Sono più giovani e meno istruiti. Sono necessari meccanismi di integrazione
L'aumento dei flussi migratori e la maggior partecipazione degli stranieri al mercato del lavoro non rappresenta un pericolo per i salari e le prospettive occupazionali dei lavoratori italiani. La Banca d'Italia nella sua relazione annuale dedica uno specifico capitolo all'analisi delle conseguenze dell'immigrazione. È più che raddoppiato tra il 2003 e il 2008 il numero di stranieri residenti in Italia, passato a 3,4 milioni di persone, circa il 6 per cento della popolazione. Nel confronto con i principali paesi europei, gli immigrati residenti in Italia rappresentano una quota più bassa di popolazione e sono più giovani e meno istruiti. Nel triennio 2005-07 l'età media della popolazione straniera regolarmente residente era pari a 38 anni, simile a quella registrata in Spagna e molto inferiore a quella, superiore ai 50 anni, riscontrabile in Germania e Francia. Poco meno della metà della popolazione straniera residente, di età compresa tra i 25 e i 55 anni, é in possesso al più di un titolo di istruzione corrispondente all'obbligo scolastico, quota che é superiore di circa 16 punti rispetto alla media dei paesi dell'Unione europea. Ma solo il 15% ha un titolo di studio di livello universitario, contro una media europea attorno al 36 per cento.??Necessari meccanismo di integrazione. La componente straniera, sottolinea la relazione di Palazzo Koch, «contribuirà in misura significativa a definire il livello e la qualità futuri del capitale umano che sarà disponibile in Italia». Ed è per questo che «se non accompagnata da meccanismi efficaci di integrazione, questa rapida espansione aumenterà il già ampio divario nella dotazione di capitale umano del nostro paese nel confronto internazionale, poiché la popolazione scolastica straniera registra significativi ritardi che si manifestano già nella scuola primaria e si ampliano ulteriormente nei livelli scolastici successivi».??Pagano meno imposte, ricevono meno prestazioni. Le differenze nella struttura socio economica e demografica tra gli italiani e gli stranieri, spiegano ancora gli economisti di Bankitalia, «determinano significativi divari nei flussi economici da e verso la finanza pubblica. Gli immigrati pagano proporzionalmente meno imposte e ricevono meno prestazioni per previdenza e sanità».
29 MAGGIO 2009
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Economia%20e%20Lavoro/2009/05/banca-italia-immigrati.shtml?uuid=8caa7dae-4c48-11de-b287-ce5e90524180&DocRulesView=Libero
dal corrispondente Leonardo Maisano
LONDRA - La nomina avverrà il 2 giugno, ma l'indicazione non lascia spazio a sorprese. Lady Economist sarà la prima donna a guidare Cbi, la Confederazione dell'industria britannica. Helen Alexander, 51 anni, 3 figli, è stata scelta nei giorni scorsi, ma solo martedì prossimo l'assemblea dei soci la eleverà per un primo periodo di due anni alla postazione numero uno del mondo industriale inglese, allineando Londra a Parigi e Roma, già pilotate da presidenti al femminile. Helen Alexander infatti è destinata a seguire le tracce percorse prima da Laurence Parisot e poi da Emma Marcegaglia. Il suo arrivo - sostituisce Martin Broughton, presidente uscente di Cbi e guida di British Airways - compensa, metaforicamente, l'uscita dalla prima linea della vita economica finanziaria britannica di Clara Furse, fino alla scorsa settimana Ceo del London Stock Exchange. La storia professionale di Helen Alexander è però diversa da quella di dame Clara, che dopo gli studi alla London school of economics si è dedicata prevalentemente al mondo finanziario. L'editoria è, invece, il core business di Helen Alexander. O meglio il santuario dell'editoria britannica quale continua ad essere il settimanale The Economist, posseduto al 50% dal gruppo Pearson (Financial Times) e per l'altra metà da investitori privati. Nelle stanze di quello