Il Manifesto
09 06 2015
Deliberiamo Roma. Una città distrutta, l'ingiustizia feroce per la povera gente. La proposta: sostituire il Consiglio comunale con un Consiglio popolare antimafia. La manifestazione al Campidoglio l'11 giugno
A due anni dalle elezioni amministrative di Roma Capitale l’unico vento che soffia a Roma è quello del ripiegamento su stessi. La solitudine, l’egoismo e l’indifferenza, a volte la rabbia verso il prossimo, infuriano nelle piazze, strappando allegria a una città che sapeva illuminarsi d’immenso, nonostante le avversità.La grande stagione di rinascita della Capitale che aspettavamo dopo Alemanno non è arrivata, e quando pure appare un lampo a incantarci, come nella mattina del 21 maggio quando in Campidoglio si sono celebrate le registrazioni delle unioni civili, dura un attimo e subito si dilegua a colpi di arresti ed emergenze che ci ricordano tutti i problemi irrisolti.
Le strade sporche e i disservizi del trasporto pubblico sono tra i mali più fastidiosi, l’assenza di investimenti nelle politiche sociali, la svalutazione dei lavoratori e delle lavoratrici del pubblico impiego e il vuoto culturale della città sono i più amari.Un codice culturale dotato di regole, connivenze, omertà e un sistema di potere politico-finanziario e di natura trasversale – Mafia Capitale – con le sue clientele e mazzette ha prodotto reati e corruzione e determinato la composizione dell’attuale Consiglio comunale.
Gli arresti degli amministratori pubblici, che prima ricoprivano altissime cariche istituzionali, che poi furono costretti alle dimissioni e ora sono stati arrestati, è un colpo micidiale alla credibilità del governo capitolino. Neanche la propositività delle 4 delibere di iniziativa popolare della coalizione sociale di Deliberiamo Roma, che la scorsa estate ha consegnato quasi 35000 mila firme agli Uffici capitolini, ha trovato ascolto nella Giunta capitolina.
Anzi, si è lavorato nella direzione opposta. Sono state messe in vendita quote azionarie di tante società partecipate, compresa Acea Ato2 e Acea holding, nonostante quel referendum scandalosamente inatteso. Si è offesa la scuola pubblica e il lavoro femminile, quello della cura e dei servizi per bambini e bambine. Si sono messi in vendita centinaia di immobili per dare qualche effimera boccata d’ossigeno a casse comunali afflitte da un male incurabile e insanabile: il debito. Si è perso il legame con la città, con i suoi umori, con le sue puzze e i suoi profumi.
Se non vogliamo far crescere ancora l’astensionismo che ammorba il paese, bisogna dare un segnale di cambiamento reale, non rispondere in modo autistico “va tutto bene, va tutto bene”. Certo non tutto il maltempo ha origine nella coalizione che oggi guida Roma, ma dall’adesione più generale del centrosinistra a un modello di sviluppo e di civiltà fondato sulla competizione, sulla precarizzazione delle vite e sullo sfruttamento ambientale, che sta producendo impoverimento diffuso e un peggioramento sostanziale delle condizioni materiali di vita. Sotto i tiri incrociati del taglio dei trasferimenti statali, del piano di rientro dal debito e del patto di stabilità interno, cede economicamente il ceto medio, i pensionati soffrono e svaniscono le aspirazioni a un futuro delle nuove generazioni. Mentre aumentano le persone in fila in cerca di un pasto caldo e un riparo notturno.
In questi due anni la sinistra ha perso molte battaglie in città, dentro e fuori i palazzi del potere. Sinistra Ecologia Libertà ha perso la sua sfida dinnanzi all’ombra divorante del Pd; ai movimenti si è accorciato lo sguardo; spazi di eccellenza artistica come il Teatro Valle sono stati chiusi; isole recuperate come l’allegro SCUP giacciono semidistrutti; alcune realtà sono state bastonate direttamente a colpi di tribunale, come l’Angelo Mai; altre sono costretti a inventarne una più del diavolo, come il Cinema America. E, ancora, tanti sono gli sgomberi delle case occupate e dei campi senza che fosse offerta un’alternativa: l’ingiustizia più feroce per la povera gente.
