Minima et Moralia
16 01 2015
No, non siamo in guerra, non siamo in guerra con nessuno. Invece, dopo quanto successo a Parigi, sembra che tutti diano per scontato che l’esercito della libertà e della democrazia sia già schierato contro l’esercito del fondamentalismo sanguinario islamico. Siamo caduti in trappola. La parola guerra scappa di bocca a tutti, dal difensore più disciplinato dell’ordine occidentale all’opinionista più illuminato e aperto. Persino comici, vignettisti, attori, e chi con la libertà ci lavora, non rinuncia a evocare quella parola. La guerra è data per inevitabile e necessaria, “fermare la barbarie” è l’unica missione per le nuove generazioni chiamate a “conquistare la pace”.
La circolare inviata dall’assessore all’istruzione della regione Veneto, Elena Donazzan, ai presidi delle scuole in cui si chiede ai musulmani di condannare i fatti di Parigi e di aderire ai valori occidentali, rivela il clima in cui siamo precipitati. Tutti gli stranieri sono potenziali nemici, devono dimostrare di non esserlo. In spregio a qualsiasi principio liberale.
Come editore che da diversi anni si batte contro le verità del potere e come tutti coloro che hanno a cuore la parola e il pensiero, credo che bisogna spezzare questo discorso sulla “guerra necessaria” in nome della libertà. Un contro senso che poggia sull’idea che solo noi siamo i buoni e che gli altri, loro, sono i cattivi, dimenticando tutti gli orrori e i morti che abbiamo provocato. Se non riusciamo a sradicare questo pregiudizio andremo incontro a nuove tragedie. Il compito di noi editori che operiamo nel settore dell’informazione è cercare di smascherare tutte le falsità che ogni guerra comporta (ricordate i finti arsenali di Saddam?) e difendere a ogni costo la nostra libertà di critica, sempre, soprattutto quando, in nome della sicurezza, lo Stato, attraverso la polizia, aumenta il suo potere repressivo, come accade dopo ogni evento terroristico.
Quanto accaduto a Parigi è un episodio e come tale va valutato, un episodio che poteva essere previsto, e che si somma ad altri episodi avvenuti in varie parti del mondo sempre a opera di integralisti islamici contro islamici non integralisti. Non è una guerra. Non facciamoci vincere dall’isteria. Anche gli islamici sono vittime dei fondamentalisti, aiutiamoli, stiamogli vicino, non alimentiamo noi stessi il loro odio nei nostri confronti. Il bambino che sta per lanciare la bomba contro gli americani a Falluja, ritratto nel film American sniper di Clint Eastwood, nella vita reale potrebbe diventare un terrorista pronto a uccidere in nome di Allah.
Se seguiamo la strada della guerra ovunque nel mondo, aiuteremo solo i fabbricatori di armi, l’equilibrio fondato sul terrore e la paura, che porta a più repressione, all’innalzamento di nuove barriere e a minori libertà. Il dissenso è difficile da gestire, per il partito unico del capitale qualsiasi occasione è buona per limitarlo. Già si parla di ristabilire le frontiere in Europa, Le Pen propone la pena di morte in Francia, Salvini approfitta per criminalizzare tutti gli islamici in Italia. Il partito della paura è il più forte di tutti, nessuno rinuncia ad arruolarvisi. Chi rimane fuori rimane solo. Bersaglio facile come Charlie Hebdo.
“Il successo del terrorismo dipende dalle conseguenze che innesca” scrive Simon Jenkins su “The Guardian”. I terroristi non vogliono altro che questo: che diventiamo come loro. Che vinca la violenza e l’odio, in nome della libertà. Un paradosso atroce.
D’altra parte siamo campioni nel proclamare la libertà e negarla appena c’è qualcuno che la usa contro di noi. Non è un caso che la satira in Italia non esista quasi più. In casa nostra non c’è bisogno di fondamentalisti, la libertà ce la togliamo da soli.
