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Il gender è un dito nell'orecchio

genderMa che cos'è, esattamente, la "teoria Gender" evocata con crescente inquietudine dai difensori della famiglia tradizionale? [...] Il dottor Gender è molto stupito di tanto baccano. "Non è vero che mi accoppio con il mio labrador", spiega.
Michele Serra, l'Espresso ...
Il modulo, nuovo di zecca, è pronto sulla tavola, compilato e firmato. Questa mattina Elisa Dal Molin lo consegnerà orgogliosamente, insieme alla sua compagna, alle maestre della scuola comunale.
Valentina Santarpia, Corriere della Sera ...

Cronache estive

InGenere
03 09 2015

Il corpo delle donne, il diritto, la libertà: non sono mancati in questa estate che sta finendo dibattiti e interrogativiintorno a questi temi sempre risorgenti, che animano fazioni opposte nell’opinione pubblicae dividonoil femminismo. Voglio considerare tre casi che hanno fatto discutere: innanzitutto la risoluzione di Amnesty International per la decriminalizzazione della prostituzione, che ha visto insorgere contro la più importante Ong per i diritti umani un ampio cartello di associazioni femministe e star hollywoodiane. Poi c’è la vicenda dei libri per l’infanzia sul “gender” vietati dal sindaco di Venezia, su cui è intervenuto anche il cantante Elton John attaccando Brugnaro e difendendo il racconto di “famiglie omosessuali che vivono felici e contente”, rianimando così qualche discussione sulla maternità surrogata che permette alla coppia Furnish-John di essere genitori di due figli (ne scrive, per esempio, Letizia Paolozzi). Infine, il caso di Martina Levato, l’“acidificatrice” condannata a 14 anni per aver sfigurato due ex fidanzati insieme al compagno Alexander Boettcher, che a Ferragosto ha partorito un bambino per il quale il Tribunale dei Minori di Milano ha avviato la procedura per adottabilità.

Riflettere in parallelo su casi così diversi può forse aiutare a orientarsi nella materia complessa racchiusa in tante questioni che interrogano l’autodeterminazione delle donne in ambito sessuale e riproduttivo. Credo che un punto essenziale sia decidere di chi vogliamo assumere lo sguardo, ascoltare la voce, provare a leggere i bisogni. Parto perciò da un assunto che riguarda un altro ordine di scelte, ma che ha il pregio di mettere d’accordo tutte le diverse anime del femminismo, ovvero quello che anima le battaglie per l’autodeterminazione in tema di aborto, e che suona più o meno così: “la prima parola e l’ultima sul proprio corpo spetta a ogni donna”.

Prendiamo il caso di Amnesty International. Come ha dichiarato l’Ong, la proposta di policy sulla prostituzione approvata l’11 agosto si basa sue due anni di consultazioni con un ampio numero di organizzazioni e singoli, tra cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità, UnAids, Anti-Slavery International, la Global AllianceAgainstTrafficking in Women, e poi gruppi di sex worker e di “sopravvissute”, associazioni femministe, LGBT e antitratta. L’obiettivo è “garantire una maggiore protezione dei diritti umani delle sex worker – che sono spesso tra le donne più marginalizzate nella società” attraverso la decriminalizzazione universale della loro attività e di quelle attività connesse che, quando criminalizzate, finiscono per ripercuotersi sulla loro condizione di precarietà ed esclusione. La decriminalizzazione, sostiene l’organizzazione per i diritti umani (d’accordo con numerosi esperti ed esperte), può garantire anche migliori condizioni per l’emersione delle situazioni di tratta e sfruttamento, al contrario della criminalizzazione che spinge verso l’invisibilità.

La campagna ostile guidata dalla CoalitionAgainstTrafficking in Women – e sottoscritta da star come Meryl Streep, Kate Winslet, Anne Hathaway, Lena Dunham – ha invece accusato Amnesty International di voler proteggere i diritti di clienti e sfruttatori. Eppure se assumiamo il punto di vista di chi si prostituisce, e non quello di clienti o sfruttatori, l’accusa di voler favorire questi ultimi svanisce sullo sfondo. Il problema è qui nella definizione dell’oggetto, un dilemma antico: la prostituzione è un lavoro da riconoscere o una violenza da eliminare? Non nego che considerarla un lavoro come un altro faccia nascere alcuni dilemmi importanti. Ma se è una violenza, come sostiene l’abolizionismo di stampo svedese, cosa ne facciamo di tutte e tutti coloro che affermano di esercitarla per scelta, magari sotto il condizionamento della necessità economica e della mancanza di opportunità alternative, come però – è il caso di ricordarlo – accade per molte altre attività? Esiste un altro caso in cui le protagoniste di una lotta per i diritti siano sconfessate in quanto portatrici di domande di riconoscimento, e non da chi le vorrebbe sottomesse e mute alla legge del più forte, ma da chi le ritiene bisognose di salvezza, anche contro la propria volontà?

