Zero81
22 07 2015
Da alcuni mesi molti attivisti on line, su Facebook e Twitter, hanno sperimentato una nuova forma di protesta: la “TweetStorm”.
Noi l’abbiamo sperimentata giù qualche tempo fa durante il forum Macry vs studenti organizzato dal corriere del mezzogiorno (https://www.facebook.com/events/373900432787289/) .
Ieri è stata una nuova occasione, durante la trasmissione #paralleloItalia, per riproporre questa pratica di attivismo on-line. Grazie a questo siamo riusciti a raccontare secondo per secondo come stesse procedendo il sit-in nei pressi dello studio Rai, riappropriandoci cosi del diritto alla parola che ci era stato negato in tv ma che ci siamo saputi riprendere nel flusso di informazioni della rete, ed in particolare di twitter.
COS’E’ UNA TWEETSTORM?
E’ un’azione coordinata di diversi utenti che contemporaneamente inviano gli stessi messaggi otweets, generando appunto una vera e propria “tempesta” di tweets ( “storm” significa infatti “tempesta”)
Come funziona?
Chiunque può provocare una TweetStorm, è necessario soltanto decidere:
1. In cosa consisterà il messaggio / tweet ( il testo/ i “campi” o “aree” a cui la notizia rimanda – i cosiddetti “hashtags” – Es. “paralleloitaia”, “redditosubito”, “tasse” etc. / l’ utente o gli utenti a cui il tweet è destinato, Es. @paralleloitalia ).
2. L’ orario nel quale il messaggio sarà inviato. E’ importante scegliere l’ora o la fascia oraria durante la quale c’è il maggior numero di utenti on line (talk show serali, grandi manifestazioni ecc)
Qual è il passo successivo?
Bisogna informare il più possibile dell’azione TweetStorm chiedendo al maggior numero di utenti o attivisti di sostenerla, prendervi parte e diffonderla a loro volta.
Le TweetStorms sono realmente efficaci?
Questa nuova forma di attivismo on line è appena agli inizi. Al momento possiamo affermare che:
1. Essa si dimostra realmente efficace solo grazie ad azioni coordinate su twitter.
2. TweetStorms “mirate”, ossia destinate a specifici utenti, sono la migliore alternativa ai tweets generici: essi richiamano l’attenzione di altri utenti che possono solo contribuire a rafforzare una causa o un’iniziativa.
3. Le TweetStorms NON sono spam.
4. La TweetStorm non è intrattenimento, ma attivismo serio e scrupoloso che fa informazione. E’ una forma di protesta concepita per creare attenzione da differenti punti di vista. La TweetStorm mostra ai suoi sostenitori che la causa per la quale ci si batte è solida e riceve sostegno. Allo stesso tempo mostra ai “potenziali nemici” che i sostenitori di quella causa sono uniti e solidali.
5. TweetStorm è assolutamente democratica: ognuno può decidere cosa dire, a chi e quando destinare il messaggio.
Come attivisti, è importante non solo prendere parte alla TweetStorm ma incoraggiare effettivamente gli altri a prenderne parte. L’attivismo on line non si limita a premere il tasto “mi piace” o “invia”, ma occorre essere realmente protagonisti con le proprie idee in modo da dar voce alle proprie istanze.
Fonte articolo: https://globalfree.files.wordpress.com/2010/10/tweetstorm-it.pdf
- See more at: http://www.zer081.org/2015/07/22/strategie-dell%E2%80%99attivismo-on-line-la-%E2%80%9Ctweetstorm%E2%80%9D/#sthash.gVzUZn7b.dpuf
l'Espresso
03 07 2015
Guardate questa foto suggestiva. Viene dal “Pride 2015” di New York. La più grande festa di orgoglio LGBT di sempre. Sarà che solo due giorni prima la Corte suprema statunitense aveva stabilito che il matrimonio è un diritto garantito dalla Costituzione anche per le coppie omosessuali. Una decisione storica che aveva fatto subito il giro del mondo, grazie all’istantaneità della Rete e all’hashtag virale “LoveWins”.
