Corriere delle migrazioni
18 02 2015
Purtroppo Audre Lorde è ancora poco conosciuta e pochissimo tradotta in italiano. Nell’introduzione a un convegno bolognese del 2006, a lei dedicato, così si leggeva: «ha sfidato razzismo, omofobia, sessismo e classismo con grande impegno ed efficacia, partecipando in modo trasversale ai movimenti sociali che hanno segnato la seconda metà del secolo scorso, non solo in America: Black Arts e Black Liberation, Women’s Liberation e Lesbian and Gay Liberation. Convinta internazionalista, Lorde ha creato connessioni fra donne all’interno degli Stati Uniti, nei Paesi caraibici, sua origine, in Europa, Sud Africa, Australia e Nuova Zelanda». Non c’è dubbio che Lorde sia stata una donna spiazzante, anticonformista, anticipatrice di alcune tematiche importanti, come quando ha scritto sul potere erotico femminile nascosto e svilito dalla cultura occidentale.
Del resto amava ripetere che «non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone»: un monito rivolto a chi vorrebbe fare le rivoluzioni senza sovvertire linguaggi e immaginari, senza quindi entrare in reale conflitto con il sistema maschilista e patriarcale che le donne subiscono. Audre ha fatto tanti mestieri, dall’infermiera all’impiegata, dall’operaia alla bibliotecaria e ha poi insegnato inglese all’Hunter College di New York, viaggiando in tutto il mondo per tenere conferenze e seminari. Ha scritto tantissimo, molte poesie. Le sono stati dedicati alcuni bei film, tra gli altri: A Litany for Survival: The Life and Work of Audre Lorde di Ada Gay Griffin [Usa, 1995]; The Body of a Poet – A Tribute to Audre Lorde di Sonali Fernando [Gran Bretagna, 1995] e The Edge of Each Other’s Battles: The Vision of Audre Lorde di Jennifer Abod [Usa, 2002].
Audre non aveva dubbi, le nostre visioni sul mondo cominciano con i nostri desideri perché se «I padri bianchi ci hanno detto: penso, dunque sono. La madre Nera dentro ciascuna di noi – la poeta – sussurra nei nostri sogni: sento, dunque posso essere libera. La poesia conia il linguaggio per esprimere e autorizzare questa esigenza rivoluzionaria, l’adempimento di questa libertà. […] Perché non esistono nuove idee. Ci sono soltanto nuovi modi di farle sentire – di esaminare cosa sembrano queste idee vissute di domenica mattina alle sette, dopopranzo, durante l’amore sfrenato, facendo la guerra, partorendo, piangendo la nostra morte – mentre soffriamo per le vecchie brame, combattiamo i vecchi ammonimenti e le paure di restare silenziose e impotenti e sole, mentre saggiamo nuove possibilità e forze».
Di recente in italiano sono stari tradotti due testi fondamentali della sua ricca produzione saggistica e poetica.
Zami. Così riscrivo il mio nome (Edizioni Ets) è a cura di Liana Borghi, con una ottima traduzione di Grazia Dicanio. Zami, una parola carriacou per donne che lavorano insieme come amiche e amanti. «Dai vividi ricordi dell’infanzia a Harlem alle lotte per i diritti civili agli incontri nei bar lesbo-gay degli anni Cinquanta, la prima vita della poeta e scrittrice afroamericana prende forma intrecciando racconti, sogni e storia con il sostrato mitico di culture afrocaraibiche. Il suo divenire complesso tra lingua e realtà mentre esplora criticamente i confini incerti, contestati e disciplinati tra genere, razza e sessualità, produce un manifesto per una politica dell’erotico di donne che si identificano con le donne. Zami si offre come un antefatto autobiografico degli interventi politici, dei saggi e delle poesie prodotti da Lorde durante il suo percorso di attivista guerriera “afro-caraibica-americana-lesbofemminista” negli anni Settanta e Ottanta».