Vengo quindi al secondo tema, quello della maternità surrogata, o gestazione per altri, meno discusso in questa estate ma già oggetto di grande dibattito nei mesi passati (si veda il caso suscitato dalle dichiarazioni di Dolce e Gabbana), e inoltre senza dubbio affine al precedente, perché riguarda l’uso del proprio corpo a fini non sessuali ma procreativi, in cambio di denaro. Se la prostituzione si presta a interpretazioni molto differenti del ruolo femminile – da quella incentrata sull’espropriazione del piacere e sulla subordinazione al diritto maschile, a quella che vede nella negoziazione economica del sesso una forma di resistenza a questo stesso diritto – la gestazione per altri pare gravata (almeno in Italia) da uno stigma molto pesante: la donna nuovamente ridotta a strumento di desideri altrui e a macchina riproduttiva. Il tema è complesso, ma se non ci si capisce su questa questione della procreazione persino un ddl fiacco come quello sulle unioni civili fermo in Parlamento rischia di trovare opposizioni insormontabili anche da parte di un’opinione pubblica sensibile al tema dei diritti (dove si sente dire: la stepchildadoption non nasconderà un incoraggiamento verso il ricorso alla maternità surrogata?).

Ciò che mi pare si perda di vista nella condanna senza appello di questa pratica e di chi vi fa ricorso è – come nel caso delle campagne contro la prostituzione – la soggettività delle donne coinvolte. Le quali lungi dal sentirsi universalmente soggette a una violenza culturale, e fisica, o espropriate del frutto del proprio ventre, non raramente riportano un’esperienza consapevole e serena. Si veda il racconto del rapporto con la madre portatrice che fa il giornalista Claudio Rossi Marcelli nel suo libro Hallo Daddy! (Mondadori) oppure le storie raccolte da Serena Marchi in Madri, comunque (Fandango).

Ma anche in quest’ambito i problemi etici, politici, nonché giuridici, sono tutt’altro che assenti. La maternità può essere un lavoro? Un lavoro come un altro? Il tema pare riguardare quasi esclusivamente la gestazione, perché la cura del bambino affidata a figure stipendiate solleva assai meno obiezioni. Dove porre dunque il limite del commerciabile? Come garantire la piena disponibilità del proprio corpo da parte di una donna, e insieme prevenire forme di sofferenza o abuso? Perché bandendo il denaro si presume di poter eliminare una fonte di oggettivazione, quando per qualunque altra prestazione, anche corporale (escluse la gestazione e il sesso, incluse invece le prestazioni domestiche e di cura), il pagamento in denaro appare come un veicolo di riconoscimento? Il punto è complicato, e richiede per essere sciolto niente meno che una riflessione sul rapporto tra corpo, persona, lavoro e denaro. E sulla relazione tra sessualità, riproduzione, norma e legge.

Eccoci quindi al terzo caso, in cui a una donna, condannata a 14 anni di carcere, viene tolto il figlio appena nato. Parrebbe un rovesciamento del caso precedente: se la genitorialità è un diritto che –in presenza di altri soggetti consenzienti – può realizzarsi anche nella maternità surrogata, come negare quel diritto a una donna che ha già messo al mondo il proprio figlio e ha intenzione di riconoscerlo, anche se le perizie psichiatriche indicano la sua incapacità di prendersene cura? In realtà il nodo è qui differente. Se accettiamo di definire la genitorialità come un fatto non solo biologico ma anche sociale, quindi non solo attraverso il desiderio della nascita ma anche della cura, ci accorgiamo che il semplice fatto della procreazione perde la predominanza discorsiva che porta a beatificare il ruolo materno, mentre al tempo stesso le famiglie adottive, ricostruite, monogenitoriali, omogenitoriali, assumono piena dignità quali luoghi possibili di investimento affettivo ed educativo. Difficile avere dubbi sul fatto che il figlio di Martina Levato e Alexander Boettchertroverebbe in una famiglia adottiva un luogo assai più adeguato a una crescita sana.

