Pagina99
16 09 2014
Un grosso boato, le finestre tremano e i bicchieri nella credenza tintinnano. Sulla spiaggia una specie di onda d'urto fa venire la pelle d'oca al mare in piatta mentre i granelli di sabbia fanno tutti un passo indietro e rimangono sull'attenti. Una bomba in tempo di pace? Sì, ma solo per finta. Sono le esercitazioni dei militari che infrangono il muro del suono con i loro caccia oppure sganciano ordigni inerti sulla Sardegna. Ma, come in quel famoso film del 1983, anche i War Games sardi non sono del tutto innocui e rischiano di tramutarsi in tragedia (bene che vada si legga alla voce disastro ambientale), così sull'isola si fa sempre più strada la certezza che l'unico modo per vincere questa guerra sia non giocarla.
Quella della Sardegna è una lunga storia di lotte di emancipazione nei confronti dei "barones" di tutte le epoche. L'ultima, che cova sotto la cenere da almeno vent'anni, è quella che in queste settimane viene intrapresa con nuova forza contro la "tirannia" delle servitù militari che solo nell'ultimo mese hanno mandato in fumo 30 ettari di terreno. Lo scorso 4 settembre, infatti, l'esplosione di una bomba all'interno del poligono militare di Capo Frasca, sulla costa occidentale, ha scatenato le fiamme, distruggendo decine di metri quadri di macchia mediterranea di grande pregio (e per il quale la Regione addebiterà 20 mila euro al ministero della Difesa, pari ai costi sostenuti per domare il rogo).
Ma si tratta solo dell'ultima scintilla, dal 1994 ad oggi, infatti, non c'è stato anno in cui dalle basi sarde, che costituiscono quasi il 70% delle servitù militari presenti sull'intero territorio nazionale, non sia divampato un incendio. I costi ambientali iniziano insomma a risultare immani e ciò che è peggio è che secondo il fronte "No Servitù" la situazione non potrà che peggiorare visto che poche settimane fa, nell'ambito dell'approvazione del decreto Competitività, le soglie di inquinamento nelle aree dei poligoni sono state innalzate ed equiparate a quelle predisposte per le comuni aree industriali.
Nonostante il testo originario sia stato mitigato in sede di approvazione alla Camera, grazie a un emendamento che introduce una differenziazione delle soglie consentite a seconda dell'utilizzo effettivo delle aree militari, si respira forte tensione sull'isola tanto che alcuni sindaci, finora inascoltati, dell'oristanese hanno pronto un ricorso all'Unione Europea per denunciare la presenza delle basi con il loro alto carico di inquinamento. In particolare si tratta dei primi cittadini dei comuni che si affacciano sul Lago Omodeo dove, in area di interesse comunitario, sorge un poligono di tiro gestito dal Centro addestramento interforze che avrebbe dovuto essere temporaneo ma che, a forza di ordinanze prefettizie, si teme stia diventando «surrettiziamente servitù permanente». Umberto Cocco, sindaco del Comune di Sedilo, spiega che le ordinanze del Prefetto di Oristano si limitano a comunicare lo svolgimento delle esercitazioni militari «senza specificare cosa esattamente viene fatto e da chi».
La pratica dura ormai da più di 15 anni e in base a diverse testimonianze risulta che la natura delle esercitazioni sia diversa dal tiro con armi convenzionali, prevedendo anche l'uso di armi diverse, con l'impiego di bombe, per quanto a basso potenziale, non citate nell'ordinanza. «L’inquinamento conseguente all’utilizzo del Lago per scopi militari - fa notare Cocco - può essere il colpo finale per l’economia già debole di questa parte della Sardegna». «Insomma - prosegue il sindaco - quanto piombo sia finito in fondo al lago non lo sa nessuno, non va più bene che un ministero faccia una cosa, l'Unione Europea un'altra, la Regione un'altra ancora, ognuno per conto suo, tanto la gente accetta, subisce». Se ne verrà mai a capo? «Sarà complicato, la massiccia presenza sulla nostra isola viene giustificata dal fatto che pur essendo la terza regione italiana per superficie siamo al terzultimo posto, dietro solo a Molise e Valle d'Aosta, per densità di abitanti, insomma dicono che i rischi per la popolazione sono più ridotti che altrove».
