#Firenze: “la Ragazza della Fortezza siamo noi”

  • Martedì, 28 Luglio 2015 10:04 ,
  • Pubblicato in Flash news

Abbatto i muri
28 07 2015

La discussione, interessante, complessa, difficile, sulle motivazioni della sentenza che assolve, con sentenza definitiva, sei persone dal reato di stupro di gruppo nei confronti della Ragazza della Fortezza, non è ancora finita. Ho ricevuto e pubblicato la lettera della ragazza, il testo della sentenza, la lettera di una delle persone assolte. Ho formulato analisi e ora, alla vigilia della manifestazione fiorentina, accolgo il contributo di Alessandra Pauncz, psicologa e psicoterapeuta, fondatrice a Firenze del C.a.m. (Centro ascolto uomini maltrattanti). Buona lettura!

>>>^^^<<<
La Ragazza della Fortezza siamo noi

di Alessandra Pauncz

Come spesso accade con le situazioni di violenza, la difficoltà e quella della distanza da cui guardiamo ai fatti.

Chi di noi non ricorda una serata goliardica ed alcolica recente o passata. Situazioni con gruppi di ragazzi, alcuni conosciuti, altri meno, in cui alcool ed erotismo si mischiano al salmastro di notti estive che rinfrescano giornate torride.
Di flirt più o meno spinti con più di un ragazzo/a che a fine serata possono evolvere in avventure. Dove c’è una certa fluidità ed intercambiabilità sull’esito della serata.
Occasioni in cui si dicono dei sì e si dicono dei no, che se non vengono rispettati fanno di noi la ragazza o i ragazzi della Fortezza.

Forse dovremmo partire dalla vicinanza con nostre storie simili, piuttosto che da una posizione di distanza nel guardare a questa vicenda. Le verità processuali hanno meccanismi propri che spesso si allontanano dall’esperienza soggettiva di chi interpreta i ruoli di accusa e difesa. La dicotomia legata all’innocenza e alla colpevolezza catalizza la nostra attenzione distogliendoci da noi stessi. Siamo noi le vittime? Accusati ingiustamente? Siamo noi le vittime? Aggredite brutalmente? Nei commenti e nelle riflessioni lette in questi giorni spesso mi domando: a quali degli episodi della tua vita stai connettendo questa storia?

Ecco quello che leggo io dalla sentenza di assoluzione.

La Ragazza della Fortezza era con persone che considerava amiche. Forse anche qualche cosa di più. Aveva avuto un rapporto nel pomeriggio con uno di loro e avevano girato un film insieme. Erano persone di cui si fidava. Con loro ha passato una serata che fino ad un certo punto è stata goliardica, alcolica, lasciva e divertente. Hanno flirtato ed ammiccato e si sono avviati ad una fine serata su di giri. Quando è uscita dalla fortezza appoggiata agli amici perché molto alticcia e anche a cause delle avances entranti dei ragazzi, una ragazza le ha chiesto se aveva bisogno di aiuto. Lei ha scherzato e risposto di no. Ovvio! Poteva essere consenziente oppure infastidita dal loro atteggiamento, ma all’insegna della serata non era il caso di drammatizzare…perché si fidava! Erano amici.
Perché ha chiamato al telefono l’amico che si era perso all’uscita? Perché era un amico ed è così che si fa tra gli amici: ci si cerca e ci si protegge.

Quello che è successo dopo è un’altra storia. L’eccitazione dei ragazzi li ha portati a pensare di poter usare il corpo della ragazza come se fosse una “cosa” inerme. Non c’era più l’amica e nemmeno la persona, ma solo un oggetto sessuale. Indipendentemente dal fatto che lei non rispondesse in alcuno modo (ci si concentra molto sul quanto abbia opposto resistenza, ma poco sul quanto avesse espresso consenso). Nel racconto lei ha parlato di essersi sentita in pericolo di vita e di aver perso conto di quello che stava succedendo. Chi è familiare con la violenza sessuale sa che spesso le vittime hanno degli episodi di dissociazione quando subiscono la violenza. Significa che per proteggersi da quello che avviene la mente ha un momento di black out. Non si pensa, non si ricorda. Chi subisce una violenza può avere una risposta involontaria di totale passività, perché percepisce l’azione sessuale non consensuale come un pericolo di vita e la risposta istintiva diviene la sopravvivenza. Per sopravvivere si attiva una parte primitiva del cervello che paralizza le risposte cognitive e comanda l’immobilismo o la fuga. Dopo i fatti, molte vittime si sentono in colpa per non aver reagito, senza rendersi conto di quali dei gesti e delle azioni commesse ha trasmesso loro il senso di pericolo di vita. Invariabilmente ci sono, ma qualche volta, con il senno di poi, potendo ragionare sugli eventi (senza il pilota automatico) tali minacce possono apparire in una luce diversa.
Alla luce di questo è perfettamente compatibile che una persona non sappia dov’è quando esce dalla macchina, se la violenza è avvenuta nel posto X o nel posto Y, se erano 6 o 7, se la bici era legata da una parte o dall’altra, se la telefonata è avvenuta alle 4 o alle 4.40.