Tuttavia, anche qui ci sono questioni nient’affatto semplici da affrontare, che mettono in tensione corpo, desidero, diritto. A chi spetta la prima parola?A chi l’ultima? Il principio da cui sono partita, quello della “prima e ultima parola”, non può più avere validità assoluta quando i corpi da uno si fanno due. Ma può il sapere psicologico, medico o giuridico sostituirsi interamente al volere della donna? Non esiste lo spazio per una mediazione tra il sapere/potere dello Stato e il desiderio di una madre, uno spazio da aprire ben prima del parto, prima che il superiore interesse del bambino diventi oggetto della burocrazia e un paese intero si senta chiamato ad accusare o difendere la “cattiva madre”?

Giorgia Serughetti

Le unioni civili tra persone dello stesso sesso sono diventate "formazioni sociali specifiche", un termine grottesco e irritante.
Beppe Severgnini, Corriere della Sera ...

LGBT in Turchia, un ritratto sfaccettato

  • Lunedì, 31 Agosto 2015 11:48 ,
  • Pubblicato in Flash news

Osservatorio Balcani e Caucaso
31 08 2015

La più approfondita ricerca mai effettuata in Turchia sull'universo LGBT mette a fuoco problemi, difficoltà ma anche spunti per una maggiore libertà di scelta e inclusione sociale. Un'intervista

“Problemi sociali ed economici delle persone LGBT in Turchia”, la ricerca realizzata dai ricercatori Volkan Yılmaz e İpek Göçmen (Università del Bosforo, Centro di Politiche sociali) con l’assistenza di Cansu Atlay - pubblicata ad inizio 2015 - è considerata la più ampia realizzata sul tema nel paese. Il lavoro è frutto di interviste realizzate con la tecnica del focus group in dieci città, con la partecipazione di 200 soggetti per volta e di un questionario cui hanno partecipato 2.875 persone in tutta la Turchia. La ricerca indaga su 11 temi che vanno dal lavoro alla salute, dalla giustizia alla famiglia, dall’istruzione alla partecipazione sociale.

Abbiamo intervistato uno degli autori, Volkan Yılmaz, ricercatore e docente del Centro di studi sulla società civile presso l'Università Bilgi di Istanbul, che è anche direttore dell’Associazione per gli studi sull’identità di genere e orientamento sessuale (Spod - Cinsiyet Kimliği ve Cinsel Yönelim Çalışmaları Derneği) di Istanbul.

In che modo le persone che avete intervistato hanno deciso di farsi coinvolgere nella ricerca? Come siete riusciti a raggiungerle? E in base a cosa avete scelto le città dove avete condotto le interviste basate sulla tecnica del focus group?

La ricerca è stata condotta sul campo da gennaio a giugno 2014 nelle città di Ankara, Adana, Antalya, Edirne, Eskişehir, Gaziantep, İstanbul, İzmir, Mersin e Trabzon. Queste città sono state scelte perché durante il periodo della ricerca dimostravano di avere delle organizzazioni attive sui diritti LGBT (Lesbiche, gay, bisessuali e trans). I partecipanti dei focus group li abbiamo raggiunti tramite associazioni, iniziative LGBT e/o gruppi di studenti universitari. Il sondaggio online, invece, è stato realizzato diffondendo la voce tramite siti e applicazioni d’incontri, primo fra tutti il sito http://www.gabile.com/, come tramite tutte le organizzazioni LGBT presenti in Turchia e i partecipanti ai focus group.

In un’intervista lei ha affermato che in Turchia non è possibile realizzare un'indagine rappresentativa a livello nazionale perché, a causa della pressione sociale, le persone LGBT non riescono ad esprimere liberamente la propria identità sessuale. Quali sono, in base al risultato della ricerca, le condizioni necessarie perché questo possa avvenire?
Ritengo che per consentire alle persone LGBT di esprimere liberamente la loro identità ci debbano essere degli spazi pubblici dove si sentano al sicuro. Penso anche che sia in Turchia che in diversi altri paesi, Internet abbia svolto un ruolo importante in questo senso. Ma non è accettabile che la vita sociale sia ridotta alla rete. Il 57,9% delle persone che hanno partecipato alla nostra ricerca (1631 individui) ha affermato di dover fare almeno una mezz’ora di viaggio per raggiungere un locale (una caffetteria, un ristorante, un’associazione, un centro giovanile, l’ufficio di un partito politico e altri ancora) dove possono essere al sicuro senza essere costretti a nascondere la propria identità sessuale o il proprio orientamento. Penso che questo risultato sia indice di un serio impedimento alla socializzazione per le persone LGBT e credo che formare degli spazi pubblici sicuri per gli LGBT – ma non solo – possa aprire una finestra affinché possano esprimere liberamente la loro identità.