Il giorno dopo, Facebook e tutti gli altri principali social network avevano sposato la svolta epocale, con layout ad hoc o consentendo agli utenti di personalizzare la propria immagine del profilo col filtro “arcobaleno”, da quarant’anni simbolo delle comunità gay, lesbiche, bisessuali e transgender. L’iniziativa era stata salutata con entusiasmo da tanti (“sentinelle in piedi” escluse). Una “bella lezione di civiltà”. 2.0.
Guardate bene questa foto. L’ha scattata, al Pride di NYC, Claudia Ferri, fotografa di scena di Offline, un nuovo programma televisivo che andrà in onda da giovedì 16 luglio alle 23.30 su Rai 2 e che parlerà di culture e “fenomenologie social”. Raffigura due donne coi seni asportati. Hanno subito entrambe una delicata operazione di mastectomia totale. Vittime del cancro al seno, e di una delle sue forme più virulente. Eppure sorridono, mostrando con orgoglio le proprie cicatrici. L’orgoglio LGBT che si mescola al coraggio di non voler soccombere alla malattia. Sul torace della ragazza bionda campeggia la scritta viola “Fuck Cancer”. Lo scatto commuove, fa riflettere con leggerezza e dà corpo e voce alla battaglia senza quartiere contro il più diffuso tumore femminile. Dice più di mille opuscoli sulla prevenzione. Trasuda purezza e forza d’animo. Non suscita pruriti o bassi istinti para-pornografici.
“Ho pubblicato la foto su Instagram e poi l’ho condivisa su Facebook, sul mio profilo e sulla pagina di “Offline" ci racconta Claudia Ferri "Quando ho rifatto l’accesso a Instagram, mi è arrivata la comunicazione che era stata eliminata. Nel frattempo era stata “bannata” anche da Facebook. Sono rimasta di stucco. Il motivo della censura? La foto non era conforme agli standard dell’applicazione”. Un po’ l’equivalente social dell’ “oltraggio al comune senso del pudore”.
Claudia ha protestato: “Avete rimosso un’immagine positiva a favore della lotta contro il cancro al seno. Complimenti! Mi sforzo, mi scervello ma proprio non riesco a capire cosa ci sia di scandaloso in questa foto. È questa la nuova libertà?”. Subito dopo ha ricondiviso la foto “incriminata” su Facebook, e come lei hanno fatto anche altri, e a sua volta qualcuno di loro ha ricevuto una segnalazione per “contenuti inappropriati”.
Negli ultimi tempi Instagram, la più popolare app di condivisione immagini (dal 2012 è di proprietà di Facebook), sta conducendo una crociata contro gli scatti e i contenuti osé o esplicitamente erotici. A pagarne le conseguenze anche celebrities come Madonna e Rihanna. Eppure basta farsi un giro di smartphone per trovarci di tutto, sia su Instagram che sulla casa-madre Facebook. Escort, hashtag scopertamente sessuali, devianze e parafilie varie, elogi a Sara Tommasi&Andrea Diprè (840 mila mipiace su Fb quest’ultimo), autori del video e “hit”, da bassissimo impero “Nel mio privè” (ritornello: “vieni anche tu, nel mio privé/coca e mignotte, anche per te”).
Senza dimenticare il proliferare inesauribile di bufale, sarabande nazi-fascistoidi e insulti al comune senso del buon gusto, e dell’intelligenza. “Facile e anche un po’ ipocrita, poi, una tantum, travestirsi d’arcobaleno” commenta Alice Lizza, conduttrice di Offline, la trasmissione tv (dal 16 luglio in seconda serata su Rai2) in cui saranno trasmessi i filmati originali censurati. Offline ha girato gli States, l’Europa e l’Italia per intervistare, tra gli altri, Zach King (“l’illusionista di Vine”), David LaChapelle, Milo Manara, Paul Budnitz (inventore del social alternativo Ello), l’artista Vanessa Beecroft, Sebastian Chan (l’uomo che sta rivoluzionando i musei rendendoli “usb friendly”), Lorenzo Thione (l’italiano che ha creato il motore di ricerca Bing), Tanino Liberatore, Maccio Capatonda, Caparezza e Linus. Quattro puntate che racconteranno come la società e le interazioni umane stanno cambiando per effetto delle reti sociali che corrono su Internet. Un viaggio intorno ai nuovi modi di vivere nell’era dei social network e del full-time online. Una navigazione fisica nel mondo del progresso, o presunto tale.