Ma c’è anche Sorella outsider. Gli scritti politici di Audre Lorde, pubblicato dalle edizioni Il dito e la luna, nella traduzione di Margherita Giacobino e Marta Gianello Guida. «Scritti politici» perché idealmente rivolti alle comunità di cui Lorde si sente parte e in cui gioca il ruolo di outsider scomoda, provocatoria e ispiratrice. «Un percorso di approfondimento che, con grande coerenza di pensiero, attraversa i concetti di differenze e connessioni, sopravvivenza e guerra (contro razzismo, sessismo, omofobia, classismo), sentire e usare, potere. Nella sua prosa da poeta Lorde evoca una trama di relazioni con donne nere presenti e passate, reali e leggendarie, con cui scambia parole, gesti e sguardi attenti a quella grande forza dell’eros che pervade la sua vita e i suoi scritti».
Barbara Bonomi Romagnoli
Antropologia e sviluppo
24 12 2014
“Il maschio democratico che non prende una netta e manifesta posizione su quest’emergenza (femminicidio) è come il cittadino del Sud che non prende personalmente posizione contro le mafie, tranquillizzandosi all’ombra della propria onestà.” Roberto Mussapi
A volte accadono episodi eclatanti di violenza come l’assassinio, lo stupro, il pestaggio, ma molto più spesso la violenza è verbale, gestuale, psicologica, simbolica. L’accostamento della citazione di apertura con il fenomeno delle mafie è quanto mai pertinente, se si considera come queste vengano percepite in quanto piaga sociale e come ancora invece il femminicidio continui a essere considerato una questione da donne.
Secondo il report delle Nazioni Unite per il contrasto della violenza sulle donne, Il femminicidio è crimine di Stato a causa di pratiche discriminatorie nei confronti delle donne.
Voglio affermare qui con forza che a livello istituzionale occorre che a occuparsi di pari opportunità debbano necessariamente esserci persone femministe. Sembra un’ovvietà, dato che il femminismo è lotta per l’uguaglianza, ovvero esattamente il mandato delle pari opportunità. Eppure non lo è, se i fatti mostrano che – con uno slittamento di senso agghiacciante – si incaricano donne, ovvero femmine, invece che persone femministe, laddove il punto non è il sesso biologico, ma l’attivismo per uguali diritti.
Esiste un femminicidio culturale, politico, economico, istituzionale. Una violenza simbolica che coinvolge dominanti e dominate, che hanno incorporato modelli culturali al punto da non percepirli come tali (Bordieu). Non è un caso che i numeri delle donne uccise siano forniti da associazioni, e non da rilevazioni istituzionali, nonostante le uccisioni di donne operata da uomini in rapporti di prossimità con loro abbiano assunto una portata non inferiore a quella delle vittime di mafia, la percezione di questi delitti non è quella di crimine antisociale. Lo Stato, nonostante le legge lo preveda, non conta le cittadine ammazzate. L’unica rilevazione statistica è l’indagine ISTAT del 2007, riferita al 2006, che conteneva tutte le premesse di quel che possiamo raccogliere oggi.
Nominare le cose è espediente culturale universale per ordinare il mondo, eppure la nozione di femminicidio, ovvero l’uccisione di una donna in quanto tale, è entrata a piccoli passi nel nostro linguaggio, e non senza resistenze sia da parte di donne che di uomini.
Un certo modo di parlare, appreso nell’infanzia, che utilizza il maschile neutro, diventa per automatismo il modo di percepire il femminile come subordinato al maschile dominante. Ancora oggi in molte lingue europee utilizziamo il maschile plurale quale forma neutra per i gruppi che includono donne e uomini, mentre il femminile viene usato per quelli di sole donne. Il maschile neutro, di fatto, occulta nella percezione sia la presenza che l’assenza di donne. La presenza femminile viene dunque oscurata. Una mancata declinazione femminile si nota specialmente in caso di ruoli di potere. Di tutte le forme di “persuasione occulta”, la più implacabile è quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose, affermava Bordieu.
In Italia l’Accademia della Crusca si sta prodigando per far entrare nel lessico comune parole che declinano per genere competenze e professionalità, esercizio a quanto pare relativamente semplice per mansioni ritenute poco autorevoli, ma difficoltoso allorquando le professionalità sono elevate. Così una Prefetta viene istituzionalmente nominata secondo la declinazione maschile “Prefetto”. Lo stesso per una Questora. E che dire dei professori universitari? Si è “professore” associato anche se donna.