Lorenzo Fazio
Il Fatto Quotidiano
15 01 2015
Quando l’emergenza diventa il principio alla base dell’azione politica, gli stessi concetti di democrazia e libertà finiscono per ridursi a variabili dipendenti dalla più generica idea di “sicurezza”, termine quest’ultimo privo di contorni, e per questa ragione aperto al più ampio e spregiudicato utilizzo a fini politici.
Prendiamo le richieste francese e spagnola di sospendere gli accordi di Schengen per incrementare la sicurezza negli spostamenti interni all’Unione Europea: a prescindere dalla dubbia correlazione tra la libera circolazione Ue ed il rischio di nuovi attentati (quello a Charlie Hebdo, come sappiamo, è maturato in un contesto interno) la proposta è dinamite per uno dei pilastri fondamentali dell’integrazione europea: finiremmo, infatti, per ritrovarci “uniti da 28 barriere”, con merci e capitali che corrono mentre la gente resta in fila per mostrare il passaporto. Sarebbe come mettere indietro le lancette di un ventennio, riproponendo un modello di stato ormai superato dalla storia mentre gli europei, tutti noi, abbiamo costruito questa unione nonostante la politica e la ricerca di facile consenso da parte dei politici.
L’Europa di oggi non può essere solo una finzione giuridica che consente alle aziende di delocalizzare le proprie sedi laddove dove la manodopera costa poco e la tassazione per le imprese è favorevole: non può essere insomma un’Europa solo a misura di Marchionne o di Ryanair mentre ai cittadini del Continente si vorrebbero imporre limiti, quote e restrizioni. D’altronde Schengen è dalla sua istituzione un regolamento molto discusso e la Francia non ne ha mai accettato l’implementazione con grande entusiasmo: nel ’95, scriveva il New York Times, il ministro dell’interno d’Oltralpe nell’annunciare un rinvio sine die dell’accordo di libera circolazione, spiegava “Quando parliamo di Europa delle libertà, dobbiamo parlare anche di Europa della sicurezza”.
Allora la Francia era convalescente da un sanguinoso attentato alla Metro di Parigi, che costò la vita ad 8 persone. Non si tratta però di un caso isolato: negli ultimi 20 anni, gli accordi di Schengen, sono diventati un po’ il simbolo dell’integrazione europea e per questa ragione, il bersaglio preferito della platea euroscettica: dalle continue richieste spagnole ai piani (rimasti poi tali) del penultimo governo danese in carica, riappropriarsi della “sovranità”, dicono, passerebbe per la necessaria reintroduzione dei controlli di frontiera.
Le motivazioni sono, nel migliore dei casi, contingenze utilizzate come pretesto per abbandonare l’accordo di libera circolazione: d’altronde la possibilità di una reintroduzione temporanea dei controlli per ragioni di sicurezza è già consentita ma ad alcuni Paesi, tra tutti la Francia, la richiesta di riscrivere le regole in senso restrittivo è stata negli anni tanto asfissiante e ripetuta da far ragionevolmente credere che in molti stiano lavorando alla ricerca di una maggioranza a Bruxelles che consenta di superare l’attuale schema continentale senza frontiere interne.
Terrorismo, immigrazione, traffico d’armi e addirittura i coffeeshop olandesi: ad ogni emergenza i francesi ripartono alla carica con la necessità di cestinare Schengen; con l’ondata di emozione e solidarietà mondiale per la tragedia della scorsa settimana, non è detto l’operazione a questo giro non riesca.
Eppure il problema risiede nella scarsa collaborazione transnazionale tra gli Stati membri, nella riluttanza a progetti comuni solidi e duraturi tra intelligence e forze dell’ordine ed in una strana idea di Europa, dove una conquista di civiltà come la libera circolazione finisce per diventare un fardello di cui sbarazzarsi. A questo punto, difendere i principi del trattato di Schengen, non è più solo un affare interno dei cittadini francesi ma un dovere morale di tutti gli europei.
Massimiliano Sfregola