia Moraro, mediatrice culturale per l’ associazione Medea - figuriamoci una persona straniera. Per questo il mediatore dovrebbe essere presente per lo meno al servizio nuovi giunti”.
Ed è stata anche l’Europa a chiedere un investimento maggiore su queste figure professionali. “La raccomandazione del 2012 del Consiglio d’Europa ci dice che bisogna investire in mediatori culturali, interpreti e traduttori – ha aggiunto Gonnella -, perché è un problema di tutta l’Europa. Non possiamo pensare di avere un’organizzazione tutta pensata per un detenuto che non esiste più, il detenuto italiano, e non tradotta nella lingua delle persone che ci sono dentro. Questo aumenta la conflittualità”.
RISSE E AGGRESSIONI
Una conflittualità che, appunto, più in generale si traduce in uno stato di tensione che degenera i continue risse e pestaggi, dove i protagonisti sono in uguale misura detenuti stranieri e italiani. A subire le botte inoltre non sono solo i carcerati, ma anche gli agenti della polizia penitenziaria. Come denunciano dal sindacato Sappe, che registra una media di tre aggressioni al mese.
Mentre, più in generale, le violenze non si fermano: l’ultima rivolta carceraria si è registrata nel carcere “Due Palazzi” di Padova lo scorso 23 gennaio. E continuano, anche le inchieste interne ai penitenziari. Come quella, appunto, che riguarda sempre il carcere padovano, dove detenuti condannati in via definitiva avrebbero trasformato il penitenziario in un "supermarket fuorilegge" dove tutto aveva un prezzo, dal materiale informatico alla droga.
Un’indagine delicatissima ancora in corso - che ha svelato un sistema di crimini, abusi e complicità tra alcuni agenti di polizia penitenziari e un gruppo di carcerati - opposta a quella che ha travolto Poggioreale, dove circa sessanta detenuti ed ex detenuti hanno denunciato ai magistrati napoletani di essere stati picchiati a sangue in piena notte nella “cella zero” del carcere. In sostanza, un gruppo di guardie si sarebbe trasformato in una squadra deviata di picchiatori, che prendeva di mira soprattutto i detenuti stranieri.
DIRITTI DIMENTICATI
L’Osservatorio Antigone, quindi, sempre focalizzandosi sulla presenza degli stranieri nelle nostre prigioni, sottolinea l’incompletezza della legislazione interna alle carceri, che dà per scontato che il detenuto sia italiano e non tiene conto della forte presenza degli stranieri. “Nel codice di procedura penale - si legge - non esiste ancora una norma che preveda il divieto di trasferimento di una persona da noi detenuta verso Paesi dove vi sia il rischio di essere sottoposti alla tortura o a trattamenti inumani o degradanti”.
Mentre ancora una volta si mette l’accento sulle lacune del personale impiegato nel carcere, che molto spesso non conosce neppure una lingua straniera: “Occorre assumere con concorso pubblico interpreti e traduttori dalle varie lingue in numero sufficiente affinché possano operare in ogni istituto penitenziario - si legge nella relazione - e la lingua inglese deve essere inserita fra le materie d‟esame per l‟accesso ai vari ruoli della carriera penitenziaria e del servizio medico”.
E, poi, ancora, “prevedere che l‟insegnamento della legislazione interna e internazionale sugli stranieri in vigore, compresa la raccomandazione europea del 2012, e delle lingue più parlate dai detenuti facciano parte dei programmi di aggiornamento professionale e formazione continua”. Più in generale, si chiede che all'interno delle nostre prigioni si mantengano i diritti finora faticosamente conquistati, come l'apertura delle celle nella fascia pomeridiana della giornata, fortemente osteggiate invece dai sindacati di polizia penitenziaria. Mentre la nascita di laboratori internet, aree verdi e corsi di aggiornamento professionale potrebbero essere una risposta all'alto tasso di recidiva dei detenuti. Perché le celle - come prevede il nostro ordinamento giudiziario - non si trasformino in un abisso ma in un luogo di recupero.
Arianna Giunti
Global Project
30 01 2015
Comunicato di Padova città aperta - Laboratorio per lo sciopero sociale
La libertà di movimento è sotto un attacco strategico. A Padova cinque attivisti del CSO Pedro, Bios Lab e del Coordinamento Studenti Medi sono stati perquisiti in primissima mattinata, ricevendo la notifica di quattro obblighi di dimora e un arresto domiciliare.