L’importanza cruciale di un linguaggio non discriminatorio è rilevante, se consideriamo cosa accade nei fatti. Nonostante l’Italia sia uno Stato democratico con più della metà della popolazione di sesso femminile, il pensiero delle donne stenta a essere preso in considerazione. L’Osservatorio di Pavia ha monitorato che fra gli esperti intervistati nei Tg italiani solo il 10% è di sesso femminile (il restante 90% è di sesso maschile). Dentro le notizie sono state esplorate diverse questioni, fra cui la centralità femminile: solo nell’8% dei casi, le donne, come singole o come gruppo sociale, sono il focus dell’informazione. La televisione, prima agenzia educativa persino nelle case nelle quali è assente, ci mostra un mondo nel quale l’opinione di una donna è evento straordinario. Non un dettaglio, considerato poi cosa può comportare la scoperta che una donna ha una sua opinione, una sua volontà che prescinde dall’uomo abituato così diversamente.
Discriminare è percepire l’altro come qualcuno a cui manca qualcosa. Chi discrimina è incline all’oggettivazione della persona, privata così della propria essenza umana e della propria personalità.
Il mancato riconoscimento di una piena umanità della donna raggiunge il suo apice con il fenomeno della colpevolizzazione della vittima. Generalmente la morte induce le persone a una sorta di santificazione del defunto, ma la regola cambia quando a morire è una donna uccisa, magari da un uomo a lei familiare. Questo perché la de umanizzazione permette di giustificare l’aggressività sull’altro.
Una ricerca di G.T. Viky-D. Abrams (2003), ha sottoposto immagini varie di donne e uomini, tra le quali anche alcune oggettivate e sessualizzate. E’ stato osservato che le immagini oggettivate e sessualizzate di donne ottenevano una maggior percezione de umanizzata, avvicinandole all’animalità. La reazione riguardava però solo le immagini di donne, suggerendo che l’oggettivazione e la sessualizzazione sia denigratoria solo per le donne. Insomma, mentre un uomo a dorso nudo rimane persona, altrettanto non accade per una donna poco vestita. Questa visione rimaneva invariata a prescindere dal genere dei partecipanti alla ricerca ai quali le immagini erano state sottoposte. Per le donne la de umanizzazione deriva dalla mancata identificazione, per gli uomini la de umanizzazione va di pari passo con l’attrazione sessuale. Si apra un qualsiasi giornale, si accenda la tv e si traggano le debite conclusioni a riguardo. Media, stereotipi culturali, educazione e politiche di uguaglianza sono gli ambiti concreti di prevenzione della violenza.
In merito alle politiche di uguaglianza un esempio pratico è la constatazione del mancato sguardo di genere. Secondo i criteri di assegnazione, il regolamento dell’agenzia territoriale per la casa di Cuneo prevede quali categorie speciali: anziani, famiglie di nuova formazione, disabili, emigrati, profughi. Non mi risulta che le donne vittime di violenza siano considerate categoria speciale, né lo siano le madri single, o le donne separate. Questo nonostante ricorrenti raccomandazioni internazionali a sostenere l’autodeterminazione delle donne per un’efficace azione a prevenzione e contrasto della violenza. Gli ambiti nei quali metter mano a una revisione dei criteri e dei sistemi di pensiero attraverso i quali si esprime l’efficacia dell’azione amministrativa sono diversi. Si pensi alla questione della genitorialità e della famiglia, a quali modelli di riferimento incorporati possano intralciare l’umanità dell’intervento dei servizi sociali, appesantiti da strutture culturali lontane dalla realtà delle nuove famiglie, di nuove madri e nuovi padri, di famiglie allargate non regolamentate culturalmente.
Una concreta strategia di intervento coordinata contro la discriminazione delle donne è un vantaggio sociale per tutti…
Il Manifesto
15 10 2014
Rispetto al senso comune che spesso confonde il matriarcato con un «domino delle madri», esiste una storia del concetto differente. Il termine matriarcato significa infatti «all’inizio le madri», dal più antico significato di arché che concerne l’interrogazione dell’origine, dell’inizio – sia della vita biologicamente intesa che della comunità sociale -, sottraendosi alla prevaricazione di un genere sull’altro. Ciò perché il matriarcato non ha mai necessitato di sopraffazioni egemoniche sui viventi e ha avuto una esplicitazione storica ben diversa da quella del patriarcato.
