Osservatorio Iraq
24 09 2015
Ritorno a Sidi Bouzid, dove nacque la Rivoluzione tunisina del 2011. Tra sconforto, crisi economica e rassegnazione, viaggio in un Governatorato dove resiste la speranza.
“Due per Sidi Bouzid, grazie”. “Andate nella madinat at-thawra (città della Rivoluzione, ndr), eh?” ci chiede, tra lo stupito e l’emozionato, il bigliettaio della stazione dei pullman di Tunisi. Annuiamo, sorridiamo, prendiamo i ticket.
Duecentosettanta chilometri e cinque ore e mezzo di viaggio ci separano dalla città. Un viaggio reso particolarmente lungo dall’assenza di autostrade che collegano il Governatorato – anch’esso chiamato Sidi Bouzid – al resto del paese, ma stranamente piacevole: la Tunisia centro-meridionale offre ai passanti la vista di distese vastissime di terra bruciata e olivi.
L’impressione di chi arriva per la prima volta a Sidi Bouzid è, quasi sempre, la stessa: non mi trovo nello stesso paese di Tunisi, di Hammamet, di Djerba, di Susa.
Qui non esistono hotel e locali per occidentali, i bar sono frequentati da soli uomini, nei supermercati non sono in vendita bevande alcoliche e la grande maggioranza delle donne indossa l’hijab. Le occhiate spiazzate e di diffidenza che ci arrivano dagli abitanti ci suggeriscono dopo pochi minuti, inoltre, che qui il turismo sia cosa inesistente.
Ogni angolo di Sidi Bouzid ci urla che quella in cui ci troviamo è una delle città protagoniste della Rivoluzione del 2010/2011; ci urla che è, anzi, La città della Rivoluzione, l’epicentro di un terremoto di proteste popolari che, esploso qui il 17 dicembre 2010, ha portato in due settimane al crollo del regime dittatoriale di Zine el-Abidine Ben Ali, collassato il 14 gennaio 2011.
Ce lo urla il monumento dedicato al personaggio simbolo della Rivoluzione, Mohamed Bouazizi, un ventiseienne disoccupato a cui la polizia aveva sottratto il suo carretto di frutta e verdura, sua unica fonte di sostentamento; ce lo urlano le scritte sui muri inneggianti al 17 dicembre, e le foto di quei giorni di guerriglia, appese nelle case private, nelle sedi dei partiti, nei bar della città.
Ce lo urlano gli occhi lucidi di chi, in quei giorni, ha visto cadere amici o parenti sotto le violenze della repressione di Ben Ali.
Cinque anni dopo, a Sidi Bouzid quasi nessuno è contento. Non lo sono gli anziani, i giovani, gli uomini, ne’ le donne.
“Avevamo due problemi” ci racconta ’Ali, un tassista di 29 anni laureato in Informatica e disoccupato fino a pochi mesi prima. “La situazione economica e il disinteresse dello Stato. Ora siamo più poveri e più dimenticati di prima”. Un malcontento generale, un senso di disillusione che non ha colore politico e che ha reso scontenti tutti, dagli anziani più conservatori ai ragazzi della sinistra più radicale.
Persino i militanti della sezione locale del sindacato UGTT – “la prima della Tunisia a prendere le parti dei manifestanti contro la dittatura e ad esortare la sede centrale a fare altrettanto”, come ci tiene a sottolineare il vice-segretario Gharbi Lazhar – scuotono la testa. No, proprio non possono apprezzare la piega che ha preso Sidi Bouzid dopo il 2011.
Più poveri e dimenticati di prima, ha ragione ’Ali: tra il 2011 e il 2015 il tasso di disoccupazione di Sidi Bouzid è raddoppiato, crescendo dal 14% al 28%.
Un andamento condizionato dalla scomparsa del turismo (nell’estate 2015, diminuito dell’85% rispetto al 2010) e degli investimenti stranieri, i due settori che da soli tenevano in piedi il 25% del PIL tunisino e che hanno risentito più di tutti dell’instabilità piombata in Tunisia dopo la Rivoluzione.
Un’instabilità che ha colpito Sidi Bouzid sin dalle prime settimane del 2012. Sin da quando, cioè, i gruppi salafiti più radicali del Governatorato si sono resi protagonisti di sempre più azioni violente e terroristiche dirette ai simboli della “contaminazione occidentale” (come l’hotel Horchani, assaltato perché distributore di bevande alcoliche) e a coloro che opponevano resistenza alla predicazione salafita (pressioni e aggressioni ai civili, agguati armati ai posti di blocco, omicidi mirati).