A pochi giorni dalla sentenza No Tav, che ha ribadito lo stato di guerra costruito dai poteri congiunti politici, giudiziari e polizieschi, vediamo confermarsi l'atteggiamento riservato ai percorsi e ai momenti di conflitto sociale in Italia. Nella città patavina questo clima si unisce all'ormai noiosa retorica allarmista appartenente ad alcuni esponenti dei partiti politici locali, della magistratura e delle forze di polizia, tutta volta a riesumare lo spettro del ritorno degli anni Settanta e della violenza politica. La sproporzione tra pene e reati, l’assunzione della colpevolezza nel dare pesanti misure preventive, dunque senza alcun dibattimento, l’allontanamento forzato degli attivisti da Padova, è indice della sordità che le istituzioni hanno nei confronti delle problematiche e rivendicazioni sociali che la città esprime. Ed anche della tensione che si vuole creare identificando gli attivisti come un problema di sicurezza e di ordine pubblico della città: l’obiettivo è minare la possibilità di un cambiamento radicale, mettendo a tacere e bandendo qualsiasi voce di dissenso.
Non era forse questo ciò che hanno gridato a gran voce le centinaia di partecipanti al corteo del 14 novembre? Non era forse la contrarietà alla riforma del lavoro peggiore - il Jobs Act - che sia mai stata approvata negli ultimi decenni? A Padova come in tantissime altre piazze italiane, questo desiderio di migliori condizioni di vita, possibilità, reddito e diritti ha fatto scendere per le strade le centinaia di migliaia di strikers, protagonisti dello sciopero sociale. In un’Europa scossa da venti di cambiamento istituzionali, i partiti e le istituzioni nostrane che esultano per le vittorie elettorali altrui si dimostrano ancora una volta quello che sono: riproduzione del loro potere, chiusura totale nei confronti delle istanze sociali che costruiscono quotidianamente un modo diverso di vivere la città, che parli il linguaggio delle lotte e dei diritti.
Liberi tutti. Per una Padova libera e aperta ai movimenti che la abitano, per una trasformazione del diritto affinché non sia uso e strumento del più forte, ma certezza e garanzia di difesa di chi diritti non ne ha. La libertà di movimento non si misura, men che meno con le operazioni repressive da parte di chi mira a restringerla sempre di più.
Un’ultima cosa la vogliamo dire a chi tenta con questi strumenti di fare paura a chi si mette in gioco in prima persona per trasformare le vite dei troppi che non un futuro: le vostre intimidazioni non ci fanno paura e anzi, ci convincono che stiamo percorrendo la strada giusta, rafforzano la nostra voce e moltiplicano il nostro bisogno insopprimibile di lottare per la nostra libertà!
Alle ore 13.30 conferenza stampa sul Liston e alle ore 18.00 presidio in P.zza Antenore.
Non ci fermerete mai!
Il #14N c’eravamo tutti! La libertà non si misura!
Cesko, Luca, Luca, Giorgio, Fede… liberi! Liberi tutti!
Padova città aperta - Laboratorio per lo sciopero sociale
la Repubblica
29 01 2015
I tentacoli della 'Ndrangheta sono arrivati fino in Emilia. Una maxi operazione dei Carabinieri, denominata "Aemilia", condotta dalla Dda di Bologna ha portato a 117 richieste di custodia cautelare (110 portate a termine, 7 persone risultano irreperibili) e ad oltre 200 indagati, per la maggior parte in Emilia. Altri 46 provvedimenti sono stati emessi dalle procure di Catanzaro e Brescia. Sul campo sono stati impiegati un migliaio di militari con il supporto anche di elicotteri.
I provvedimenti di custodia riguardano soggetti ritenuti responsabili a vario titolo di associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, porto e detenzione illegali di armi da fuoco, intestazione fittizia di beni, riciclaggio, emissione di fatture false. Il clan al centro dell'inchiesta è quello dei Grande Aracri di Cutro (Crotone), di cui è documentata da tempo l'infiltrazione nel territorio emiliano, soprattutto nella zona di Brescello dove vivono esponenti di spicco della cosca calabrese. Alcuni dei reati hanno carattere transnazionale, interessano Austria, Germania, San Marino. Chiesto il sequestro di beni per 100 milioni di euro.
