Corriere della Sera
04 09 2015
«Tra i mille interrogativi che mi pongo e ai quali non riesco a dare risposta, ritengo che sia un’assurdità, nel 2015, morire sul posto di lavoro per guadagnare a malapena 27 euro al giorno». Far luce su come ciò sia stato possibile è la richiesta che Stefano Arcuri, marito di Paola Clemente, bracciante agricola 49enne morta il 13 luglio scorso nelle campagne di Andria, pone al procuratore del tribunale di Trani. Ventisette euro al giorno che, per i sindacati, «sono circa la metà di quanto dovuto per il lavoro che stava facendo Paola - spiega Giuseppe Deleonardis, segretario Flai Cgil Puglia - perché per il cosiddetto acinino dell’uva la paga è 49 euro».
Su questa differenza si stanno interrogando in procura, a Trani, cercando anche di far luce sul gioco degli acconti e dei saldi contabilizzati in busta paga dalle agenzie interinali alle migliaia di braccianti che - in Puglia e non solo - lavorano come la sfortunata donna tarantina un’intera giornata nei campi per portare a casa poche decine di euro. Paola, come si legge nella sua busta paga, nello scorso mese di novembre ha visto contabilizzare a saldo appena 257,38 euro. Perché nella parte alta dello stesso cedolino sono evidenziate trattenute per acconto stipendi pari a 727 euro che portano il totale trattenute a 829 euro e il saldo finale a 257 euro dai 1.489 euro lordi. La busta paga di dieci mesi fa era a carico dell’agenzia per il lavoro Quanta. «Ma quando la signora Clemente è morta - specifica l’avvocato Vito Miccolis che assiste il marito di Paola - lavorava per Inforgroup: abbiamo fiducia che anche in tal caso la procura farà piena luce su eventuali meccanismi di acconti e saldi».
Per intanto vogliono vederci chiaro i sindacati: «Sollevammo il problema lo scorso 8 luglio - spiega Deleonardis - quindi prima ancora della morte di Paola, perché diversi lavoratori, una sessantina, vantano crediti di circa 500 euro che, pur presenti in busta paga, non sono mai stati corrisposti». E nei giorni scorsi, il primo settembre, la Flai Cgil ha dato l’ultimatum a Quanta: «Premesso che l’aspetto retributivo e relativi conguagli dei lavoratori assunti è in capo all’agenzia e non alle aziende utilizzatrici - si legge nella lettera inviata all’agenzia interinale con sede a Milano - che, come da voi comunicatoci, si erano assunte l’onere di conguagliare ai lavoratori il dovuto, non avendo i lavoratori a tutt’oggi ricevuto alcun rimborso, se entro 5 giorni non avremo notizie positive in merito, ci vedremo nostro malgrado costretti ad adire le vie legali e a segnalare le inadempienze alla Guardia di finanza».
Tra acconti e saldi, oneri in capo alle agenzie interinali o alle aziende utilizzatrici, il caporalato moderno sembra così nascondersi tra le pieghe di una somministrazione del lavoro apparentemente regolare. «Non solo apparentemente - spiega il vice presidente di Quanta Vincenzo Mattina - ma anche nella realtà. Se dobbiamo dare qualcosa ai lavoratori, la daremo, chiariremo tutto. Come abbiamo già fatto nel 2014 dopo le segnalazioni dell’ispettorato del lavoro: abbiamo chiesto all’Inps di normalizzare tutte le posizioni non regolari, in gran parte sottoinquadramenti dei lavoratori. Il ravvedimento, per la sola Puglia, ci è già costato 120 mila euro per la prima tranche e complessivamente ce ne costerà 400 mila». A dimostrazione che qualcosa, nelle campagne del Tavoliere, non quadra. «Sì - spiega ancora Mattina - e ne avemmo la percezione nel 2013, due anni dopo la nostra decisione di entrare nel settore agricolo, prevalentemente in Puglia ma anche in Sicilia e Lazio. Inviammo subito tre persone da Milano a Rutigliano e alla fine del nostro screening , due dipendenti, denunciati anche per concorrenza sleale perché avevano preso contati con altre agenzie, andarono a casa». Mai pensato che agissero da caporali? «Sì, il dubbio ci è sorto - conclude Mattina - in particolare che utilizzassero la cosiddetta “paga di piazza”».