Maurizio Di Fazio
Foto di Claudia Ferri
Minima e Moralia
11 05 2015
Lo scorso 27 aprile, mentre Teju Cole, Rachel Kushner e altri scrittori ritiravano la propria partecipazione dal galà del PEN in seguito alla decisione del comitato di assegnare il Toni and James C. Goodale Freedom of Expression Courage Award per il 2015 alla redazione di Charlie Hebdo, in un’altra parte della galassia, e con molto meno clamore, io perdevo una collaborazione di lavoro con una testata per aver manifestato tramite un tweet la mia perplessità nei confronti degli insulti che questi scrittori stavano ricevendo: è una circostanza strana quella di dileggiare la libertà di opinione altrui quando lo si fa per difendere la libertà di opinione di chi nell’esercizio di questa pratica è morto.
Ora, un direttore ha il diritto di selezionare e scartare ogni collaboratore nella maniera che preferisce o per le ragioni che ritiene più opportune, anche per un tweet di cui non condivide il contenuto. Il collaboratore, dalla sua, ha la facoltà di raccontare la propria esperienza, soprattutto se questa svela alcuni meccanismi che ritiene di interesse comune.
Quello che vorrei fare è analizzare questo episodio non per erigermi a paladina della libertà di opinione, battaglia che non posso permettermi e che troverei fuori proporzione. Credo, tuttavia, che sia rivelatorio di una serie di fragilità a cui chi fa il mio mestiere si ritrova esposto, soprattutto se è molto presente sui social network.
Quello che mi lascia perplessa non è la conclusione di un rapporto che non posso definire neanche di lavoro. In un contesto editoriale in cui incarichi, regole e compensi sono spesso informali, la mia presenza su quella rivista era una “consuetudine”: a loro piacevano i miei articoli, a me piaceva scriverci.
Prima o poi poteva finire: il giornalismo è un ambiente promiscuo e pur divertendomi su quelle pagine, mi era chiara la natura transitoria del mio passaggio, se non altro per ragioni di banale turnover. Forse nel lungo periodo ci saremmo sentiti a disagio entrambi, forse i miei pezzi sarebbero risultati sempre più stanchi e insoddisfacenti.
Non ho mai pensato che scrivere per questa rivista implicasse il mio allineamento ideologico, tanto più che la linea editoriale era spesso agli antipodi del mio pensiero politico e sociologico. Ciò non ha impedito che scrivessi gli articoli che volevo e non ho mai subito censure. Per questo è disorientante che la libertà di cui godevo nei miei pezzi – per farla breve in quello per cui venivo pagata – fosse una libertà sconveniente fuori, nel mondo di Twitter, in una sfera che non era sotto la giurisdizione della testata, non era definita da un rapporto economico ed esulava dalla conversazione direttore-collaboratore.
Sul mio profilo Twitter non c’è scritto «views are my own»: uno perché la dicitura mi fa sorridere, due perché non ritengo che sia sufficiente a proteggermi. Può avere senso per un editorialista forte, legato da un contratto formale a una testata che ha interesse a limitare il suo raggio di azione o ad affrancarsi dalle sue opinioni, ma questo non era chiaramente il mio caso. Né per fama, né per situazione contrattuale (non mi veniva corrisposto un compenso per rappresentare la testata online, ma per recensire libri): io ero, come tanti altri collaboratori, una consuetudine.
La domanda è: sapendo a cosa sarei andata incontro avrei detto lo stesso la mia sulla decisione del PEN? La risposta onesta è no. Me lo sarei risparmiato. Avrei tutelato una fonte di reddito, l’avrei protetta; vivo in uno stato di necessità e devo difendermi. Se le regole fossero state chiare, mi sarei comportata di conseguenza. È una questione di responsabilità: vorrei essere sempre padrona delle mie scelte, sapere cosa rischio e cosa no. Ma come si tutela un collaboratore quando il contesto è opaco e le informazioni di cui dispone sono poche?