Una parte consistente dell'inchiesta riguarda gli appalti della ricostruzione post terremoto e alcuni imprenditori emiliani. In particolare la "Bianchini costruzioni Srl" di Modena è riuscita ad ottenere "numerosissimi appalti" del Comune di Finale Emilia in relazione - si legge nell'ordinanza - ai lavori conseguenti il sisma del maggio 2012 e altri in materia edile e di smaltimento rifiuti. Per questo Augusto Bianchini è finito in carcere, Alessandro Bianchini è invece ai domiciliari. Tra gli arrestati anche l'imprenditore Giuseppe Iaquinta, padre dell'ex calciatore della Juventus e campione del mondo Vincenzo Iaquinta.
E ancora una volta alcuni alcuni indagati, si legge nell'ordinanza del Gip, ridono dopo il terremoto che ha colpito l'Emilia nel 2012 proprio come era accaduto nel 2009 all'Aquila. Le risate sono in un dialogo citato nell'ordinanza del Gip tra due indagati, Gaetano Blasco e Antonio Valerio: "E' caduto un capannone a Mirandola", dice il primo. "Valerio ridendo risponde: eh, allora lavoriamo là.. Blasco: 'ah sì, cominciamo facciamo il giro...'", si legge.
"Un intervento che non esito a definire storico, senza precedenti. Imponente e decisivo per il contrasto giudiziario alla mafia al nord", ha commentato il Procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti in conferenza stampa. Poi ha aggiunto: "Non ricordo a memoria un intervento di questo tipo per il contrasto a un'organizzazione criminale forte e monolitica e profondamente infiltrata". L'inchiesta, in corso da diversi anni, aveva portato gli inquirenti a sentire come persona informata dei fatti anche l'ex sindaco di Reggio Emilia e attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio e altri politici locali. Lo stesso Delrio, in un tweet, ha manifestato il suo plauso per l'inchiesta bolognese: "Inchieste Dda Bologna fondamentali per rendere più forti e libere le nostre comunità #Aemilia".
Anche la politica locale è coinvolta nell'inchiesta. Gli inquirenti hanno documentato attività di supporto e tentativi di influenzare elezioni amministrative da parte degli affiliati al gruppo criminale in vari comuni dell'Emilia. Lo ha spiegato il procuratore Roberto Alfonso citando i casi di Parma nel 2002, Salsomaggiore nel 2005, Sala Baganza nel 2011, Brescello nel 2009.
Tra le persone colpite dai provvedimenti di custodia, il consigliere comunale di Reggio Emilia Giuseppe Pagliani, di Forza Italia. I carabinieri lo hanno prelevato dalla sua abitazione di Arceto di Scandiano, vicino a Reggio Emilia.
Tra gli indagati ci sono il sindaco di Mantova Nicola Sodano, che sarebbe accusato di favoreggiamento per una vicenda legata a un appalto in cui è coinvolto un imprenditore arrestato, e Giovanni Paolo Bernini, ex presidente del Consiglio comunale di Parma, allora appartenente a Forza Italia. Per lui la procura aveva chiesto l'arresto, ma il Gip non l'ha concesso. L'accusa a suo carico è di "aver contribuito pur senza farne parte al rafforzamento e alla realizzazione degli scopi dell'associazione mafiosa", perché "richiedeva e otteneva dagli associati voti a suo favore in relazione alla campagna elettorale 2007 per l'elezione del sindaco e del consiglio comunale di Parma".
Agli arresti anche Nicolino Sarcone considerato anche da indagini precedenti il reggente della cosca su Reggio Emilia. Sarcone, già condannato in primo grado per associazione mafiosa, è stato recentemente destinatario di una misura di prevenzione patrimoniale che gli aveva bloccato beni per cinque milioni di euro. Dalle carte dell'inchiesta emergerebbe anche il sostegno elettorale imposto dai Grande Aracri ad alcuni candidati emiliani durante le amministrative.
L'indagine è condotta dalla procura distrettuale antimafia di Bologna che ha ottenuto dal gip del Tribunale le 117 richieste custodie cautelari in Emilia, ma anche Lombardia, Piemonte, Veneto, Sicilia. Contestualmente si sono mosse le procure di Catanzaro e Brescia che hanno emesso 46 provvedimenti.
Nella lista dei nomi colpiti dalle ordinanza di custodia sono finiti anche Ernesto e Domenico Grande Aracri, i fratelli del boss già detenuto Nicolino Grande Aracri, detto "Mano di gomma". Domenico è un avvocato penalista, il suo arresto è stato disposto dalla Dda di Bologna, mentre per Ernesto si è mossa la Dda di Catanzaro. Il centro di questa organizzazione è Cutro, piccola cittadina del crotonese: Nicolino Grande Aracri aveva intenzione di costituire una grande provincia in autonomia. La cosca di Cutro sarebbe riuscita, grazie all'avvocato del foro di Roma Benedetto Giovanni Stranieri (sottoposto a fermo per concorso esterno in associazione mafiosa), anche ad avvicinare un giudice di Cassazione e a fare annullare con rinvio una sentenza di condanna a carico del genero del boss.