È in questa stringente logica della definizione che vanno letti gli esiti assunti dai moderni «Studi Matriarcali» fondati alla fine degli anni Settanta dalla filosofa tedesca Heide Goettner-Abendroth e che risultano centrali nel dibattito contemporaneo internazionale sul tema. Rispetto agli studi precedenti, per la filosofa si tratta di osservare modelli sociali antichi (che dalla più nota forma sud-asiatica si sono diffusi in India, Persia, Egitto e nelle zone del Mediterraneo orientale, compresa la Grecia) e di verificare l’esistenza di società matriarcali che ancora persistono indicando pratiche ed elementi capaci di interrogare le attuali società occidentali.
Dotati di una salda struttura teorica e pratica, gli studi matriarcali sono dunque da considerarsi nella forma di ricerca socio-culturale critica. Il primo approccio di Goettner-Abendroth risale al 1978, quando propone una metodologia per indagare i matriarcati, fondata sul doppio binario dell’interdisciplinarietà e della critica radicale all’ideologia patriarcale. Nel suo primo lavoro del 1980, Die Göttin und ihr Heros (The Goddess and Her Heros, 1995), studia le trasformazioni della mitologia matriarcale ricollocandola nelle diverse fasi storico-sociali. È tuttavia nell’opera in più volumi, Das Matriarchat comparsa tra il 1988 e il 2000, che approfondisce i modelli strutturali matriarcali sotto il profilo sociale, politico ed economico per estenderli poi a livello culturale.
La forma matriarcale di una società prevede un’economia bilanciata, cioè la distribuzione dei beni e la mutualità economica; a livello sociale, la discendenza matrilineare all’interno di un contesto di orizzontalità non gerarchica; infine, una forte inclinazione spirituale che attraversa ogni aspetto della vita e che poggia sul divino femminile.
Da qualche anno a questa parte gli studi matriarcali conoscono una fortunata ricezione anche in Italia grazie ad alcune associazioni di donne che instancabilmente portano avanti diverse iniziative e interessanti e utili libri, come Matriarché a cura di Francesca Colombini e Monica Di Bernardo.
Heide Goettner-Abendroth è stata in Italia (Verona, Pistoia, Milano, Bologna, Torino e Bolsena) per discutere delle sue ricerche. Il 9 ottobre ha presentato il suo volume tradotto in italiano Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo (Venexia, pp. 712, euro 28) alla Casa internazionale delle donne di Roma e il giorno seguente, sempre nella stessa sede, ha tenuto un workshop con la partecipazione di Geneviève Vaughan, filosofa dell’economia del dono, e Cecile Keller, esperta di medicina matriarcale.
Perché parlare di matriarcato oggi?
15clt1fotinaLe società matriarcali possono insegnarci a superare il distruttivo mondo tardo-patriarcale che stiamo vivendo oggi. Sono forme matricentriche che si fondano sull’uguaglianza tra i generi e sulla collaborazione tra le generazioni. In questo senso sono società egualitarie che non possiedono gerarchie né classi e nessun genere domina sull’altro; non sono un rovesciamento del patriarcato, come il solito errore di interpretazione prevedrebbe. Sono basate su valori materni come il prendersi cura, il nutrimento, la centralità del materno, la pace attraverso la mediazione e la non violenza; sono valori che valgono per tutti: per chi è madre e per chi non lo è, per le donne e per gli uomini. Il concetto matriarcale della centralità del materno non è corrisponde a quell’immagine romantica spesso veicolata dal patriarcato, di una finzione che svaluta i valori materni per farli apparire alla stregua di questioni sentimentali. Le società matriarcali, in linea di principio sono orientate verso il bisogno invece che verso il potere, sono più realistiche perché consapevoli del valore materno, che è molto più appropriato alla condizione umana rispetto al patriarcato che tende a sopprimere le donne, e in particolare le madri.
Ha insegnato all’università ma il discorso sul matriarcato necessitava di una radicalità politica difficilmente percorribile dentro l’accademia. Qual è stata la sua esperienza?