Se dopo una serata ad alto contenuto alcolico e sessuale con amici di cui mi fido, all’improvviso si cambia registro e mi ritrovo bloccata nel retro di una macchina con comportamenti ed atteggiamenti minacciosi che mi fanno sentire in pericolo di vita per cui momentaneamente e per ragioni che non capisco razionalmente sono completamente passiva e lontana, per poi riprendermi ad un certo punto, urlare basta ed allontanarmi, non è strano che faccia confusione su dettagli del tutto irrilevanti.
“Esisto. Nonostante abbia vissuto anni sotto shock, sia stata imbottita di psicofarmaci, abbia convissuto con attacchi di panico e incubi ricorrenti, abbia tentato il suicidio più e più volte, abbia dovuto ricostruir a stenti briciola dopo briciola, frammento dopo frammento, la mia vita distrutta, maciullata dalla violenza: la violenza che mi è stata arrecata quella notte, la violenza dei mille interrogatori della polizia, la violenza di 19 ore di processo in cui è stata dissezionata la mia vita dal tipo di mutande che porto al perché mi ritengo bisessuale…”

Non c’è assolutamente niente di anomalo o strano nell’ incoerenza del suo racconto. Sarei molto più sospettosa se si ricordasse tutto per filo e per segno, avesse segnato sull’agenda l’orario ed il tragitto dell’auto. Sapesse declinare alla perfezione le generalità di tutti convenuti, con l’orario di convocazione allo stupro, la prestazione effettuata e l’orario preciso di chiusura lavori.
E’ quindi ovvio che ci siano “29” incongruenze (anche se l’unico aspetto veramente grave è che sia stato accusato ingiustamente un ragazzo che non c’era. Le altre confusioni ed informazioni mi scuseranno i detrattori della ragazza, ma mi sembrano incredibilmente triviali. Perché mentire su questi aspetti?).

E’ ovvio che abbia trasmesso il suo vissuto di paura al pronto soccorso e poi nei verbali di denuncia, è compatibile che non ci fossero particolare segni di violenza riscontrati al Pronto Soccorso perché è riuscita ad evitare la violenza con la passività del pilota automatico della sopravvivenza.
Le reazioni della ragazza sono del tutto conformi a quanto ci dicono le evidenze scientifiche succeda nei casi di violenza sessuale. Senza alcun bisogno di interpretare.
In sentenza invece si interpreta in modo non solo poco ovvio, ma francamente contorto.
L’idea che una parte della poca attendibilità della Ragazza della Fortezza derivasse da “un atteggiamento sicuramente ambivalente nei confronti del sesso, che evidentemente l’aveva condotta a scelte da lei stessa non pacificamente condivise e vissute traumaticamente o contraddittoriamente, come quella di partecipare dopo il fatto ad un “workshop” estivo denominato ‘Sex in Transition’ o prima del fatto di interpretare uno dei film “splatter” del regista amatoriale intriso di scena di sesso e di violenza che aveva mostrato di ‘reggere’ senza problemi” è francamente non giustificabile.

Ad essere messe sotto scrutinio sono la sua sessualità e la libera espressione di questa con dettagli di vita personale e le sue decisione di partecipare liberamente ad atti sessuali.

Questo non dovrebbe avere il benché minimo peso sulla ricostruzione dei fatti in oggetto.
Una parola a parte per i ragazzi. Nel dare l’interpretazione più benevola possibile alle loro azioni, posso dire, che al termine di una serata connotata da alcool e ammiccamenti hanno pensato che la persona con cui erano potesse essere consenziente. Hanno poi completamente staccato la testa ed i sentimenti da quello che stava davvero succedendo e non hanno guardato alla persona, ma hanno visto un oggetto sessuale inerme. Fosse stata una bambola gonfiabile sarebbe stato uguale. Così facendo hanno tradito la fiducia di una amica e probabilmente si sono sentiti in colpa dopo.