che è considerato il più influente magazine al mondo, Helen Alexander ha trascorso ventitrè anni, di cui undici da Ceo, contribuendo al raddoppio della diffusione del settimanale, che oggi vende 1,3 milioni di copie, di cui 1,1 milioni all'estero. Impermeabile alle crisi, di credito ed editoria, sulla scia di un'inattaccabile qualità che continua a spingere le vendite. Due decenni a cui lei stessa ha messo fine lasciando l'azienda editoriale un anno fa per dedicarsi alla Cbi (per qualche giorno ancora è vice presidente) una consulenza con Bain Capital e i consigli di amministrazione di Rolls Royce e Centrica dopo aver frequentato quelli di British Telecom e Northern food. Le voci della City dicono si sia fermata qualche tempo in attesa, quando capiterà se mai capiterà, di puntare alla poltrona numero uno di Pearson, occupata da Marjorie Scarandino. Null'altro che ipotesi, piuttosto inevitabili vista la carriera di Helen Alexander. In un'intervista al Financial Times nei giorni scorsi ha sottolineato la necessità di aprire di più le società al management femminile e ad executive con background diversi per uscire da logiche chiuse e monoculturali. La prossima leader degli industriali inglesi ha anche indicato la sua priorità per rilanciare un'economia che soffre più del resto d'Europa: ristabilire il flusso di credito alle imprese. "Tasse e regole - ha aggiunto - sono importanti, ma la priorità per dare prospettiva e consistenza alla ripresa ä garantire circolazione al credito". Che pure, negli ultimi mesi è migliorato rispetto alla stretta di dicembre-gennaio. Ma non abbastanza per la complessa congiuntura economica, ma anche politica culturale che fa della Gran Bretagna la realtà più intricata da sbrogliare e pió difficile da rilanciare, sbilanciata com'è sul fronte dei servizi finanziari e debole su quello manifatturiero.
28 MAGGIO 2009
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2009/05/londra-lady-economist-guida-industriali.shtml?uuid=ff8b3a12-4b52-11de-8cae-568b4a1407d9&DocRulesView=Libero
27 MAGGIO 2009
di Mario Margiocco
Un solo paese ha la ricerca della felicità inscritta nella Costituzione come un diritto inalienabile, ma le donne d'America nonostante questo diritto hanno perso terreno rispetto a 35 anni fa. Non solo, anche le donne di altri 12 paesi, quasi tutte, Italia compresa, hanno dovuto arretrare. Più scuola e università, più lavoro spesso appagante, più visibilità e peso negli affari un tempo tutto maschile, più politica, più ruolo insomma, e meno felicità.??Sono alcuni anni che il robusto filone della happiness economics, a cavallo tra economia, sociologia e psicologia, scava nell'animo oltre che nel portafoglio e l'ultimo saggio di questa scuola ci dice che le donne americane non sono felici. O meglio, sono meno appagate degli uomini, mentre un'infinità d'indicatori quantitativi dovrebbero poter concludere che sono più felici. «La misurazione del benessere soggettivo delle donne indica un calo sia in termini assoluti sia relativamente agli uomini», dicono Betsey Stevenson e Justin Wolfers, due economisti della Wharton School dell'Università di Pennsylvania, la più antica e fra le migliori business school americane. Pubblicato adesso dal National bureau of economic research, lo studio s'intitola The paradox of declining female happiness. Conferma una tendenza misurata già da qualche anno. E contraddice la diffusa idea che a un maggior peso nella società e nel lavoro corrisponde più felicità.??I criteri della ricerca ?La felicità, si chiedeva Albert Camus, che cos'è la felicità se non la semplice armonia tra l'uomo - la donna in questo caso - e la vita che conduce? Lo studio di Stevenson e Wolfers non definisce la felicità, ma la misura attraverso l'utilizzo dei dati della Gss (General social survey), della Monitoring the future survey, di altri indagini sistematiche e a campione e, per l'Europa, di Eurobarometro.