Liberi dalle persecuzioni benaliste, inizialmente (e irresponsabilmente) tollerati dal governo provvisorio, finanziati a suon di dinari sauditi e qatarioti ed agevolati dal caos delle limitrofe Libia ed Algeria, in breve tempo hanno reso Sidi Bouzid una delle proprie roccaforti.
Più poveri, ma anche più dimenticati, ci ha detto ’Ali. Che, ancora, non sbaglia: dati alla mano, dal 2011 ad oggi i governi che si sono susseguiti alla guida del paese - tanto quelli provvisori quanto quello di Essebsi/Essid eletto a fine 2014 - ben poco hanno fatto, ad eccezione di grandi proclami e la costruzione di qualche chilometro di strada, per risolvere le grandi problematiche sociali del Governatorato. Quelle problematiche, cioè, legate alla bassa occupazione, all’assenza di strutture sanitarie adeguate, all’inagibilità di più della metà dei terreni, ai collegamenti con le altre città.
Camminiamo lungo la via principale della città, Avenue Mohamed Bouazizi. La percorriamo tutta, sino ad arrivare ad un monumento raffigurante il carretto di Bouazizi. Un monumento particolarmente umile, francamente non bellissimo, ma molto efficace.
Sul suo piedistallo, qualcuno ha scritto “non smettete di combattere”.
La scultura è stata costruita sopra una statua innalzata da Ben Ali per celebrare la sua presidenza. Il punto esatto dell’immolazione, ci indica un passante, è dall’altra parte della strada.
In questo angolo della città, le scritte e i disegni sui muri si fanno più numerose. “Restate in piedi tunisini, tutto il mondo è fiero di voi” recita la più famosa. La scritta è stata fatta su uno dei muri dell’ufficio del Governatorato, vicino ad una gigantografia di Bouazizi. Pochi metri più in là, un murales di quattro metri inneggia al 17 dicembre. Richiami della Rivoluzione ci arrivano anche dalla fermata dell’autobus, dal nome “al-Hurryya” (libertà).
Mentre scattiamo le foto veniamo fermati da un ragazzo, Mahmud, un infermiere disoccupato di 32 anni. Ci dice che vorrebbe andare in Germania, ma che non può uscire dalla Tunisia perché non gli danno il passaporto. Ci chiede cosa facciamo a Sidi Bouzid, gli diciamo che vogliamo vedere come è la situazione cinque anni dopo la Rivoluzione.
Non è contento, tutto è peggiorato, afferma, mentre maledice la Rivoluzione. Arriva addirittura a definire Bouazizi un “nemico dell’Islam” per l’ondata di estremismo che ha sommerso (e sta sommergendo) Medio Oriente e Nordafrica dopo la degenerazione di alcune rivolte, prima tra tutte quella siriana. Ondata, è bene ricordarlo, di cui le prime vittime sono i musulmani stessi.
La giornata è quasi giunta al termine quando veniamo fermati da un gruppo di ragazzi che ci invita ad una serata musicale. Sono tutti membri della Web Radio 17 decembre, che ha sede nell’ominomo complesso giovanile e sportivo di Sidi Bouzid.
Dopo lo spettacolo sediamo, scherziamo, cantiamo con loro. Parliamo della Rivoluzione.
Le loro voci hanno, sì, il timbro di chi si aspettava un miglioramento del proprio stile di vita e sta pagando con gli interessi il prezzo della Rivoluzione, ma anche quello di chi a rimpiangere un dittatore violento e corrotto proprio non ci riesce.
“Tutto questo” ci dice Hani Muhammad Nagib, il responsabile della radio, indicando la sala da dove si svolgono le dirette “non sarebbe stato possibile durante la dittatura. Ho meno soldi, ma mi sento più ricco”.
La Rivoluzione, quindi, non è tutta sbagliata. Accanto al contraccolpo di economia e sicurezza, il Governatorato è stato attraversato da una serie di iniziative liberali che hanno avuto immediatamente i loro effetti.
Se è vero che, per istaurarsi, la democrazia ha bisogno di tanto tempo e sforzi, è anche vero che alcuni dei suoi effetti sono immediati.