"Grande Aracri - ha spiegato il procuratore di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo - si atteggia a capo di una struttura al di sopra dei singoli locali. E' sostanzialmente il punto di riferimento anche delle cosche calabresi saldamente insediate in Emilia Romagna dove c'era una cellula dotata di autonomia operativa nei reati fine. I collegamenti tra Emilia Romagna e Calabria erano comunque continui e costanti e non si faceva niente senza che Grande Aracri lo sapesse e desse il consenso".
Intanto emergono dettagli sui tentativi di intimidazione che il clan aveva messo in atto nell'area emiliana. Non solo su imprenditori e istituzioni, ma anche su giornalisti, come nel caso di Sabrina Pignedoli, corrispondente ANSA da Reggio Emilia e cronista del Resto del Carlino. Tentativo però respinto dalla cronista. Un altro giornalista è finito agli arresti: si tratta di Marco Gibertini, cronista di TeleReggio, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa poichè, secondo l'accusa, avrebbe dato una mano agli affiliati della cosca emiliana facendoli andare in Tv e sui giornali. In manette anche sei "talpe", che informavano i Grande Aracri. Si tratta di tre ex carabinieri in congedo e tre poliziotti.
Fabio Tonacci e Francesco Viviano
Abbatto i muri
21 01 2015
La strage alla sede di Charlie Hebdo a Parigi ha suscitato moltissimo sdegno in tutto il mondo. Le reazioni, le risposte e le analisi successive alla divulgazione della notizia sono state tra loro molto diverse. L’hashtag #jesuisCharlie (io sono Charlie) ha colpito i social network come un’epidemia sconfinando in strumentalizzazioni anti-islamiche di estrema destra e in usi assolutamente impropri. Nel giro di poche ore, tutto il mondo si è riscoperto paladino e difensore della libertà di espressione e di stampa. Come al solito, purtroppo, la solidarietà sincera di coloro che si sono sforzati di comprendere questa vicenda senza volerne dare interpretazioni superficiali è stata contaminata da un’ipocrisia diffusa.
Come in molti di questi casi sono stati tralasciati alcuni distinguo importanti. Charlie Hebdo è un settimanale satirico irriverente ed irresponsabile i cui vignettisti e redattori si identificano nei valori dell’antirazzismo e antifascismo. Ecco perché non siamo tutti Charlie. Ed ecco perché #Emilioresisti non si diffonderà così viralmente sui social. Emilio è il compagno che sta rischiando la vita a causa delle sprangate che gli sono state inferte durante l’assalto al csa Dordoni di Cremona. Alcuni di coloro che si sono dichiarati difensori della libertà di espressione non si sono sentiti altrettanto coinvolti nella difesa degli spazi collettivi e autogestiti.
Assurdo o rivelatore. Rivelatore dell’ipocrisia di quanti sono saliti sul carro del #jesuisCharlie solo per farne un simbolo del delirio fondamentalista come nemico esterno dell’Occidente. Perché, in realtà, nessuno dei capi di stato che hanno sfilato in parata a Parigi ha veramente a cuore la libertà. Essi sono scesi in strada per difendere l’ordine precostituito, lo status quo, il sistema. Per ognuno di loro il fascismo che prende d’assalto gli spazi autogestiti ed autorganizzati non rappresenta una minaccia. Addirittura c’è chi è capace di negare i presupposti ideologici di episodi come quello di Cremona, riconducendoli a sporadiche follie. In realtà i militanti dei covi neri che prendono a sprangate, 50 contro 10, i compagni del Dordoni sono una funzione del sistema capitalista.
È un ingranaggio del meccanismo di sradicamento di qualsiasi opposizione. E per questo, viene non soltanto combattuto, ma protetto, difeso, spalleggiato. Per questo, pochi tra coloro che sono stati Charlie saranno anche Emilio. Ma proprio per questo, molti o forse tutti gli antifascisti che sabato 24 scenderanno al corteo nazionale antifascista chiamato dal Dordoni per la chiusura immediata di tutte le sedi fasciste in Italia, sapranno di essere stati autenticamente Charlie davanti ad un altro tipo di oppressione.
Contro ogni fascismo: ora e sempre Resistenza.
#Emilioresisti
di Irina