Dopo aver completato il mio dottorato di ricerca in filosofia all’Università di Monaco, ho lì insegnato filosofia della scienza per dieci anni. Poi ho lasciato il sistema universitario, perché avevo trovato un compito molto più importante e socialmente rilevante. Nel 1976, ho iniziato un lavoro pionieristico, insieme alle mie colleghe, fondando gli Women’s Studies in Germania, e in questo contesto ho presentato per la prima volta un’illustrazione della mia ricerca sulle società matriarcali. Avevo iniziato a sviluppare una teoria delle società matriarcali già da quando avevo 25 anni, utilizzando tutte le biblioteche delle diverse discipline e viaggiando molto per visitare diversi siti archeologici. Dal 1983 in poi, mi sono dedicata completamente a questo compito che non era riconosciuto da nessuna università in Germania e in Europa. Ma un altro pubblico era molto interessato: il mio libro ha segnato l’inizio della discussione sulle società centrate sulle donne e sul matriarcato nella seconda ondata del movimento femminista tedesco, per diffondersi successivamente in tutto il mondo grazie alle tante donne che si sono mostrate fortemente interessate.
Propone una metodologia precisa tra teoresi e prassi e ripercorre brevemente anche i primi tentativi «tradizionali» sul matriarcato. Che cosa non ha funzionato in quelle analisi?
Ero ben consapevole che questo dibattito aveva avuto una lunga tradizione in Europa, andando indietro per quanto riguarda il lavoro dello storico della cultura JJ Bachofen, che è uscito nel 1861, e all’estero con la famosa opera antropologica di HL Morgan del 1851. Per più di un secolo, la discussione sul diritto materno e sul matriarcato ha proseguito: questo tema era stato usato e abusato da tutte le scuole intellettuali di pensiero, ognuna con il suo diverso e netto punto di vista. Quello che mi preoccupava di più di questa ricezione delle idee sul matriarcato era la totale mancanza di una chiara definizione della questione, la mancanza di una metodologia di sviluppo e soprattutto di un quadro scientifico teorico. Così è accaduto che l’immagine di essenza della donna in quel periodo si è insinuata nell’idea di matriarcato, e una quantità enorme di emozioni legate tuttavia all’ideologia patriarcale sono state coinvolte nella discussione. Questa combinazione di definizioni poco chiare, emotività eccessiva e pregiudizio patriarcale, si verifica ancora oggi quando si avviano riflessioni sull’argomento. Dopo aver intuito quanto l’argomento sia stato distorto, ho deciso di indirizzare la ricerca verso tutte le forme di società non patriarcali, sia passate che presenti, di definire quindi un moderno fondamento scientifico basato su una definizione nuova e adeguata di matriarcato. Questa è stata la creazione dei «moderni studi matriarcali», un nuovo campo di conoscenza che è critico dell’ideologia patriarcale.
In che modo il matriarcato può essere considerato un movimento di liberazione per donne e uomini? Ha in mente pratiche precise?
Sta diventando sempre più chiaro che questo modello culturale radicalmente diverso avrà grande importanza per il futuro delle donne, delle madri e degli uomini, cioè del genere umano in generale. Nella vita sociale, ciò significa sfuggire alla crescente frammentazione della società – laddove siamo trascinati verso il basso in uno stato di separazione e solitudine che ammala. Piuttosto, significa sviluppare strutture che promuovono diversi tipi di comunità intenzionali o di affinità, come comuni, alleanze di vicinato e reti sociali. Il principio matriarcale è che ciascuno dei gruppi basati su affinità politiche e di intenti è generalmente avviato, sostenuto e condotto da donne. I criteri determinanti sono le esigenze delle donne e dei bambini, che sono il futuro dell’umanità (rispetto alle aspirazioni di «potenza» e «virilità» degli uomini). Nei nuovi matri-clan gli uomini saranno pienamente integrati, ma secondo un sistema di valori diverso, cioè quello basato sulla cura reciproca e l’amore.
L’economia quindi non potrà più rincorrere l’ulteriore aumento della grande industria, delle espansioni militari e del cosiddetto «livello di vita», perché verrà considerato il pericolo della completa distruzione della biosfera e della vita sulla terra. Ne deriva quindi una prospettiva alternativa; in combinazione con una economia del dono e di sussistenza locale e regionale che darebbe indipendenza economica alle persone. La qualità della vita ha precedenza sul concetto di quantità.