“Sidi Bouzid” continua orgogliosamente il nostro amico “è la Regione tunisina in cui è presente il numero maggiore di associazioni, 1.600. La maggior parte sono giovanili, femministe e culturali. Anche questo, prima del 17 dicembre, non sarebbe stato possibile”.
Le parole di Hani Muhammad sono musica per le nostre orecchie.
Se è vero che sapevamo quanto la Tunisia e Sidi Bouzid del post-2011 fossero diverse da quelle studiate sui libri, così come sapevamo quanto l’esperimento democratico del paese – l’unico, tra quelli del mondo arabo – si stesse consolidando tra molti limiti e difficoltà, non eravamo preparati ad un così condiviso sentimento di distacco dalla Rivoluzione proprio da parte di chi quella Rivoluzione l’aveva fatta scoppiare.
Sta dunque nella società civile la risposta che abbiamo trovato al più grande dei nostri interrogativi. A chi, cioè, questa Rivoluzione abbia davvero giovato.
Una società civile fatta di giovani e di donne che non hanno arrestato il proprio attivismo con la Rivoluzione, ma che in più occasioni sono tornati nelle piazze di Sidi Bouzid. La lenta ma progressiva diminuzione del numero di movimenti salafiti presenti all’interno della Regione registrata a partire dall’inizio di quest’anno, ad esempio, è anche frutto della marginalizzazione della dottrina proveniente dalla società civile stessa, sempre più radicata su posizioni contrastanti il terrorismo e le violenze tipiche dei gruppi più radicali.
“Chi è scontento del peggioramento dell’economia e dei disordini che si sono creati non ha capito per che cosa abbiamo la Rivoluzione” ci dice, infine, Janet Kadachi, responsabile dell’associazione femminile Voix d’Eve di Regueb.
“Ognuno di noi ha meno soldi di prima, ma ora possiede la Libertà, che è un bene senza prezzo. Le mie tre figlie, inshallah, cresceranno in uno Stato democratico e libero, e avranno più possibilità di successo di quante ne abbiamo avute noi, cresciute tra due dittature. Abbiamo affrontato delle difficoltà e ne affronteremo altre, ma le grandi conquiste richiedono sempre grandi sacrifici”.
Luigi Giorgi
Tutmonda
03 08 2015
Di fronte ai numeri di sommersi e salvati che scandiscono i picchi di attenzione mediatica sugli arrivi dei migranti in Sicilia, la presenza di “pochi” richiedenti asilo e rifugiati in Tunisia rende difficile portare in primo piano il contesto tunisino; se non altro dopo lo “svuotamento” del campo di rifugiati di Choucha che nel 2011 aveva ospitato decine di migliaia di persone in fuga dalla Libia e la sua chiusura ufficiale, nonostante ancora un centinaio di diniegati e rifugiati vivano ancora al campo, senza ancora un altro spazio in cui stare.
E tuttavia è precisamente a partire da questa non-notizia, se la si guarda dal punto di vista della politica dei numeri, che è necessario partire per interrogarsi su cosa sta accadendo negli spazi-frontiera, o meglio alle pre-frontiere dell’Europa, di cui la Tunisia rappresenta certamente un fondamentale check-point, che è andato rafforzandosi di anno in anno attraverso gli accordi bilaterali tra Tunisia e Italia sopratutto in materia di pattugliamento delle coste tunisine contro le partenze irregolari e la donazione da parte dell’Italia di imbarcazioni ed equipaggio tecnico. Cosa accade a coloro che partono dalla coste libiche e vengono intercettati/salvati dalla Garde Nationale tunisina o a quelli che, fuggendo a piedi dalla Libia, si trovano bloccati come “rifugiati illegali” in Tunisia, dopo che gli stati europei hanno rifiutato di procedere al resettlement?
Rifugiati illegalizzati. Vista l’assenza a oggi di una legge sull’asilo in Tunisia, i beneficiari di protezione internazionale così come i richiedenti asilo vengono tollerati sul territorio tunisino come migranti irregolari. E talvolta questa condizione di rifugiato illegale si traduce in detenzione ed espulsione. Ouardia, nome di un quartiere periferico di Tunisi che designa anche un “centre d’accueil et d’orientation” secondo la denominazione del governo tunisino, ovvero una prigione per stranieri nei fatti, dove possono accedere solo alcuni avvocati, la Croissant Rouge per distribuire i pasti, e l’OIM, incaricato di organizzare i “rimpatri volontari”.