Che non è il salario contrattuale (applicato in Puglia dal 20% delle aziende, secondo la Flai) ma la consuetudine che prevede il sottosalario per immigrati e donne, tanto più basso quanto più a Sud si va. La risposta alla domanda di Stefano - perché morire per 27 euro - è in questa amara verità.
Michelangelo Borrillo
LinKiesta
03 09 2015
Siamo a Pontinia, piccola cittadina di soli 15 mila abitanti, a metà strada tra Latina e Sabaudia. Qui si vive principalmente di agricoltura, grazie alla presenza di vasti terreni fertili e all’abbondante disponibilità di acqua. Due risorse preziose, che hanno reso l’area dell’Agro Pontino molto appetibile per le grandi cooperative e aziende dedite alla produzione di prodotti agricoli e alla vendita su larga scala. Qui vive anche K. Ha lasciato la regione del Punjab, nel nordovest dell’India, ormai diversi anni fa. «Nell’azienda del mio padrone – racconta – lavoro con altri due indiani. Lavoro tutti i giorni, anche la domenica».
I ritmi sono infernali: «Mi alzo la mattina alle sei e vado in campagna fino alle dodici. Poi ho un’ora di riposo per mangiare e riposare». Dopodiché si riprende, «dall’una fino alle sette di sera, specie in estate perché c’è più luce». Ma non è finita qui. Perché in tempo di raccolta bisogna preparare le cassette che poi, comodamente, viaggeranno oltre i confini per deliziare le famiglie francesi o tedesche. E allora, «alla sera, con altri indiani, andiamo a preparare tutto nei capannoni. Dalle otto di sera fino a mezzanotte. In estate è sempre così: tre turni, tutti i giorni. In tutto sono 15 ore, spesso anche 18». Per un guadagno, racconta ancora K., di mille euro. Però «il padrone non paga sempre. Spesso ci dice di aspettare, di avere pazienza, ma noi non possiamo lamentarci, dobbiamo continuare a lavorare altrimenti ci licenzia. Ma così non va bene: il nostro padrone ci riduce in schiavitù».
Già: padrone, schiavitù. Parole che si avvertono come lontane nell’Italia del XXI secolo. E invece, mentre nella bella Milano va in scena l’Expo che ha fatto proprio dell’agricoltura il suo vessillo lanciando la «sfida del futuro», nelle campagne italiane si sfrutta, si violenta, si ledono i più elementari diritti umani in nome, spesso, di quella stessa agricoltura. Un’agricoltura che non è solo sinonimo di criminalità organizzata ma anche di imprenditoria, solo apparentemente sana.
È quanto conferma a Linkiesta il sociologo Marco Omizzolo, vicepresidente dell’associazione InMigrazione, da anni impegnata sulla questione del caporalato: «Certamente c’è l’agromafioso che sfrutta il caporalato soprattutto per il riciclaggio di denaro sporco e per l’interramento dei rifiuti tossici. Ma poi nell’Agro Pontino c’è anche l’imprenditore che parla dialetto veneto il quale ha scoperto che, sfruttando i braccianti indiani, risparmia molti più soldi piuttosto che stare lì a rispettare le regole». Il confronto di Omizzolo è scioccante: «Il contratto provinciale del lavoro a Latina prevede per ogni bracciante il pagamento di 9 euro l’ora per 6 ore e 30 minuti. In media danno 2,50 euro l’ora per 14 ore. Vuol dire che si lucra sul lavoro del bracciante almeno 7-8 euro l’ora, considerando anche il monte ore in più. Se una cooperativa arriva a prendere anche 100 lavoratori, parliamo di 800 euro risparmiati in un solo giorno. In un mese risparmia, lucrando sul lavoratore, 24 mila euro».
Un esercito indiano al servizio dei caporali
Ecco che allora parlare di sfruttamento non è più così surreale. In Puglia come nel Lazio. Solo pochi giorni fa la storia di Paola Clemente, bracciante uccisa dalla fatica mentre raccoglieva l’uva nei campi della provincia di Andria, ha lasciato tutti sconvolti, tanto che lo stesso ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina ha rinnovato l’impegno del governo contro la piaga del caporalato. Ma Paola, in realtà, è purtroppo solo una delle tante croci disseminate nei campi italiani.