Riconosce la massima importanza degli studi portati avanti dai ricercatori indigeni sulle proprie società. Come è cominciata questa collaborazione?
Durante i miei numerosi viaggi ho incontrato persone provenienti da diverse società matriarcali ancora esistenti, e alcuni di loro sono studiosi che stanno facendo ricerche sulla propria società. Molti di loro apertamente chiamano le proprie società matriarcali, così come gli Irochesi del Nord America, i Minangkabau di Sumatra (Indonesia), e i Moso della Cina occidentale. I loro studi si intersecano con gli studi femministi in questo campo, e come le femministe, sono molto critici verso l’ideologia patriarcale che ha pesantemente distorto la comprensione delle loro società.
Ha visitato i Moso nel sud-ovest della Cina. Come è stato incontrarli?
È stato magnifico incontrare persone che vivono ancora pienamente le loro tradizioni matriarcali. Sono ben consapevoli che i modelli patriarcali stanno lavorando a danno delle donne in Cina. Così, la maggior parte dei Moso — come altri popoli matriarcali — tengono strette le loro tradizioni, anche se sono pesantemente oppressi dal governo cinese centrale. La mia amicizia con loro e con altre donne e uomini matriarcali ha proseguito nel corso degli anni. Uno dei risultati è stato la realizzazione di tre grandi congressi, dove hanno presentato il loro modo di vivere. Così, nel 2003, il primo congresso mondiale sui moderni studi matriarcali ha avuto luogo in Lussemburgo e ha riunito per la prima volta studiosi internazionali e indigeni, che fino a quel momento avevano lavorato sul tema in un certo isolamento. Nel 2005, il secondo congresso mondiale ha avuto luogo negli Stati Uniti, e ha riunito un maggior numero di studiosi matriarcali indigeni arrivati dall’Asia, dall’Africa e dalle Americhe. Il terzo grande congresso, svoltosi nel 2011 in Svizzera, è stato dedicato alla Politica Matriarcale, e studiosi occidentali, indigeni e attivisti politici si sono incontrati per discutere di pratiche basate sui risultati delle conferenze precedenti, per rendere la saggezza matriarcale uno stile di vita fruibile per il presente. In questo modo, insieme a eccellenti donne e uomini impegnati in tante parti del mondo, il paradigma matriarcale ha cominciato a circolare e continua a svilupparsi. Si tratta di una prospettiva completamente nuova della società e della storia. Tutti i contributi di questi congressi sono stati pubblicati in inglese nel libro Societies of Peace (2009) e su web: www.kongress-matriarchatspolitik.ch.
Guazzington Post
23 09 2014
Catherine Viollet è morta lunedì per la rottura di un aneurisma. Era una ricercatrice femminista di valore e modestia notevoli.
Era ricercatrice all' l'Institut des Textes et Manuscrits modernes (CNRS-ENS, Parigi) e responsabile dell'équipe "Genèse & Autobiographie". Specialista di critica genetica, si interessava alle diverse forme di scrittura ed aveva creato un gruppo di ricerca sul manoscritto de La chasse à l'amour di Violette Leduc.
Fra le sue opere ricordiamo Genèse, censure, autocensure (CNRS), Le Moi et ses modèles. Genèse et transtextualités (Academia), Archives familiales : modes d'emploi. Récits de genèse (Academia).
Aveva recentemente fatto pubblicare un inedito di Violette Leduc, La main dans le sac (Le chemin de fer), presentando le tre diverse versioni del manoscritto e dando così rilievo alla dimensione del lavoro letterario della scrittrice lesbica.
La ricorderò citando alcuni suoi importanti lavori nel dialogo con Esther Hoffenberg, la regista del biopic su Violette Leduc, al festival Some Prefer Cake di Bologna, 20 settembre, verso le 17.
P.G.