La dismissione fallita di Capo Teulada Ma esiste un ritorno economico, per la Sardegna, derivante dalla presenza delle basi? «I Comuni ricevono degli indennizzi che però non possono spendere a causa dei vincoli imposti dal patto di stabilità. Il problema però è che quando trovano delle resistenze da parte delle istituzioni locali si "comprano" delle intere categorie di cittadini, allevatori, commercianti».
Nel 2006, ad esempio, quando a capo della Regione c'era Renato Soru e ministro della difesa era Arturo Parisi, la dismissione di Capo Teulada sembrava ormai cosa fatta ma invece si costituì un fortissimo comitato pro-base che riuniva diversi imprenditori convinti che il poligono fosse «una specie di industria, nel senso che assicura tanti posti di lavoro». La caduta del governo Prodi II, fece il resto. Oltre agli incendi, discariche di ordigni a cielo aperto, scorie di «materiale ferroso» depositate sui fondali del Mediterraneo, spiagge in zone militari pericolosamente raggiungibili dai civili come quella di Cala Zafferano, nel Sulcis, che è una distesa di residui bellici, proiettili e bombe inesplose a due passi dagli ombrelloni dei bagnanti.
Gli effetti delle esercitazioni sulla sicurezza e sull'ambiente sono al di là di ogni ragionevole dubbio devastanti e così, mentre monta la protesta dei cittadini, il governatore Pigliaru annuncia che la Regione «si costituirà parte civile nel processo per grave disastro ambientale nel Poligono del Salto di Quirra-Perdasdefogu», nella Sardegna orientale, che con i suoi 120 chilometri quadrati di estensione è la più importante base europea per la sperimentazione di nuove armi, missili, razzi e radiobersagli.
Al centro di un'inchiesta avviata nel 2011 riguardante una serie di morti sospette sulle quali la ASL di Cagliari ha condotto un'indagine che stabiliva «una coincidenza statisticamente significativa tra malformazioni negli animali e tumori emolinfatici nei pastori residenti nella zona» (probabilmente contaminata da uranio impoverito), Quirra rappresenta l'esempio paradigmatico - a livello sanitario, ambientale, culturale ed economico - delle influenze negative prodotte dalla presenza di un poligono. In totale sono oltre 35 mila gli ettari di territorio sardo sotto vincolo di servitù militare. In occasione delle esercitazioni viene interdetto alla navigazione, alla pesca e alla sosta, uno specchio di mare di oltre 20 mila chilometri quadrati, una superficie pari quasi all'estensione dell'intera Sardegna. Per il Presidente della Regione si tratta di «numeri enormi che facciamo fatica ad accettare ulteriormente».
Per questo motivo il Consiglio Regionale auspica da giugno «l'impegno per una graduale dismissione dei poligoni e la bonifica dei territori dismessi: ci serve un elenco di questi beni ed una data. Bisogna fare bene e fare in fretta». Fuori dai palazzi, intanto, la parola d'ordine è «A fora» ("fuori", "andate via"), lo slogan «Ci avete rotto i colori». - See more at: http://www.pagina99.it/news/societa/6925/La-Sardegna-protesta-contro-le-servitu-militari-capo-frasca.html#sthash.czt4PU7v.dpuf
Il Fatto Quotidiano
15 09 2014
di Fabio Marcelli
Che il cambiamento climatico sia un problema serio motivato dalla diffusione dei gas ad effetto serra nell’atmosfera, sono rimasti oramai in pochi a contestarlo. Oltre alle lobby sconsideratamente interessate solo ai loro profitti a scapito dell’ambiente planetario e delle future generazioni, qualche politico irresponsabile, in genere ultraliberista e di estrema destra (fra gli altri quel Nigel Farage inopinatamente prescelto da Grillo e Casaleggio come proprio partner europeo: sarebbe interessante che ci fosse al riguardo un minimo di discussione nel Movimento Cinque Stelle, se si vuole davvero che tale Movimento divenga, come ho sempre auspicato, motore di un’alternativa che deve avere proprio sulle questioni ambientali posizioni precise e non subalterne a gruppi d’interesse).