Le persone coinvolte, secondo le ultime stime della Flai-Cgil (Federazione Lavoratori Agro Industria), sono addirittura 400 mila. Di questi, circa 100 mila vivono in condizioni schiavistiche o para-schiavistiche. Più del 60% dei lavoratori e delle lavoratrici costrette a lavorare sotto caporale – la maggior parte stranieri comunitari e non – non ha accesso ai servizi igienici e all’acqua corrente. E più del 70% presenta malattie non riscontrate prima dell’inserimento nel ciclo del lavoro agricolo stagionale.
Una situazione paradossale che vede uno dei suoi maggiori epicentri proprio nel cuore d’Italia, nell’Agro Pontino. «Nel Lazio – ci dice ancora Omizzolo – il fenomeno è diffuso in provincia di Latina per la presenza di una grossa comunità indiana: qui ci sono casi in cui si testimonia una vera e propria riduzione in schiavitù». Stiamo parlando di una comunità di circa 30 mila indiani, in prevalenza sikh. Un esercito da sfruttare per i caporali, se si pensa che «l’80-85% sono impiegati in agricoltura, tutti nel bracciantato. E la maggior parte sono concentrati lungo la costa, da Aprilia fino a Formia». E, nonostante i salari bassissimi, gli orari improponibili e le condizioni abitative spesso invivibili, nessuno denuncia.
M. è arrivato in Italia con tutta la famiglia. È lui che mantiene la moglie e i suoi due bambini ancora piccoli. «Raccolgo zucchine, ravanelli, cocomeri. Dipende dalla stagione. Ma a fine mese il padrone mi dà sempre solo 300 euro massimo. Io come vivo qui? Abito con altri otto indiani». M. non è in regola con il contratto, ma la sua osservazione è inappellabile: «se io denuncio, poi chi mi trova lavoro? Meglio 300 euro che niente». Un ragionamento condiviso da tanti nell’Agro Pontino. Anche da chi, secondo un’altra testimonianza raccolta da InMigrazione, vive da cinque anni in un container fatiscente, pericolante e in cui ci piove dentro. Sacrifici enormi, in condizioni di evidente schiavitù. Tutto per racimolare pochi soldi e tanti, troppi debiti. «Il mio padrone – racconta ancora un altro indiano – deve darmi ancora 26 mila euro. Io sono 7 anni che lavoro qui in Italia. Qui vicino a Sabaudia. Io prendo da 7 anni 200/300 euro al mese e poi basta. Ma non posso lamentarmi né denunciare: io continuo a lavorare, sette giorni su sette, anche la domenica. Non ho nemmeno più modo di andare al tempio sikh a Sabaudia”.
Doparsi per vivere
Sfruttati e costretti a esserlo, insomma. Perché ogni minima denuncia rischia di far perdere loro anche quella piccola fetta di guadagno. E allora bisogna resistere anche alle estenuanti e interminabili ore di lavoro. Ma l’unico modo per farlo è doparsi, assumere droga, per non sentire il dolore e la fatica, come denunciato già più di un anno fa da InMigrazione. «Io lavoro 12-15 ore al giorno – ci dice un altro indiano sikh – raccolgo zucchine o cocomeri oppure vado col trattore. Tutti i giorni, anche la domenica. Dopo un po’ non reggi più i ritmi: avverti male alla schiena, alle mani. Anche agli occhi perché hai tutto il giorno terra, sudore, cimici. Ma non ci si può fermare, né rallentare, altrimenti rischi di essere sbattuto fuori. E allora dopo sei/sette anni di vita così, che fai? Non lavori più? Io e altri amici prendiamo una piccola sostanza per non sentire dolore. La prendiamo una o due volte al giorno quando c’è la pausa da lavoro».