In uno scenario editoriale in cui le risorse sono limitate, allocate secondo una vasta gamma di criteri che vanno dal talento al merito, dal favore alla precettazione, senza che la nostra lettura del sistema sia univoca, senza che sia possibile trarne delle regole, il fatto di aver collaborato con una delle poche testate che paga regolarmente ha una discreta influenza sul modo in cui questo episodio viene assimilato e affrontato. Introduce un elemento di condizionamento – quello del compenso in uno scenario competitivo – che mi impedisce di rinnegare quel luogo, quel modo di fare giornalismo, perché per un anno me ne sono servita. Ed è anche per questo che vorrei si evitasse di strumentalizzare la questione come una guerra tra due schemi ideologici e professionali opposti, perché non lo è, o non del tutto.
La mia sensazione, a giorni da quanto accaduto, è che siamo tutti più deboli e scoperti di quanto ci piaccia pensare.
Parlando con i miei colleghi, ho riscontrato reazioni tutte a loro modo interessanti: solidarietà, raccapriccio, ironia, disagio per la propria vicinanza alla sottoscritta, timore di dover fare gesti eroici al seguito, coraggio, ilarità pura, indignazione, incredulità, inviti a lasciar perdere, «quel direttore deve essere punito», «quel direttore deve essere lasciato in pace», «quel direttore ti fa trovare la testa di cavallo nel letto», «quel direttore può fare quello che gli pare», conversazioni che nel più cupo dei casi ricordavano le macchinazioni di House of Cards e nel migliore quelle dell’Ordine della Fenice per far fuori Voldemort. Finché non ho capito che la storia non era quella.
La storia è che viviamo in un momento professionale in cui non ci sentiamo abbastanza forti o convinti da difendere un’idea o un principio per i quali cui abbiamo iniziato a fare questo mestiere – o quantomeno molti di noi lo hanno fatto – il che aumenta la consapevolezza di quanto sia ironico difendere la libertà di opinione di Charlie Hebdo quando siamo sottoposti a una serie di condizionamenti o di paure molto più immediati e di rifiuti per l’opinione altrui molto più epidermici e istintivi.
Cerco di non di ridurre la questione a me, a questa testata particolare e al suo direttore.
Penso che sarebbe in qualche modo inopportuno se andasse così, e avrei parzialmente fallito gli intenti di questo articolo, o come vogliamo chiamarlo.
E quindi? E quindi quella rivista andrà avanti secondo la linea editoriale che il direttore ritiene più consona, nella sezione culturale continueranno a scrivere firme che stimo e io continuerò a collaborare con altri giornali.
Restano però delle domande, che fino a qualche giorno fa non mi ponevo.
Nell’ovvia asimmetria di potere tra direttore e collaboratore, in un contesto arbitrario e opaco che espone un giornalista a una fragilità estensiva, fino a che punto il collaboratore deve essere responsabile delle proprie opinioni? Qual è il limite del suo raggio di azione, del campo in cui ci si aspetta che tale collaboratore sia questa cosa o quest’altra cosa ancora?
Per citare Conrad che non sapeva come spiegare alla moglie che anche mentre guardava dalla finestra stava lavorando, come facciamo a dimostrare che quando stiamo su Twitter o Facebook NON stiamo lavorando? E questo è sempre vero? Come si regolano dinamiche del genere?
Il tuo comportamento in rete fa sì che tu possa essere selezionato ed espulso dal sistema dell’informazione. È la stampa bellezza, e questa storia non è la mia perdita dell’innocenza: quella, se avessi voluto preservarla, avrei fatto un altro mestiere. Ma è sicuramente una storia che mi spingerà a essere più cinica e calcolatrice, quando credevo di esserlo diventata già abbastanza; un episodio che affligge il residuo marginale di ideale con cui affronto la pratica giornalistica, seppure in maniera informale.
E, soprattutto, è una storia che mi spinge a pensare che io Twitter devo continuare a usarlo per postare le foto dei posti fichi in cui sono stata e dei libri interessanti che ho letto.
Nel dirlo mi rendo conto di aver perso qualcosa.
Spero di non metterci anni a capire cos’è, e di non deprimermi troppo nel frattempo, nella consapevolezza che fa parte del gioco e posso accettarlo.
Prima, però, devo capire che si tratta di un gioco.