Il 28 dovremmo schierarci con lei perché la sua storia potrebbe essere la nostra.
Siamo tutti coinvolti e siamo tutti responsabili.

Dobbiamo batterci perché viviamo in una cultura che stigmatizza la libertà sessuale femminile. Che vuole imporre un codice morale eterosessuale e normativo a come le persone devono vivere la propria sessualità.

Dobbiamo batterci per una cultura del rispetto delle persone che valorizzi il consenso espresso dai sì e dalla piena partecipazione alle pratiche sessuali. Una cultura che nutra l’espressione di una sessualità maschile che possa esprimersi con ricchezza, che sia sempre ben consapevole della propria forza, che veda sempre nel consenso e nella mutualità la base di ogni scambio sessuale.
Dobbiamo cambiare la cultura per permettere alle nostre figlie di esprimere liberamente la loro sessualità ed insegnare ai nostri figli a fermarsi senza un sì.

La Nigeria bandisce le mutilazioni genitali femminili

  • Mercoledì, 01 Luglio 2015 11:15 ,
  • Pubblicato in INGENERE

Ingenere
01 07 2015

La Nigeria bandisce le mutilazioni genitali femminili vietandole con un disegno di legge, incluso nell'ambito della violenza contro le persone, che è stato approvato in Senato il 5 maggio e recentemente convertito in legge. Sono più di 100 milioni nel mondo, secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, le donne che hanno subito mutilazioni genitali, circa 3 milioni le bambine a rischio ogni anno in Africa, uno degli stati più coinvolti da questa pratica insieme a Medio Oriente e alcune regioni dell'Asia e dell'America Latina.

Ma quella delle mutilazioni genitali femminili è una questione che riguarda anche l'Europa: il parlamento europeo ha stimato che sono circa 500 mila le donne e le bambine coinvolte che vivono sul territorio europeo, altre 180 mila sono a rischio ogni anno. Le conseguenze sono forti non solo in termini sociali ma prima ancora di salute: emorragie, infezioni batteriche, ferite aperte, e, a lungo termine, anche infertilità, complicazioni del parto e infezioni ricorrenti.

Con una legge che criminalizza questa pratica la Nigeria, dove si stima che a subirla sia il 25 per cento delle ragazze e delle donne di età compresa tra 15 e 49 anni, compie quindi un passo storico per auspicarne la completa eliminazione. Con l'hashtag #VAPPBill (dal nome della legge in questione: Violence Against Persons Proibition Bill) su twitter si susseguono entusiasti i post a sostegno del provvedimento preso dal presidente uscente, Goodluck Jonathan.

Ma il cambiamento non avverrà dal giorno alla notte mette in guardia Stella Mukasa, direttore di genere, violenza e diritti presso il Centro Internazionale per la Ricerca sulle Donne che ha sede a Washington, che dalle pagine del Guardian dichiara:"È fondamentale lo sforzo per cambiare la visione tradizionale culturale che è alla base della violenza contro le donne. Solo allora questa pratica dannosa potrà essere eliminata". "L'istruzione è fondamentale, e deve lavorare in collaborazione con sistemi scolastici" continua Mukasa, e poi, la ricerca. "Produrre nuove prove è cruciale nel rafforzare le risorse per attuare le disposizioni legislative, fornire i servizi sanitari e di assistenza sociale, e incoraggiare le comunità ad allontanarsi da norme sociali che sostengono la violenza" spiega Mukasa, che rcorda come a vent'anni dalla dichiarazione di Pechino "dare priorità ai diritti e al benessere delle donne e delle ragazze è attesa da tempo. Violare il loro diritto a una vita sicura e produttiva non solo ha un profondo effetto su di loro, ha un impatto su ciascuno di noi." Leggi tutto il commento sul Guardian.