«Io la prendo – racconta un altro indiano – per non sentire la fatica a gambe e schiena. Dopo 14 ore di lavoro, come pensi sia possibile non sentire dolore? In campagna per la raccolta di zucchine gli indiani lavorano piegati tutto il giorno in ginocchio». Un assurdo, peraltro, che tocca anche i bambini, secondo quanto denunciato da Save The Children. «Il fenomeno del caporalato – ci dicono dall’associazione umanitaria – è strettamente legato a quello della tratta, anche dei minori. E i bambini sfruttati, anche nelle campagne laziali, affrontano ritmi serrati, specie per un bambino. E allora, per alleviare il dolore fisico, vengono drogati con farmaci antidolorifici, oppiacei, che creano dipendenza, facilmente reperibili anche perché costano molto meno delle sostanze stupefacenti pur avendo gli stessi effetti».
L’illegalità coperta dalla legalità
Sfruttamento, padrone, schiavo . Tutti termini che ora suonano meno “lontani” di quanto pensassimo all’inizio del nostro viaggio tra i diseredati dell’Agro Pontino. Ma manca ancora un anello, forse il più importante che permette tutto questo. Il riferimento, come ci racconta ancora Omizzolo, è a quella «fascia di professionisti al servizio degli imprenditori neo-schiavisti e dei caporali».
Parliamo di commercialisti, consulenti del lavoro, ragionieri, avvocati che indicano all’imprenditore o al caporale la strada maestra affinché evitino di cadere nelle reti della giustizia. In pratica, «il caporalato e lo sfruttamento nei campi non potrebbero esistere senza dei consulenti esterni che indichino la rotta». Il motivo è presto detto: «l’illegalità – chiosa Omizzolo – è all’interno di un sistema di legalità, è coperta da un sistema di legalità. Nelle more delle leggi vigenti ci sono spazi in cui si sono inseriti truffatori, trafficanti e mafiosi che agiscono grazie alle consulenze di questi professionisti. È grazie a loro che il sistema si regge».
Al contrario di tante realtà nazionali di sfruttamento della manodopera che si configura con arruolamenti giornalieri a chiamata dei lavoratori in molte realtà agricole del pontino la situazione è diversa. Parliamo, in pratica, di «contratti a sfruttamento indeterminato», come sono stati ribattezzati da InMigrazione. Si va, in effetti, ben oltre il lavoro nero episodico e saltuario. Il sistema prevede, al contrario, buste paga e contratti di lavoro in regola per braccianti impiegati, di modo che sia tutto impeccabile in caso di controlli. Ma solo apparentemente: dietro si nasconde, infatti, un sistema di profondo sfruttamento dato che il lavoratore risulta impiegato per soli due giorni al mese. Il resto delle ore di lavoro, invece, sono sommerse, segnate a matita dal padrone su pezzetti di carta, con costi orari, come abbiamo visto, ben lontani da quelli previsti dal contratto nazionale.
È il caso di molti lavoratori indiani che ricevono una busta paga con segnati tra i 4 e i 6 giorni di lavoro a fronte del mese intero lavorato (senza, ovviamente, ferie né domeniche di pausa, senza il riconoscimento degli straordinari o dei rischi legati all’attività di bracciante). Ma non c’è fine al peggio. E così al nero si somma la mancanza di ogni garanzia. In altre parole, quanto viene segnato sul semplice pezzetto di carta dal padrone, nemmeno viene corrisposto per intero, proprio perché segnato semplicemente su un pezzetto di carta. «Io lavoravo per una grande cooperativa agricola vicino Terracina – racconta ancora un altro sikh – Quando mi ha assunto, il mio padrone mi ha detto che mi avrebbe dato 800 euro al mese. Ma alla fine me ne ha pagato solo uno. Io però ho lavorato per sei mesi. Lui allora ha scritto su un foglio bianco che mi avrebbe dato altri duemila euro, ma ho ricevuto ad oggi solo 300 euro».
E le istituzioni? Per ora il nulla
Tanto basterebbe a capire perché occorre, con urgenza, occuparsi del fenomeno del caporalato. Il ministro Martina, d’altronde, pochi giorni fa ha assicurato che «sul caporalato c'è un impegno molto forte del governo per un piano d'azione organico e stabile che sarà messo a punto entro quindici giorni». Tante le proposte al vaglio: dalla confisca dei beni per chi si macchia del reato di caporalato fino a una cabina di regia che monitori il fenomeno. «È un elemento certamente positivo – commenta ancora Omizzolo – ma è anche vero che il ministro Martina era a conoscenza del problema già due anni fa. Io stesso sono andato in commissione antimafia a denunciare, insieme alla Flai, quest’emergenza umanitaria, con foto, testimonianze e documenti. Ora bisogna passare dalle parole ai fatti. Gli annunci vanno anche bene, a patto che poi ci sia l’azione concreta».