Il 50% delle persone intervistate risulta tra i 18 e i 25 anni, mentre solo il 12,9% rientra nella fascia d’età tra i 36 e i 45 anni. Secondo lei è possibile affermare che esprimere il proprio orientamento sessuale è più facile per gli LGBT più giovani rispetto a generazioni più anziane?

Non bisogna sottovalutare le difficoltà riscontrate dagli LGBT di nuova generazione nel venire allo scoperto. Ma ritengo anche che i giovani abbiano in mano una fonte importante, della quale le generazioni più adulte o anziane non disponevano. Si tratta, a mio avviso, del discorso sui diritti degli LGBT, divenuto una componente importante del discorso globale sui diritti umani. È un discorso creato da quelle persone che dalla fine degli anni ’60 a oggi esprimono la propria identità sessuale e che lottano per i diritti degli omosessuali e dei trans in diverse parti del mondo. Per la Turchia questa fase inizia con gli anni ’70. Le nuove generazioni degli LGBT sono più forti e fortunate perché sono nate in un periodo storico in cui hanno avuto accesso a questo discorso.

E' possibile collegare questa tendenza all’emergere, nell’ultimo decennio, di associazioni LGBT o di formazioni politiche come il Partito democratico dei popoli (HDP, filo curdo e di sinistra) che hanno inserito la questione dei diritti LGBT nell’agenda politica?
Sono convinto che la difesa dei diritti LGBT da parte dei partiti del movimento politico curdo, oggi rappresentato dall’HDP, come ormai anche da parte del Partito repubblicano del popolo (CHP), iniziata grazie all’insistente lotta degli attivisti per i diritti LGBT, abbia l’effetto di rendere più forti le generazioni più giovani. Come emerge dalla ricerca, ricordiamo che stiamo parlando di una categoria sociale che deve continuamente affrontare delle offese a scuola, all’università come nell’ambito lavorativo. La difesa dei loro diritti da parte dei rappresentanti di questi partiti politici restituisce loro - almeno in parte - la dignità sottratta.

In che misura i diversi tipi di associazioni riescono a rendere le persone LGBT più forti, e quali sono gli ostacoli incontrati dagli LGBT quando vogliono associarsi?
Gli LGBT, a differenza ad esempio delle minoranze etniche, sono una minoranza anche nella famiglia biologica in cui si trovano. Senza arrivare alle associazioni, io penso che se due transessuali, oppure un/una omosessuale e una trans stessero l’uno/a accanto all’altra senza temere di dover nascondere la propria identità, questo già basterebbe a renderli più forti. Ritengo che sortisca lo stesso effetto anche far parte di associazioni, di organizzazioni o di gruppi universitari oppure solamente di gruppi di amici composti anche da persone LGBT. Per quanto invece riguarda gli ostacoli riscontrati dalle associazioni, bisogna dire che si tratta di un tema ampio che richiede un’indagine a parte. Ma dovendo riassumere la questione, posso affermare che in un paese dove gli LGBT non vengono riconosciuti quali cittadini equi e ogni tipo di discriminazione contro gli LGBT resta impunito, il più grande ostacolo alla formazione di organizzazioni LGBT è questa situazione giuridica non equa e l’impunità nei confronti degli atti discriminatori.
Solo il 22% delle persone che hanno preso parte alla ricerca afferma di non aver ricevuto reazioni negative in famiglia per aver dichiarato il proprio orientamento sessuale. Se il supporto delle famiglie ai figli LGBT fosse più diffuso, questo potrebbe portare ad un cambiamento dell’approccio della società turca?