Il Corriere della Sera
10 06 2015

All’alba manca uno spruzzo di notte. Dalla campagna ancora avvolta nel buio una folla silenziosa si riversa nei viottoli deformati dalle buche. Nelle serre di Vittoria, in provincia di Ragusa, si comincia a lavorare presto la mattina perché alle 12 l’aria brucia e la temperatura sfiora i 50 gradi. Poi qualcuno torna ai campi nel pomeriggio. E se c’è da fare si sgobba anche 10, 12 ore al giorno. Sono per il 70% stranieri, perché gli italiani costano di più. In tutto sono 13.240, 4.349 sono rumeni, e di questi 1.800 sono donne. Le hanno chiamate «schiave delle serre», perché oltre allo stipendio da fame, molto spesso subiscono ricatti, pressioni, spesso vero e proprie molestie da parte di datori di lavoro che sentendosi al sicuro, protetti dal silenzio dei campi e dalla condizione di totale subalternità delle proprie vittime, si spingono in qualche caso fino alla molestia, o addirittura allo stupro.
Anche la giornata di Erika (nome di fantasia) cominciava molto presto la mattina. E andava avanti per tutto il giorno, a sgobbare sui filari di pomodori, tra le melanzane e i meloni. Poi la sera, esausta, doveva subire l’arroganza del padrone: «Ero lì nella sua azienda da quattro mesi. Aspettò di essere solo, che la moglie fosse lontana, in paese. E così si approfittò di me». Ha più di 45 anni, il volto è consumato dalla fatica, rigato dal sole. Eppure Erika conserva una sua dolcezza quasi adolescenziale. Per sei anni ha subito in silenzio. Ha dovuto abortire quattro volte, lei vedova e madre di sei figli rimasti in Romania, a cui mensilmente manda quasi tutto ciò che guadagna: «Da lui mai un aiuto, mai neppure una parola di incoraggiamento. Neanche un cane si tratta così». Per interrompere la gravidanza in tre casi è tornata in Romania, un viaggio di 60 ore in pullman. La quarta volta si è dovuta arrangiare da sola, con l’acqua calda, rischiando la vita. Una situazione che forse l’accomuna alle altre 94 donne rumena che nel 2014 hanno deciso di non portare a termine la gravidanza, un numero molto altro se si considera che gli aborti tra le straniere in totale sono stati 454. «Mi è dispiaciuto tanto - racconta - ma non potevo tenerli. Come facevo? Ho già altri bambini da mantenere».

Nelle campagne tra i comuni di Vittoria, Santa Croce Camerina e Acate non esiste trasporto pubblico. Per ogni spostamento, per le medicine, per l’assistenza legale, i braccianti stranieri dipendono dal proprio datore di lavoro. Quello che si crea è un vincolo di assoluta dipendenza. Psicologica ma anche e soprattutto fisica. «Pretendeva di controllare ogni mio spostamento. Mi tempestava di telefonate se non mi trovava nella mia stanza», spiega Erika.Una notte, esausta, ha tentato la fuga: «Da allora non mi ha dato tregua, fino a quando mi ha ritrovata. Mi ha riportato indietro e mi ha mostrato la sbarra di ferro con cui, mi ha detto, mi avrebbe spaccato la faccia. La notte stessa sono scappata di nuovo, ma sono inciampata nel filo di ferro che aveva teso proprio all’uscita della mia baracca e mi sono ferita. Il giorno dopo, nella serra, mi ha visto dolorante. E senza pietà mi ha riso in facciao: che fai, non lavori oggi? Mi ha detto»

Solo i carabinieri della compagnia di Ragusa sono riusciti a salvare Erika dal suo padrone. Guidati dal tenente David Millul, e grazie alla costanza del maresciallo Valenzisi, il comandante della stazione che ha raccolto la prima informazione da una fonte confidenziale, hanno radunato le prove e finalmente fatto irruzione nell’azienda dell’uomo, ora detenuto con l’accusa di violenza sessuale e sequestro di persona. La vicenda di Erika, per quanto estrema, non è probabilmente l’unica. I racconti di violenze e abusi subiti nelle serre si rincorrono. Ma sono voci. Le denunce restano pochissime. Ci sono state le inchieste sociologiche, i reportage dell’«Espresso» e del Corriere della Sera hanno acceso i riflettori su questa realtà. «La comunità rumena è estremamente riservata», spiega Giuseppe Scifo, segretario della Flai Cgil, e punto di riferimento «sindacale» per centinaia di braccianti a Vittoria e dintorni. «Si tratta di una presenza creatasi negli ultimi anni - aggiunge il sindacalista - Nei registri Inps del comune di Vittoria, nel 2006 erano annoverate 30-40 lavoratori rumeni. Nel 2007 erano già 1200. Oggi, in tutta la provincia, se ne contano 4.300». Chiusi, diffidenti nei confronti dell’istituzione, difficilmente si aprono e raccontano i propri problemi. Per avvicinarli la Cgil in collaborazione con una associazione che lavora proprio nel campo dell’assistenza alle lavoratrici, ha attrezzato un pullmino che attraversa i campi e accompagna le donne avanti indietro. E tra una buca e l’altra, lungo le stradine polverose che irradiano questa immensa distesa di serre, sono riusciti a prendere i primi, difficoltosi contatti con le vittime.