Lipperatura
27 05 2014
“Consentitemi un riferimento a una delle grandi, forse la più grande, delle tragedie classiche, Antigone: non combattere battaglie che non sono le tue battaglie. Nella mia idea di Antigone, abbiamo Antigone e Creonte. Sono solo due sette della classe dirigente. Un po’ come Pasok e Nuova Democrazia. Nella mia versione di Antigone, mentre i due membri delle famiglie reali stanno combattendo tra loro, minacciando di mandare in rovina lo Stato, mi piacerebbe vedere il coro, le voci delle persone, uscire da questo ruolo stupido di mero commento saggio, impadronirsi della scena, costituire un comitato pubblico di potere del popolo, arrestare entrambi, Creonte e Antigone, e dare vita al potere del popolo”.
Così Slavoj Žižek due anni fa, in un intervento alla convention di Syriza ad Atene. L’auspicio è bello, ma quale è il lavoro da fare per arrivare a far sì che il coro sia in grado di darsi voce invece di essere contrappunto alle voci principali?
“Te lo si conta noi, com’è che andò. Noi che s’era in Piazza Rivoluzione”, direbbero i Wu Ming (e per motivi comprensibili non ho ancora parlato de L’Armata dei sonnambuli, che molto ha a che fare con i nostri tempi).
Ve lo conto io, allora, da oggi: o almeno ci provo, a giudicare da quanto ho visto in queste settimane.
C’è dunque una parte del coro che sembra parlare molto. E che anzi sembra non fare altro. E che anzi ancora piomba a capofitto dove si parla di più, gridando più forte fino a che non si riesce a cogliere una sola parola, ma che importa? Che importa se la discussione si perde, e la complessità viene ridotta a slogan, che importa visto che più del bersaglio conta quell’istante in cui verrà percepita la mia voce?
Questa è una delle problematiche più dolenti. Riguarda molto da vicino anche i femminismi, da ultimo: che in queste settimane, almeno in molti casi, hanno visto ridursi la complessità del pensiero appunto a slogan, e che dei narcisismi son stati, in alcuni casi, preda. Per il tempo e il modo, non per i contenuti: ma dal momento che tempo e modo contano assai, i contenuti stessi hanno perso forza. Almeno in rete, perché dal vivo (ve lo posso contar io, memore di una discussione non dimenticabile al Maurice di Torino) così non è. E su questo si tornerà, fatalmente e, visto che le apparenti libere scelte sono spesso una questione di potere, foucaultianamente.
Poi c’è un coro che tace perché nessuno ascolta, o se ascolta dimentica subito. Penso alle due anziane donne del Villaggio Lamarmora a Biella. Case popolari, una chiesa, slarghi con erba gialla. Due donne che sono salite da Salerno, anni e anni fa, e in famiglia siamo sette, e il lavoro, signora, non c’è. Penso alla ragazza di Novara, che pone una mano sul mio braccio e dice che sì, Amazon mette i braccialetti ai magazzinieri, ma anche qui, c’è un ipermercato sai?, fa la stessa cosa. I braccialetti che contano i passi, e valutano il ritmo, e se il ritmo cala, ciao, sei fuori. Penso a Maria Baratto di Acerra, anni 47, operaia in cassa integrazione del reparto logistico Fiat a Nola, suicida sette giorni orsono mentre noi si contava, e con noi tutti gli altri - inclusi i responsabili - che si è persa la dignità del lavoro. Penso al film dei fratelli Dardenne, e alla fabbrichetta di pannelli solari che deve ristrutturare, e dunque licenzia la dipendente e chiede ai colleghi di votare a favore del provvedimento in cambio di un bonus di mille euro. Due giorni, una notte, e la nostra fotografia: condannati a dire grazie in cambio delle briciole che cadono dalla tovaglia, e pensa se non ci fossero neanche le briciole, e poche fisime, per favore, che siamo in crisi.
Allora, per ridare parole a quella parte del coro che non le possiede, e per far sì che quella che dice di parlare in suo nome infranga lo specchio in cui viene condannata a riflettersi, il lavoro è lungo. E per proseguirlo bisogna ripulire l’aria dai veleni che siamo così abituati a respirare da considerarli la più fresca delle brezze. Fine primo capitolo, fine dell’Antigone originale:
I gran vanti
dei superbi, da duri castighi
colpiti, ammaestrano
troppo tardi, a far senno, i vegliardi.