E in ogni caso la quasi totalità dei migranti detenuti viene lasciata senza alcun sostegno legale. Qui sono stati portati e detenuti alcuni dei rifugiati e diniegati del campo di Choucha che si erano trasferiti nella capitale; o rifugiati statutari del campo che erano rientrati in Libia per partire in Europa e che dopo essere stati soccorsi in mare dalle autorità tunisine, sono stati detenuti in quanto rientrati nel paese come migranti irregolari, visto che lo status di rifugiato attribuitogli da UNHCR non è riconosciuto dalla Tunisia; infine, altri, famiglie di siriani per lo piú, arrivati dalla frontiera algerina, sono finiti a Ouardia ancor prima di poter presentare domanda di asilo. Anche i bambini restano nel centro, come conferma l’IOM, che per mantenere un rapporto di collaborazione con la Tunisia su altri fronti come quelli dei rimpatri volontari dei tunisini, cerca di non guardare troppo cosa accade, pur avendo accesso alla prigione.
Dalla città di Tebessa, poco oltre il confine algerino, ogni tanto arriva una telefonata ad alcuni dei rifugiati di Choucha: “siamo qui, i poliziotti tunisini ci hanno lasciato nel deserto con una baguette e dell’acqua. Ora siamo in questa città ma due di noi che hanno provato a rientrare in Tunisia sono morti, forse persi nel deserto”. Ma a Ouardia non si resta per molto tempo, l’obiettivo è far ripartire le persone il piú rapidamente possibile. Un far sloggiare dal territorio che si concretizza in due varianti di deportazione a costo zero per la Tunisia: l’auto-espulsione da parte dei migranti, se questi hanno soldi a sufficienza per acquistare un biglietto aereo verso i propri paesi di origine, talvolta con il supporto dell’OIM; o “accompagnamento” verso la frontiera desertica algerina, dove in molti sono stati lasciati dalle autorità tunisine e invitati e proseguire a piedi dall’altra parte del confine. Non appena entrano a Ouardia, i richiedenti asilo vengono minacciati di venir portati al confine con l’Algeria e lasciati nel deserto se non si organizzano a rientrare nel proprio paese “in autonomia”.
Quando nei porti di Sfax o Zarzis arrivano i migranti tratti in salvo dalla Garde Nationale tunisina, lo smistamento delle persone sul territorio effettuato dalla Garde Nationale stessa è casuale: “eravamo in 86 eritrei sull’imbarcazione, quasi tutti rifugiati statutari come me. E in sessanta siamo stati portati a Ouardia”, racconta Z, che dopo due anni dall’accaduto vive nella periferia di Tunisi cercando di non finire troppo nell’occhio della polizia di quartiere, vista la sua condizione di “rifugiato illegale”. Chi non viene detenuto a Ouardia viene portato a Medenine, cittadina dell’interno, dove la Croissant Rouge e UNHCR gestiscono un centro di accoglienza, o meglio due: uno in cui sono alloggiati coloro che vengono ritenuti in diritto di presentare la domanda di protezione internazionale – ovvero, chi proviene da paesi “non-sicuri”, secondo la lista segreta usata da UNHCR – e un edificio senza insegne, in cui vengono “depositati”, senza alcuna assistenza minima, gli altri, quelli che secondo UNHCR non hanno diritto a presentare domanda.
Ma oltre alla prigione di Ouardia e ai centri di Medenine alcuni rifugiati raccontano dell’esistenza di altri centri o caserme usati a scopi detentivi per i migranti. Centri segreti di cui tuttavia il report redatto nel 2013 da Francois Crepeau, inviato speciale per i diritti umani dell’Onu, fa riferimento, ipotizzando che possano essere 13, tra cui la caserma di Ben Guerdane, ultimo avamposto prima della frontiera libica. Una realtà, quella della detenzione dei rifugiati e dei richiedenti asilo in Tunisia, di cui peraltro gli attori dell’umanitario sono al corrente, primo tra tutti UNHCR, incaricato di esaminare le domande di protezione in Tunisia ma che poi conferma ai rifugiati arrestati per strada a Tunisi che effettivamente il loro documento in Tunisia non ha alcun valore.