Ingenere.it
08 06 2015

"Ni una menos", neanche una in meno, è lo slogan rilanciato da un gruppo di giornaliste da un testo di Susana Chavez ("Ni una mujer menos, ni una muerta más"), poeta e attivista messicana uccisa nel 2011 per aver denunciato i crimini e le violenze di genere contro le donne messicane. Un hashtag che ha fatto il giro del web diventando trending topic su twitter tra gli account argentini, messicani, cileni e uruguaiani, fino a rendere virale una mobilitazione che è sfociata in piazza a Buenos Aires, ieri, con centinaia di migliaia di persone presenti.

Al centro, la condanna della società civile nei confronti dei casi di femminicidio sempre più frequenti riportati dalla cronaca. Ultima la vicenda di una ragazza di quattordici anni uccisa a pugni dal fidanzato e seppellita in giardino con l'aiuto dei genitori di lui. Nel paese sono 277 le donne uccise per mano di un uomo - una ogni 30 ore - nella maggior parte dei casi mariti, ex, amanti e familiari. A tenere il conto è La casa del encuentro tra i promotori della giornata di mobilitazione, un centro nato nel 2003 a Buonos Aires con l'ambizione di elaborare un progetto femminista per i diritti umani di tutte le donne, i bambini e gli adolescenti.

"Non possiamo continuare ad assistere a questo carosello di morti di donne senza esprimere il rigetto che si è manifestato ieri, in pace, senza populismi, senza regressione culturale. La manifestazione 'Neanche una in meno', è stata espressione di una società dalle fondamenta solide e democratiche. Ci sono stati tanto gli uomini quanto le donne. Ci sono state madri e bambini e bambine. Coppie, organizzazioni, persone singole, magliette stampate e manifesti fatti con pennarelli e matite" racconta Sandra Russo su Pàgina12 "è un 'non ucciderai' culturale che dobbiamo sviluppare insieme comprendendo che le frustrazioni maschili possono prendere tante strade ma mai il corpo di una donna. E comprendendo anche che la violenza che culmina con il femminicidio non nasce dal nulla, né germoglia per generazione spontanea o come un accesso di crudeltà senza spiegazione. Il femminicidio ha una spiegazione. E inizia a germoglliare laddove il corpo delle donne è considerato oggetto di consumo, è commercialmente separato dal suo essere, ed è esposto visto e percepito come un contenitore da usare per il proprio piacere o come secchio dei rifiuti della personalità di un altro. Il femminicidio germoglia laddove un uomo o una donna sono convinti che gli uomini hanno la priotità o la supremazia sulle donne. Che il loro punto di vista conti di più, che la loro volontà pesi di più, che le loro qualità siano migliori. Il femminicidio prende piede a partire dal fraintendimento culturale che abbiamo deciso come paese di condannare collettivamente. Questa giornata può essere un aneddoto se si diluisce. O la rifondazione della nostra idiosincrasia. Per quest'ultima bisogna continuare a insistere".

Redattore Sociale
26 04 2015

FIRENZE – Sessanta donne uccise in 9 anni. E negli ultimi quattro anni seimila bambini hanno assistito a episodi di violenza in famiglia. Sono i drammatici numeri della violenza di genere in Toscana. Numeri contro cui si è concentrata la lotta della Regione Toscana con la vicepresidente e assessore alle politiche sociali Stefania Saccardi: “Sul fronte dell’emergenza, abbiamo sostenuto i centri antiviolenza e le case rifugio per le donne maltrattate con un finanziamento di 760mila euro. Per quanto riguarda l’azione culturale, abbiamo impegnato quasi 900mila euro per la promozione delle pari opportunità tra uomo e donna a tutti i livelli”.

La Toscana è stata la prima regione italiana a pubblicare le informazioni relative alla destinazione dei fondi governativi sulla violenza di genere arrivati dallo Stato. “La violenza sulle donne – ha aggiunto Saccardi - è diventata tragica cronaca da poco, ma in realtà viene da lontano, lontanissimo. Sia nel senso che purtroppo non è una novità (solo che in passato non se ne parlava o se ne parlava meno), sia nel senso che i femminicidi nascono da una tara culturale, da quelli che oggi si chiamano “stereotipi di genere” (io sono l’uomo e comando, la donna è mia proprietà). Sarebbe sbagliatissimo ridurre il fenomeno, una vera e propria strage, ad un problema sociale o semplicemente sanitario. Chi picchia una donna deve essere fermato e messo in condizione di non fare più male. Ma questo non basta. Serve un lavoro culturale, attento, costante e profondo”.

facebook