Una sconfitta, insomma: dove si sono persi beni comuni e servizi, privatizzati, svenduti ed esternalizzati. Se cerchi negli stati d’animo di tanti romani e romane non trovi più amore, ma diffidenza e odio verso la città.
Mafia Capitale, svelando una trama corruttiva diffusa, ha ricoperto il cielo azzurro degli antichi Fori con una cappa pesante e fitta. Ma, al contempo, il suo disvelamento potrebbe essere un’occasione per la stipula di un nuovo patto tra amministrazione e comunità, se avessimo il coraggio di osare un modello avanzato di gestione partecipata dei beni comuni, fondato sull’internalizzazione dei servizi. Questo auspica chi, in modo performativo, il pomeriggio dell’11 giugno andrà in Piazza del Campidoglio per votare la sostituzione dell’attuale Consiglio comunale con un Consiglio popolare antimafia. Finalmente saremo liberi di ascoltare le istante e approvare le delibere che la Giunta non vuole recepire. Così cercheremo di spazzare via un po’ di quel vento e perfino le statue dei Dioscuri e la Torre della Patarina saranno ancora più belle e luminose.
Il Fatto Quotidiano
08 06 2015
L'inchiesta di ProPublica documenta i risultati dell'organizzazione, che dopo il sisma aveva promesso di “dare una nuova casa a 130mila persone”. Ma finora sono state realizzati solo un ospedale, qualche strada e sei nuove abitazioni permanenti. E le mail interne parlano di "fallimento"
“Dare una nuova casa a 130mila persone”, garantire loro assistenza sanitaria, condizioni igieniche accettabili, cibo e acqua potabile. Per aiutare la popolazione di Haiti, colpita dal terremoto del 2010, la Croce Rossa Internazionale (Icrc) ha ricevuto donazioni per circa 500 milioni di dollari, le più alte tra tutte le organizzazioni impegnate nell’ex colonia francese dei Caraibi.
Secondo un’inchiesta pubblicata dall’organizzazione no-profit ProPublica, però, il risultato ottenuto è limitato a qualche strada costruita o riparata, un ospedale, illuminazione solo in alcune zone e appena sei nuove abitazioni permanenti. Un vero e proprio “spreco di denaro” dovuto a “mancanza di preparazione”, mala gestione dei soldi e decisioni prese in base all’interesse dell’organizzazione: “I funzionari non sapevano come spendere tutti quei fondi – ha raccontato il responsabile del programma per i rifugiati della Croce Rossa ad Haiti nel 2010, Lee Malany – La loro decisione si basava non sul programma che sarebbe stato più utile alla popolazione, ma su quello che avrebbe fatto più pubblicità all’organizzazione. Una cosa deprimente”.
Tanti progetti, numerose donazioni, pochissimi risultati - Quando i giornalisti di ProPublica, già due volte vincitrice del premio Pulitzer, hanno contattato i vertici della Croce Rossa Internazionale per avere un quadro dei progetti realizzati a cinque anni dal terremoto, hanno incassato il rifiuto dell’organizzazione. Così sono volati a Port-au-Prince, la capitale del Paese, e sono entrati in contatto con Jean Jean Flaubert, l’uomo che tiene i rapporti tra il sobborgo di Campeche e l’organizzazione: “Ci avevano detto di avere un piano per cambiare totalmente Campeche. Oggi, però, ancora non ho capito di quale cambiamento stessero parlando. La Croce Rossa lavora solo per se stessa”.