Anche se sono rimasti in pochi a contestarlo, altrettanto pochi sono coloro che fanno qualcosa di concreto e serio per contrastare il cambiamento climatico. Posizioni serie e concrete sono ad esempio quelle assunte dalla Bolivia, che vengono illustrate dal suo delegato alle Nazioni Unite sui problemi ambientali René Orellana nel suo contributo al nostro (oltre che mio di Irene Romualdi e Marianna Stori) recente libro Boliva: nuove frontiere del diritto e della politica. Scrive Orellana, fra le altre cose, quanto segue: “Al fine di costruire una nuova visione dello sviluppo, come mezzo e non come fine, dobbiamo lavorare su una comprensione diversa della relazione tra l’essere umano e la natura, assumendo che entrambi, insieme, devono essere concepiti come il centro dell’implementazione di misure di sviluppo, prendendo coscienza del fatto che lo sviluppo non è un fine ma è appunto uno strumento. Lo sviluppo deve essere integrale ed olistico, deve cercare l’armonia tra gli esseri umani e la natura, promuovendo al contempo il soddisfacimento delle condizioni materiali e spirituali della popolazione. Lo sviluppo è un mezzo, non un fine, il fine è il vivir bien per godere appieno della felicità“.
Alla questione del cambiamento climatico è anche dedicato un recente appello promosso da ventuno organizzazioni presenti in vari Paesi, che rappresentano cento milioni di persone, appello ripreso da Guido Viale sul manifesto di qualche giorno fa (dal cui articolo desumo il testo), le quali chiedono che ci si impegni
1) a contenere le emissioni annue climalteranti a 38 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2 entro il 2020, per impedire che la temperatura del pianeta aumenti di più di 1,5 gradi;
2) a lasciare sotto terra o sotto il fondo dei mari almeno l’80% delle riserve fossili conosciute;
3) a mettere al bando tutte le nuove esplorazioni ed estrazioni di combustibili fossili (e di uranio), comprese, a maggior ragione, quelle effettuate con il fracking e il trattamento delle sabbie bituminose; a soprassedere alla costruzione di nuovi impianti di trattamento e trasporto dei fossili, compresi i gasdotti…
Il quarto punto 4) riguarda la promozione delle fonti energetiche rinnovabili (Fer) in forme sottoposte a un controllo pubblico o comunitario (cioè «partecipato»)…
il quinto il sesto punto impegnano: 5) a promuovere la produzione e il consumo locali di beni durevoli, evitando di trasportare da un capo all’altro del mondo quello che può essere fabbricato in loco;
6) a incentivare la transizione a una produzione agroalimentare di prossimità. Il settimo e l’ottavo punto riguardano
7) l’obiettivo “rifiuti zero” (centrale nei territori massacrati da criminalità ambientale e malgoverno), un’edilizia a basso consumo energetico e
8) un trasporto di persone e merci con sistemi di mobilità pubblici e condivisa.
Il punto 9) raccomanda la creazione di nuova occupazione finalizzata alla ricostituzione degli equilibri ambientali, sia nel campo delle emissioni climalteranti che in quello dell’assetto dei territori.
Sono le “mille piccole opere” in campo energetico, nella manutenzione dei suoli, nei trasporti, nell’edilizia e in agricoltura in cui dovrebbe articolarsi un piano di lavori pubblici per creare subito un milione di posti di lavoro in Italia e 6 milioni in Europa….Il decimo punto 10) impegna a smantellare industria e infrastrutture militari per ridurre le emissioni prodotte dalle guerre e destinare a opere di pace le risorse risparmiate. Non ci sono solo gli F35 da bloccare (cosa sacrosanta); c’è tutta l’industria e l’occupazione belliche da riconvertire: le opportunità di impieghi alternativi non mancherebbero”.
L’appello continua indicando le false soluzioni e le cose da evitare ad ogni costo, che sono ovviamente quelle sulle quali invece puntano governi e potere economico, come dimostrano da ultimo le vicende del Tap. Faremo in tempo a fermarli?
La Stampa
01 08 2014
Il nostro vocabolario neppure contempla una parola per definire la condizione di un genitore che perde un figlio. E questa volta alla cieca disperazione si aggiunge la rabbia di una morte annunciata.
La vita di Lorenzo Zaratta, Lollo, 5 anni, è stata consumata dal tumore al cervello che lo ha colpito a soli 3 mesi dalla nascita.
"Cari amici volevo avvisarvi che Lorenzino ci ha fatto uno scherzetto... ha voluto diventare un angioletto..." ha scritto il suo papà, Mauro, su Facebook mercoledì sera.
E ieri pomeriggio la città non si è tirata indietro. In tanti, tantissimi, hanno partecipato e pianto al funerale di questo giovanissimo simbolo della lotta all'inquinamento nella terra dell'Ilva. ...