Proposte di legge, in effetti, sono state già presentate dalle associazioni. Peccato, però, che siano rimaste chiuse nel cassetto. «Bisognerebbe innanzitutto ridefinire la legge contro il caporalato», chiosa Omizzolo. Per un piccolo ma clamoroso buco normativo: la legge a oggi punisce il caporale ma non il datore di lavoro che utilizza il caporale per reclutare manodopera. Ma le contraddizioni non finiscono qui: «Noi abbiamo proposto anche l’interruzione immediata dei finanziamenti pubblici, europei e non, a quelle aziende che reclutano tramite caporalato». Ecco l’assurdo: mettiamo caso un’azienda venga smascherata e si accerti che questa sfruttava lavoratori tramite il caporalato. A pagare, oggi, è solo il caporale. Se nulla dovesse cambiare, i vertici dell’azienda potranno dormire sonni tranquilli, continuando a godere – ciliegina sulla torta – dei lauti finanziamenti pubblici.
Carmine Gazzanni
Connessioni Precarie
02 09 2015
Il dibattito apertosi sul caporalato, dopo la morte in Puglia di alcuni braccianti italiani e stranieri, solleva alcune questioni centrali. E, tuttavia, ci pare che la riduzione del fenomeno del caporalato all’agricoltura meridionale e all’alleanza tra mafia e aziende conserviere operata da alcuni autorevoli commentatori finisca per occultare la questione delle condizioni e dei rapporti di lavoro.
Il riemergere di forme di intermediazione illegali è infatti diffuso in vari settori produttivi e in diverse aree italiane. Le prolungate lotte nella logistica, in particolare quella emiliana e veneta, portate avanti dai lavoratori migranti assunti da cooperative, etichettate prontamente come spurie, hanno svelato un sistema relativamente analogo; così anche nel turismo romagnolo agenzie di intermediazione rumene hanno rifornito per diversi anni gli albergatori di manodopera fresca e possibilmente a digiuno di esperienze all’estero. L’edilizia è poi un settore in cui l’intermediazione illegale o semi-legale di manodopera è diffusa dal nord al sud del paese. Certo, non tutte queste situazioni sono etichettabili sotto la forma del caporalato, ma tutte sono caratterizzate da una capacità di rapida movimentazione di manodopera e da un doppio comando sul lavoro che può poi estendersi nel territorio fino alle comunità di provenienza dei lavoratori in Italia come all’estero.
Non si tratta solo di padroni o caporali crudeli e spietati, ma di un sistema produttivo che può appoggiarsi a un mercato del lavoro internazionale garantendosi il reclutamento potenziale di sempre nuova e diversificata forza lavoro sia dal Mediterraneo, per chi ce la fa, sia dall’Europa orientale. È una politica dello spazio che assicura il collocamento di lavoratori in contesti sovente a loro estranei, nei quali diventa problematico persino trovare un ufficio pubblico.
Le norme sul lavoro varate in questi ultimi vent’anni hanno progressivamente eroso sia la possibilità di difendersi nel posto di lavoro sia di contrastare i fenomeni irregolari, grazie tra l’altro al progressivo impoverimento delle risorse ispettive. Non si tratta solo della proliferazione contrattuale, buona ultima l’introduzione del contratto a tutele crescenti, ma anche delle possibilità di gestire le aziende facendo ricorso a varie forme di esternalizzazione. È il modello dell’appalto che si diffonde come nel caso di Uber, la società dei taxi che stipula un accordo con il taxista-contractor isolato e atomizzato. Complicato poi appellarsi a una qualche coscienza civica quando i livelli salariali sono infimi. Al giornalista che chiedeva se meno di due euro l’ora non fosse da considerarsi schiavitù, il marito di Paola Clemente, la bracciante morta il 13 luglio, rispondeva: «erano soldi sicuri.