A Ouardia si finisce dunque dopo essere stati bloccati dalla polizia, o dopo essere stati ripescati in mare dalla Garde Nationale. Ma in fondo Ouardia è paradossalmente divenuta anche un canale di partenza depenalizzato per gli stranieri in Tunisia. Infatti, chi si trova in una situazione di irregolarità nel Paese per uscire è obbligato a pagare una penalità che ammonta a 80 euro per ogni mese trascorso da irregolare, una delle ragioni per cui molti rifugiati e diniegati si trovano al momento bloccati in Tunisia, senza possibilità di raggiungere la somma richiesta. Solo a quelli che passano da Ouardia viene fatto lo “sconto” per un auto-espulsione senza penalità, situazione che ha portato alcuni rifugiati a farsi arrestare per riuscire poi a lasciare il Paese.
Il tentativo dell’UE di esternalizzare l’asilo e costruire campi di raccolta in Tunisia sembra per fortuna essere naufragato, almeno per il momento; ma anche l’adozione di una legge sull’asilo in parte già scritta e depositata al ministero della giustizia, resta a oggi per lo meno affare rimandato a data da destinarsi. Tuttavia, di fronte alle politiche di guerra dell’UE e delle condizioni di accoglienza di molti centri italiani, dei percorsi di illegalizzazione in Europa o degli spazi di contenimento come Calais, sarebbe inefficace ma anche politicamente errato mobilitarsi in una critica alla Tunisia fatta dalla sponda europea, in nome del rispetto di diritti umani che gli stati europei sono i primi a violare. Tanto piú che la Tunisia, va ricordato, nel 2011 si era dimostrata frontiera aperta, lasciando entrare sul suo territorio un milione di persone in fuga dalla Libia,e ospitando circa 600 000 libici; accoglienza che peraltro prosegue tuttora, insieme a una tolleranza seppur minimale di fronte a una presenza crescente di stranieri che dopo le rivoluzioni arabe hanno trasformato lo spazio tunisino da paese di emigrazione e transito in paese di immigrazione, per quanto involontaria, ovvero luogo-rifugio per molti fuggiti dalla Libia.
Con il dossier “Rifugiati in Tunisia: tra detenzione e deportazione”, (http://www.storiemigranti.org/spip.php?article1079) il sito di Storiemigranti prova ad aprire uno spazio di interrogazione rivolto prima di tutto a chi si trova a vivere sulla sponda nord del Mediterraneo, in un momento in cui gli stati europei stringono accordi con dittature come quella eritrea o disegnano fantasie governamentali di esternalizzazione delle politiche di asilo. La richiesta di poter accedere alla prigione di Ouardia e di sapere dove e quanti sono i centri di detenzione in Tunisia è anche, prima di tutto, una contestazione di politiche di esternalizzazione spesso confuse con il rafforzamento di una politica di asilo nei paesi terzi. Politiche, quelle europee, che pur non riuscendo nell’obiettivo di costruire campi in Tunisia, risolve la presenza in Tunisia di richiedenti asilo che erano diretti in Europa, negando il resettlement sul territorio europeo, come nel caso di molti rifugiati del campo di Choucha; oppure lasciando che prosegua il gioco del rimpallo tra Algeria e Tunisia con i “rifugiati illegalizzati”.
Tunisia in Red
29 07 2015
Chi osservi le immagini del giovane Seifeddin Rezgui sulla spiaggia di Port Kantaoui, nella città di Sousse, lo scorso 26 giugno, capirà subito che il fenomeno del jihadismo terrorista è qualcosa di più di una violenta manifestazione di radicalismo religioso. Rezgui, addestrato in Libia, precedentemente animatore in alcuni hotel turistici, studente universitario appassionato di hip-hop, sembra un ragazzo dall’apparenza del tutto normale, con il suo costume da bermuda da bagno nero ed i lunghi capelli scuri: niente barba da salafita, nessun livido da preghiera sulla fronte, nessuna tenuta afghana; porta, questo sì, un kalashnikov con il quale sparerà più e più volte, sereno e preciso, sui turisti che prendono il sole davanti all’Hotel Imperiale Marhaba. Ne ha uccisi 39 prima che la polizia intervenisse uccidendo anche lui.
