Roberto Bertoni, Articolo 21
24 Novembre 2019
A dieci anni di distanza, non è semplice prendersi cura della memoria di Lea Garofalo, la coraggiosa donna calabrese rea, agli occhi dei suoi assassini, di essere diventata una collaboratrice di giustizia, ribellandosi alla ‘ndrangheta e alle sue spregevoli logiche di potere e di controllo.
D - la Repubblica delle donne
06 02 2015
Festeggiano il primo omicidio, odiano i poliziotti e si occupano degli affari di famiglia. Sono i figli della 'ndrangheta. Un nuovo libro li racconta. Ecco l'intervista all'autrice
DI ILARIA LONIGRO
Bambini d'onore Ci sono bambini che quando pensano a buoni e cattivi mettono la divisa ai secondi. Sono i figli della mafia, quelli a cui i poliziotti hanno rubato un fratello. Ragazzini che devono vendicare un padre ammazzato e mandare avanti gli affari. Un esercito che continua a crescere: i minori italiani denunciati per associazione mafiosa tra il 2004 e il 2006 erano 117, quelli arrestati 66 (fonte Commissione antimafia). La direzione centrale di polizia criminale parla di 247 minori denunciati per estorsione solo nel 2007.
A fare luce sul fenomeno arriva un saggio tutto calabrese, “Bambini a metà - I figli della 'ndrangheta” (237 pp., Perrone ed.) di Angela Iantosca, con prefazione di Enzo Ciconte, da fine gennaio nelle librerie. La giornalista, classe '78, torna sull'argomento dopo “Onora la madre – storie di 'ndrangheta al femminile” (Rubbettino ed.).
Ha esploso il primo colpo a 10 anni e a 12 ha imparato come si uccide Luigi Bonaventura, da 7 anni collaboratore di giustizia. Che nel libro racconta: "Devi sparare per prima cosa sul petto perché è la parte dove hai più sagoma". E confessa come si sentiva da piccolo. "Come uno che nasce in un altro Stato. Per me la normalità era la nostra. Gli altri erano i nemici da combattere, come i poliziotti. Cresci convinto di essere il paladino del popolo, di essere contro gli abusi".
Bonaventura ha scelto di passare dall'altra parte. Ma, come denuncia da anni, lui, la moglie e i bambini non sono protetti a sufficienza. L'affidabilità dello Stato è ciò che spesso manca, soprattutto agli occhi dei bambini di mafia. La nuova frontiera la sta disegnando il Tribunale per i minori di Reggio Calabria, che col protocollo Liberi di Scegliere in appena due anni ha permesso a 30 ragazzi di allontanarsi dal contesto mafioso e di sperimentare un'altra vita. Ma a scadenza: a 18 anni, se non possono mantenersi con un lavoro devono tornare a casa, dove la fedeltà sostituisce l'affetto e il dovere la legalità. Come racconta Angela Iantosca in quest'intervista.
Perché punti l'attenzione sui bambini cresciuti nelle famiglie della 'ndrangheta?
"Hanno un'importanza strategica nella lotta alle mafie: sono la manovalanza, le prime vittime e il futuro della criminalità. Per questo dobbiamo far in modo di sottrarli a quell’educazione, aprendo il loro sguardo verso qualcosa di diverso".
Bambini d'onorePerché li definisci "bambini a metà"?
"Non vivono l'infanzia. Vengono festeggiati per il primo omicidio. Vanno a trovare i parenti nei bunker ai quali si accede da uno sportello in cucina. A 14 anni sostituiscono il padre se è in galera, nascondono le armi, definiscono infame chi si avvicina a un poliziotto. Una professoressa di scuola media mi ha raccontato che alcuni alunni non andavano a scuola per fare le rapine e poi pretendevano di far risultare sui registri la loro presenza. Ci sono anche i bambini che la 'ndrangheta fa studiare e andare all’estero, per poi occupare i posti del potere, senza dimenticare le radici".
Con quali valori sono educati i figli della 'ndrangheta?
"Al silenzio, al non esprimere le proprie emozioni. All’essere sempre a disposizione e a onorare la madre, salvo poi ucciderla se non rispetta il codice. Al non rispetto delle istituzioni, dei gay, alla violenza, al pensare di essere superiori agli altri per il cognome che si porta. A considerare come parte normale della propria vita il carcere ed eventualmente la morte".
Hai incontrato alcuni di questi ragazzi. Vuoi parlarci di uno in particolare?
"Non posso non parlare di Libero, come lo chiamo, il ragazzo che per primo è stato inserito nel protocollo 'Liberi di Scegliere' del tribunale per i minori di Reggio Calabria. Ha un cognome importante. Fu assolto per un atto vandalico ma il presidente del tribunale pensò di inserirlo nel protocollo per evitare che si perdesse. Ha passato un anno in una comunità fuori dalla Calabria, incontrando vittime di mafia e osservando il mondo da un'altra prospettiva".
Lo Stato che alternative offre a quelli come lui?
"Il nodo cruciale è il lavoro: se manca alla fine del progetto, non c’è nessuna possibilità di riscatto. Anzi, si potrebbero innescare un senso di abbandono e una reazione di rabbia nei confronti dello Stato. Certo il momento di crisi economica non aiuta, ma ci sarebbero tante idee da sviluppare".