Per come stanno le cose in Italia era denaro importantissimo. Erano indispensabili. Ci permettevano di campare». Dichiarazioni che si collocano a una distanza siderale rispetto a quelle del procuratore capo di Trani: «Sul fenomeno del caporalato c’è un muro di gomma, la gente preferisce guadagnare pochi spiccioli anziché collaborare alle nostre indagini». La lontananza incolmabile tra queste due affermazioni evidenzia non tanto un problema culturale, quanto condizioni materiali che sono oggi sempre più diffuse. Eppure il caporalato è oggi un reato penale grazie a una norma approvata dall’allora governo Berlusconi il 13 agosto 2011 sulla spinta dell’incredibile sciopero dei braccianti migranti a Nardò. Né tavoli di concertazione né Commissioni d’inchiesta, ma una lotta poderosa e inaspettata di quelli che in molti continuano a degradare a ultimi della terra, era riuscita a smuovere il pantano politico e giudiziario.
Perché quella lotta permise anche alla Direzione distrettuale antimafia di Lecce di raccogliere informazioni cruciali i merito al caporalato. Ma le morti di questi giorni dimostrano drammaticamente come legislazioni e processi giudiziari da soli non possono modificare i rapporti di lavoro. Il caporalato altro non è che un modo per gestire e controllare una forza lavoro povera che non può rifiutare il lavoro. Se come dice il Presidente del consiglio: «qualsiasi lavoro è meglio di un non lavoro» e le misure governative puntano a ridurre il salario diretto e indiretto, il caporalato diventa una conseguenza quasi inevitabile. A poco rischia di servire la nuova legge immediatamente approvata sui giornali e in televisione che, secondo le parole del volonteroso ministro Martina, dovrebbe addirittura prevedere «la confisca dei beni per le imprese che si macchiano del reato di caporalato». Il caporalato sarebbe così equiparato a un reato di mafia. Accortosi forse di essersi allargato un po’ troppo, il ministro ha però subito rassicurato che la «grande maggioranza delle imprese agricole sono realtà sane e in regola», restituendo così il caporalato alla dimensione di un fenomeno di cui ci si può scandalizzare. Scandalizzarsi per i caporali e i morti sul lavoro e contemporaneamente considerare il sindacato come un impedimento all’ammodernamento del paese è però una politica da equilibristi schizofrenici. Se poi il sindacato vive solo nelle pagine dei giornali e nei dibattiti nazionali non si può nemmeno lamentare del suo declino. Come insegnano le lotte nella logistica, per eliminare il caporalato ci vuole altro.
Dinamo Press
31 08 2015
Parlano le colleghe di Paola Clemente. Prosegue l'inchiesta di Gaetano De Monte per Dinamo Press sul caporalato in Puglia, il sistema alla base della produzione agricola regionale.
È il giorno dopo la riesumazione del corpo di Paola Clemente, la bracciante morta in circostanze misteriose nelle campagne di Andria il 13 Luglio scorso; mentre si attendono per la settimana prossima i risultati definitivi dell’autopsia e degli esami tossicologici disposti dal pubblico ministero della Procura di Trani, Alessandro Pesce e affidata al medico legale Alessandro dell’Erba e al tossicologo forense Roberto Gagliano Candela ( entrambi dell’università di Bari) a parlare sono le colleghe di Paola.
Lucia e Teresa (nomi di fantasia) le incontriamo di notte mentre aspettano l’autobus gran turismo di colore grigio marchiato “ Grassi viaggi”, lo stesso su cui saliva anche Paola. Hanno ancora nella mente gli ultimi istanti di vita della loro collega. A cominciare da quel viaggio da San Giorgio Jonico ad Andria, durante il quale “cominciava a non sentirsi bene e ad avere un’abbondantissima ed anomala sudorazione”. Così raccontano:
abbiamo cercato di farla riprendere, asciugandole il sudore con le nostre magliette. Abbiamo anche avvisato l’autista del mezzo, Salvatore, e colui che organizza i viaggi, Ciro Grassi, ma tutti e due continuavano a ripetere che non era possibile tornare indietro, perché dovevano accompagnare le altre donne per la giornata in campagna. Una volta poi arrivati ad Andria, circa tre ore dopo, Paola non si era ancora ripresa e chiese a Ciro di poter parlare con il marito per farsi venire a prendere. È troppo distante Andria da San Giorgio Jonico, è inutile, le fu detto, e di sedersi sotto un albero per farsi ombra perché così il malessere le sarebbe passato in fretta.