I concetti presi in esame sono quelli di benessere soggettivo, soddisfazione nella vita e felicità. Il benessere soggettivo è aumentato in molti Paesi, e l'Italia ha visto, dice lo studio, un particolare incremento. Ma alla fine la felicità delle donne rispetto a quella degli uomini è diminuita ovunque, in modo più sensibile negli Stati Uniti, e con unica eccezione, dicono alcuni dati, la Germania.??Un libro del 1989, che ebbe largo impatto e s'intitolava The Second Shift (Il secondo turno), ricordava che le donne avevano acquisito sì posizioni di rilievo, ma una volta rientrate a casa dovevano incominciare un secondo turno. Oggi la soddisfazione finanziaria è diminuita per le donne, che sempre di più gestiscono le finanze familiari, perché tutto il ceto medio è arretrato. La soddisfazione nel matrimonio è diminuita, in modo pressoché uguale fra donne e uomini. Ma sono le donne ad averne risentito di più sul piano della felicità generale.??Una crescente e inarrestabile atomizzazione della società - difficoltà di comunicare e fare gruppo - potrebbe venir pagata più duramente dalle donne, sostengono Stevenson e Wolfers, parlando soprattutto del caso americano.
Uno dei più noti politologi americani, Robert Putnam, pubblicava nel '95 un articolo, e nel 2000 un libro dal titolo significativo, Bowling alone (Da soli al bowling), sulla crisi del tessuto sociale e la perdita di un capitale civico. «Una lunga generazione civica, nata nei primi 30 anni del XX secolo, si sta ora ritirando dalla scena - scriveva Putnam -. I loro figli e nipoti sono molto meno impegnati in forme di relazione sociale». E le donne, si direbbe, ne avvertono più degli uomini la mancanza. Volendo stendere lo sguardo più indietro, osservazioni analoghe, brevi e impressionistiche, precise tuttavia e preveggenti, venivano fatte molto tempo prima, a metà degli anni 30, da George F. Kennan, allora diplomatico non ancora famoso, da sempre sospettoso della modernità. Durante un viaggio in bicicletta nel suo Wisconsin osservava come l'automobile avesse ridotto i contatti sociali in America rispetto a un'Europa che ancora viaggiava insieme, s'incontrava nei locali vicino a casa, viveva una vita di comunità che ancora oggi - si può aggiungere - meglio resiste forse alla solitudine di massa.??Non basta, tuttavia, a evitare che anche in Europa la felicità della donna sia in declino. Sono gli uomini in Europa ad avere retto meglio e con più soddisfazione a un miglioramento del benessere soggettivo e della soddisfazione nella vita - cresciuti, indicano i sondaggi di Eurobarometro, ovunque - con l'unica eccezione di un piccolo calo in Grecia e di uno più significativo in Belgio.
Le donne, invece, negli ultimi 30 anni hanno fatto registrare un tasso di felicità decrescente, più o meno uniforme in tutti i paesi a differenza della Germania, dove però potrebbe trattarsi in parte di rilevazioni disomogenee, visto che il gender gap di felicità fra uomini e donne viene registrato da Eurobarometro, ma non dal Gsoep, un database tedesco attivo dal 1984. ??«Credo che un dato innegabile per le donne sia il cumulo d'impegni, sul lavoro e a casa - osserva Marta Dassù, direttore dell'Aspen Institute Italia -. C'è poi da aggiungere che in Italia, e forse anche altrove in Europa, all'impegno con cui molte donne affrontano la vita professionale non corrispondono risultati analoghi a quelli di molti uomini, e si rischia di fare molta fatica con scarso costrutto».
Lo studio di Stevenson, una docente di 38 anni, e Wolfers, 36 anni, aggiunge dati europei e aggiorna un filone che gli stessi due autori avevano inaugurato più di due anni fa. Già nel 2007 avevano registrato che, rispetto ai primi ai primi anni 70, i ruoli si erano invertiti. Più felici allora le donne, più felici nel nuovo millennio invece gli uomini. Alan Krueger, un economista di Princeton, documentava sempre due anni fa che gli uomini erano riusciti rispetto agli anni 60 a ridurre le attività meno gradevoli, a lavorare meno e a rilassarsi di più. ??Sono molto aumentate le aspettative che la società nutre per ragazze e donne, prima ritenute appagate se avevano una bella casa ben tenuta e dei figli bravi a scuola, e dalle quali oggi ci si aspetta anche oltre a questo una carriera di successo. Ma anche sul fronte familiare - aggiungono Stevenson e Wolfers - la situazione è pesante. «Come risultato sia del tasso di divorzio che delle nascite fuori dal matrimonio a partire dai 15 anni per le madri, circa la metà dei bambini americani non vivono più con entrambi i genitori biologici». E il peso, anche se non tutti i disagi, ricade spesso più sulle donne.??«Negli anni 70 pensavamo di poter realizzare qualsiasi cosa - si legge in uno dei tanti messaggi affidati all'Economist's View, un rispettabile blog che ha segnalato lo studio dei due docenti della Wharton School e che ha raccolto subito dozzine d'interventi -. La realtà dove da allora ci ha portato la vita non è stata altrettanto bella.