In Tunisia, come in tanti altri posti della regione, non si assiste a una radicalizzazione dell’Islam ma, come spiega l’antropologo francese Alain Bertho, a una “islamizzazione della radicalità”. Circa 3.000 giovani tunisini (1) sono partiti per la Siria e l’Iraq per unirsi allo Stato Islamico: si tratta del più alto numero di affiliati di tutti i Paesi arabi, un po’ più alto dei 2.000 francesi volontari, a loro volta secondi nella graduatoria mondiale del radicalismo islamista. Per ora i 3.000 ragazzi tunisini non sono molti, ma rappresentano l’avanguardia di una gioventù frustrata che nel 2011 aveva sognato una rivoluzione democratica e che, se il caos regionale aumenta e il governo tunisino continua a puntare sulla repressione, troverà nel jihadismo l’unica possibile forma di ribellione per ottenere integrazione, autostima e perfino una vita di coppia, in un paese in cui disoccupazione e patriarcato si combinano per impedire di avere una vita sessuale.
La strategia dei gruppi jihadisti è chiara, basta seguirla sul “manuale” di queste organizzazioni, La gestione della barbarie, un’opera firmata dallo pseudonimo collettivo Abou Bakr Naji. Superate con successo le prime quattro tappe (predicazione, analisi, omicidi politici, assalti ai posti di polizia), i jihadisti tunisini sarebbero passati alle “azioni di immersione” (inghimassia) con l’attentato al museo del Bardo del marzo scorso e quello a Sousse alla fine di giugno. Qual è l’obiettivo? Abou Bakr Naji lo spiega con lucida chiarezza: indebolire lo Stato e delle sue istituzioni perché non riescano più a gestire la cosa pubblica e, di fronte al vuoto che ne deriverebbe, “l’organizzazione dell’anarchia” o, secondo il titolo del libro, “la “gestione della barbarie” si imponga come una necessità sociale. Gli ultimi attentati avanzano molto rapidamente in questa direzione, facilitati dalla risposta del governo guidato da Nidaa Tunes e Beji Caid Essebsi.
Bisogna ricordare che proprio a Tunisi iniziarono le rivolte arabe, e che la Tunisia è l’unico Paese della regione in cui la sollevazione ha portato una democratizzazione – più o meno reale - delle Istituzioni, con l’adozione di una costituzione laica, approvata da un’assemblea costituente, e con la convivenza nel governo di partiti laici ed islamisti. Queste conquiste, tuttavia, sono molto fragili, anche perché l’ ancien regime –che non ha mai realmente abbandonato l’apparato dello Stato e che è tornato in forza dopo le ultime elezioni- ripropone la stessa gestione economica, politica e poliziesca del deposto Ben Ali.
Alle misure economiche (accordi con gli USA e con il FMI, privatizzazioni, investimento estero) che immiseriscono ulteriormente una popolazione più povera oggi che sotto la dittatura, si aggiungono le leggi liberticide promulgate in nome della “lotta antiterrorista”, che invalidano la Costituzione e legittimano il governo agli occhi delle classi medie urbane, nostalgiche del passato, ma che al tempo stesso radicalizzano i settori più giovani e sfavoriti, delusi dopo quattro anni di democrazia.
All’attentato di Sousse il governo tunisino ha risposto esattamente come voleva l’Isis, ossia rendendo evidente la sua incapacità di gestire democraticamente le istituzioni: decretato lo stato d’emergenza, che limita i diritti di riunione e di manifestazione; criminalizzati i movimenti sociali –in particolar modo l’iniziativa cittadina Ouinu-el-petrol (“Dov’è il petrolio”) che reclama trasparenza nella gestione delle risorse energetiche del Paese; annunciata la possibile messa fuori legge di alcuni partiti politici, come il salafita Hizbu-tahrir, manifestamente contrario alla violenza; chiuse 80 moschee; arrestati 1.500 giovani e proibito di viaggiare ad altri 15.000, restringendo in generale il diritto a viaggiare ai giovani di meno di 35 anni; militarizzato il territorio tunisino, specialmente le zone turistiche, mentre rimane in vigore la legge di “protezione dei corpi di sicurezza” che garantisce impunità alla polizia (la stessa che continua a torturare) e che penalizza, a volte con anni di carcere, qualunque forma di denuncia degli abusi polizieschi.
Tutto questo è esattamente ciò che i terroristi desideravano; questa antagonistica confluenza “da manuale” tra “gestori della barbarie” preannuncia già un autunno caldo e lascia poche speranze di sopravvivenza all’unica esperienza democratica esistente nella regione.
Conviene prepararsi al peggio.
(1) la cifra riportata nell’articolo fa riferimento a una comunicazione del Ministero degli Interni tunisino. Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, i jihadisti tunisini sarebbero invece fra i 5.300 e i 5.800.
Traduzione dallo spagnolo a cura di Giovanna Barile