Sembra cominci a sgretolarsi (anche se a fatica) quello che il procuratore di Trani, Carlo Maria Capristo aveva definito il muro di gomma sul caporalato. “ La gente non collabora, preferisce guadagnare pochi spiccioli e non collabora alle nostre indagini”, aveva ribadito. Si indaga per omicidio colposo e omissione di soccorso, sono queste le ipotesi di reato alla base dell’inchiesta condotta dalla Procura di Trani. Ad essere stati iscritti nel registro degli indagati, per il momento sono in tre: l’autista del mezzo, Salvatore Filippo Zurlo, il proprietario del’agenzia noleggio e trasporto persone con conducente, Ciro Grassi, infine, Luigi Terrone, uno dei titolari dell’azienda Ortofrutta meridionale, presso cui lavorava la donna, “con cui non avevamo nessun tipo di rapporto, era Ciro a gestire tutto. Era sempre lui che ci diceva di avere sempre con noi la borsa con i documenti del contratto, quello che avevamo firmato con l’agenzia di Bari, casomai ci fosse stato un controllo della polizia sulla strada, come a volte è successo, avremmo dovuto esibirlo"; così proseguono il loro drammatico racconto, Lucia e Teresa:
I particolari di quella mattina non li dimenticheremo mai. Sul posto giunse una pattuglia dei Carabinieri che provò a rianimare Paola praticandole la respirazione bocca a bocca. Poi arrivarono due ambulanze del 118. La prima, priva di attrezzature per il soccorso d’emergenza, giunse in ritardo. Non è facile orientarsi tra le contrade di campagna. La seconda autoambulanza giunse quando ormai era troppo tardi. Se fosse stata soccorsa con tempestività, forse si sarebbe potuta salvare.
Resta, nelle colleghe di Paola la rabbia per non esserla riuscita a salvare, “ pure il padrone era dispiaciuto, si vedeva”. Rimangono numerosi interrogativi. Non si comprende, innanzitutto, per quale ragione non sia stata fatta subito l’autopsia sul corpo di Paola per poter accertare le cause del decesso. Si avanzano numerosi sospetti, gli stessi a cui il marito della donna, Stefano Arcuri ha fatto riferimento davanti ai magistrati di Trani che lo hanno ascoltato come persona informata sui fatti. Ovvero: “possono, diversi giorni passati a lavorare sotto un tendone ad oltre 40 gradi di temperatura ed in coltivazioni periodicamente trattate con anticrittogamici, aver avuto una concausa nella morte di mia moglie” si è chiesto l’uomo. E poi ancora: “se fosse stata soccorsa tempestivamente ed in maniera adeguata, avrebbe potuto salvarsi ”?
Ad ascoltare le voci di alcune braccianti, chi conduceva il pullman e chi era il responsabile delle lavoratrici non ha inteso accompagnarla prima possibile presso un posto di pronto soccorso, preoccupandosi, invece, soltanto di giungere sul posto per consentire alle altre braccianti di svolgere il loro lavoro, per 27 euro al giorno. Dunque, sono ancora tante le domande a cui in queste ore si sta provando dare risposta.
Paola Clemente avrebbe compiuto 50 anni tre giorni fa, il 23 Agosto. Festeggiando, probabilmente, insieme ai tre figli ventenni, al marito e alle colleghe. Gli stessi che per tenerne vivo il ricordo, ora pretendono giustizia, esercitando la parresia, l’arte e il coraggio di dire al verità, al potere, soprattutto. Ciò in cui Michel Foucault ha visto, in Grecia, l’origine di quell’arte che in Occidente adesso è chiamata critica e che ha in Socrate il suo primo grande esempio ed interprete. Il coraggio di dire la verità. Da contrapporre al silenzio che, spesso, si ascolta nelle campagne in cui si nega la stessa vita.
di Gaetano De Monte