La maggior parte delle donne che conosco e che sono diventate adulte negli anni 70 hanno ancora sofferto la discriminazione, superate nella graduatoria per posti migliori perché erano donne. Io una volta sono stata licenziata "perché i ragazzi hanno bisogno di un posto per la famiglia", come se la mia famiglia non contasse. Ci avevano promesso l'uguaglianza. Ma non l'abbiamo proprio avuta».??Ascoltare gli show radiofonici e andare al cinema, due non sempre positive "passive leisure activities", guidare l'auto in gite interminabili stavano alterando il tessuto sociale americano, scriveva a metà degli anni 20 il classicissimo Middletown: a study in modern american culture, storia del passaggio di una cittadina del Midwest dal mondo agricolo a quello industriale, con allentamento della cultura civica. Putnam, in fondo, prende le mosse da qui. Il ruolo della donna era, allora e in posti come l'emblematica Middletown, in casa. Ma il gap ricorrente, e universale, in America e in Europa, tra uomini e donne quanto a soddisfazione e felicità dice che le promesse fatte alla donna dalla modernità, negli anni 20 agli inizi e mezzo secolo dopo universali, non sempre vengono mantenute.
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Economia%20e%20Lavoro/2009/05/donne-piu-libere-meno-felici.shtml?uuid=09e81f6a-4a87-11de-b219-4e35f9c290e3&DocRulesView=Libero
il sole 24 ore.com
18 FEBBRAIO 2010
Popolazione italiana in crescita, anche se si registra un calo delle nascite e un aumento dei decessi. A far quadrare i conti sono i dati del movimento migratorio con l'estero e la forte propensione alla maternità delle donne immigrate, alle quali si devono 94mila nascite lo scorso anno, pari al 16,5% del totale. Lo attestano gli indicatori demografici 2009 dell'Istat. Nel 2009 le donne italiane hanno invece partorito 476 mila neonati (-8 mila rispetto al 2008) pari all'83,5% del totale. Il tasso di natalità per le italiane nel 2009 è stato dell'1,33% contro il 2,05 delle donne straniere.?Una curiosità: il tasso di natalità, che nella media nazionale si attesta a 9,5 nati ogni mille abitanti si attesta a 10,4 nascite ogni mille abitanti in Valle d'Aosta e a 7,6 su mille in Liguria e Molise. A Bolzano il 6% delle mamme nasce da madre straniera e padre italiano, mentre in Emilia Romagna il 21,4% dei bimbi nasce da genitori stranieri. ??Dal rapporto emerge che nel Paese sono 60,3 milioni i residenti, con un tasso di incremento del 5,7 per mille, nonostante il forte calo delle nascite e l'aumento dei decessi. Nel 2009, i decessi in Italia hanno sfiorato i 588 mila unità, un tasso di mortalità pari al 9,8 per mille. Si tratta - stima l'Istat nei dati diffusi oggi sugli indicatori demografici - del livello più alto registrato dal secondo dopoguerra. Secondo i ricercatori, l'eccezionalità dei decessi dello scorso anno e, di conseguenza, un saldo naturale così negativo come mai si era osservato in precedenza, sono il risultato del processo di invecchiamento della popolazione. L'aspettativa di vita alla nascita è di 78,9 anni per gli uomini e 84,2 per le donne. Rispetto al 2007 c'è stata una crescita di 0,2 anni sia per le donne sia per gli uomini. ??Al 1 gennaio 2010 gli over 65 anni e oltre rappresentano il 20,2% della popolazione (erano il 18,1 per cento nel 2000), mentre i minorenni sono soltanto il 16,9 per cento (17,5% nel 2000).