Anche in molti paesi dove i diritti degli LGBT sono riconosciuti queste persone ricevono reazioni negative dalle loro famiglie quando dichiarano il proprio orientamento sessuale. Io credo che questo gruppo del 22%, emerso dalla nostra ricerca, possa svolgere una funzione di trasformazione essenziale nel processo di riconoscimento di diritti paritari per le persone LGBT. In verità lo fanno già. Il vecchio Gruppo di Istanbul per le famiglie LGBT (LISTAG) ora è diventato l’“Associazione delle famiglie e degli amici di persone LGBTİ (Lesbiche, gay, bisex, trans, e intersex)”. Ricorderete la LISTAG dal documentario “Il mio bambino” che ha suscitato un’ampia eco, demolendo i pregiudizi di molti. Quello che abbiamo rilevato nella nostra ricerca è che l’associazione LISTAG non è un’eccezione, è una formazione che in Turchia trova una corrispondenza a livello sociale e potrebbe diventare più grande. Il supporto delle famiglie ai loro figli e la trasformazione sociale e pubblica rappresentano due dinamiche di una trasformazione integrale. Sono entrambi necessari e realistici.

Un dato importante che emerge dalla ricerca è che il 62% degli intervistati (il cui 80% è rappresentato da persone al di sotto dei 35 anni) non si sente tutelato per la vecchiaia, mentre il 51,8% pensa che non riceverà cure adeguate quando diventerà anziano. Come vanno interpretati questi dati?

Sono insicurezze e timori fondati, purtroppo. In Turchia la cura degli anziani viene per la maggior parte considerata non come un servizio pubblico, bensì un dono da tramandare da generazione in generazione da gestire all’interno delle famiglie biologiche. Se si considera che quando gli LGBT vengono allo scoperto hanno in genere problemi con la famiglia biologica, che non esiste il diritto al matrimonio tra LGBT, che le trans vengono costrette ad esercitare un mestiere altamente logorante come la prostituzione e la cura degli anziani non è considerato un servizio pubblico, le persone tendono naturalmente a preoccuparsi per la loro vecchiaia.

Le associazioni per i diritti LGBT sanno già che le persone LGBT anziane hanno problemi di questo tipo, anche oggi. Queste difficoltà potrebbero estendersi a fasce più ampie, proprio perché sta aumentando la percentuale degli LGBT che dichiarano e vivono apertamente la loro identità. Per questo motivo, è necessario che la creazione di un percorso dignitoso verso l’anzianità, che tenga conto di tutte le categorie sociali venga inserita nell’agenda della politica in Turchia.

La ricerca mette in evidenza che le trans, per il fatto di esplicitare il proprio orientamento sessuale più degli altri membri LGBT subiscono anche un numero più alto di pressioni e violenze. Quali sono le prime cose da mettere in atto per prevenire questa situazione?

La ricerca evidenzia che le trans sono maggiormente discriminate in quasi tutti gli ambiti presi in esame. Però va anche ricordato che le trans costituiscono la percentuale maggiore degli LGBT che presentano denunce in merito alle discriminazioni subite. Ossia, le trans sono quelle più discriminate, ma anche quelle che percorrono più spesso le vie legali. Una prima cosa da fare per prevenire le violenze contro le trans è inserire la voce “identità sessuale” e l’espressione “genere” (gender) nella definizione dei reati d’odio. È inoltre necessario che le pene siano effettive.

Quanto è difficile trovare finanziamenti per sviluppare politiche contro la discriminazione degli LGBT nella società turca? Quale può essere l’apporto delle ONG, piattaforme e istituzioni internazionali a riguardo?

Non esiste un ambito che riguardi i diritti umani o la lotta alla discriminazione per cui è facile trovare finanziamenti. Non credo che i finanziamenti provenienti alle associazioni per i diritti degli LGBT in Turchia sulla base di progetti siano insufficienti. L’approccio basato sui progetti, però, ha dei seri limiti. Mettiamo che vogliate avviare un centro per i giovani, ad esempio un centro rivolto ai giovani LGBT e ai loro genitori dove viene fornito un supporto psicologico a titolo gratuito. Non esiste niente di simile nemmeno a Istanbul, che è una metropoli mondiale. Non è possibile concepire un centro di questo tipo sulla base di un progetto annuale. Non si può formare il personale da impiegare nel centro in pochi mesi.

È necessario iniziare a pensare a lungo raggio e, di conseguenza, serve che le istituzioni che finanziano la lotta alla discriminazione e per i diritti umani, le ONG come la nostra e gli amministratori pubblici del paese si impegnino in questo senso. I problemi che cerchiamo di affrontare non sono risolvibili con progetti a breve termine focalizzati su ambiti diversi, che necessitano di personale in continuo mutamento.

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