Il programma Lamika, acronimo creolo haitiano per “una vita migliore nel mio quartiere”, prevedeva, secondo un piano interno all’Icrc del marzo 2012 e in possesso di ProPublica, la costruzione di 700 nuove abitazioni dotate di servizi igienici, la riparazione di 4mila case secondo criteri antisismici, migliaia di rifugi temporanei per altre famiglie, lo stanziamento di 44 milioni di dollari per donare cibo, medicinali e la costruzione di un ospedale. Campeche, come la maggior parte delle zone di Port-au-Prince, è ancora oggi un ammasso di baracche di lamiera, dove bambini e animali camminano in mezzo ai rifiuti e ai liquami delle fogne a cielo aperto, senza alcun collegamento all’energia elettrica e accesso all’acqua potabile. Delle abitazioni per 130mila persone festeggiate dai funzionari dell’organizzazione nemmeno l’ombra: di nuove case, ad Haiti, se ne contano soltanto sei.
Grande spreco di denaro, ma la Icrc si teneva 1/3 dei soldi sui lavori commissionati - La Croce Rossa Internazionale è l’organizzazione impegnata a Haiti che ha ricevuto la maggior quantità di donazioni, è anche una di quelle che ha mostrato più difficoltà nel portare a termine gli obiettivi prefissati. Non è un caso se, come si legge nei testi di mail interne in possesso di ProPublica, a definire questa operazione un “fallimento” è lo stesso Presidente della Icrc, Gail McGovern. L’organizzazione ha cercato di attribuire la colpa dei lavori non realizzati alle difficoltà di relazione con il governo e i problemi burocratici legati all’uso dei terreni. Ostacoli incontrati anche da altre organizzazioni che disponevano di fondi nettamente inferiori ma che, si legge nell’inchiesta, sono riuscite a donare alla popolazione 9mila abitazioni.
Il vero problema, secondo ProPublica, è che la campagna di aiuti per Haiti della Croce Rossa è stata minata da un grave spreco di denaro. Già nel 2011, Judith St. Forth, diventata poi direttrice del programma per Haiti, denunciava in un documento interno discriminazioni nei confronti dei lavoratori di origine haitiana “tanto da escludere i loro curriculum vitae” durante la ricerca di personale qualificato. Un atteggiamento che violava la politica dell’organizzazione, mirata all’assunzione del più alto numero possibile di haitiani, causando anche un aumento delle spese. Secondo calcoli di budget interni alla Croce Rossa e citati da ProPublica, infatti, stipendiare e mantenere un operaio straniero a Haiti costa circa 140 mila dollari all’anno, contro i 42 mila di un professionista del posto.
Un personale spesso inesperto e incapace di portare a termine molti dei programmi prefissati, infine, ha costretto la Croce Rossa ad affidare molti lavori ad altre organizzazioni, facendo così lievitare i costi. Nonostante questo, però, circa un terzo del costo totale dei singoli progetti delegati serviva a coprire le spese della Icrc.
Questa disorganizzazione è stata decisiva anche quando si è dovuto far fronte a gravi emergenze. Nove mesi dopo il sisma, nel Paese è scoppiata un’epidemia di colera che ha causato migliaia di vittime. La Croce Rossa si era impegnata a fornire il materiale per fronteggiare una nascente situazione d’emergenza sanitaria, come sapone o integratori per la popolazione. Risultato: dopo 6 mila morti, scrive ProPublica, un rapporto interno parlava di un programma anti-colera “molto in ritardo”, anche se la stessa Croce Rossa, negli anni seguenti, pubblicizzerà il suo intervento sottolineando il ruolo svolto nella lotta all’epidemia. Come ha però dichiarato un ex funzionario impegnato a Campeche, “per ogni cosa erano necessari tempi quattro volte superiori al normale a causa dell’inesperienza e dello strettissimo controllo da parte dei vertici dell’organizzazione”.
Twitter: @GianniRosini
Huffington Post
08 06 2015
Nella tragedia dei migranti, nella schifezza di mafia capitale e nello straordinario lavoro di poliziotti, sanitari e volontari che salvano ogni giorno, da mesi, centinaia di migliaia di vite umane, c'è un aspetto che è sintomatico e che il mio sindacato, il Sap, ha denunciato pubblicamente. Mi riferisco alla vicenda delle card, ai badge assegnati ai migranti ospiti delle strutture di accoglienza che permettono di fruire di vari servizi, dalla mensa fino alla possibilità di accedere a determinati locali. Ebbene, in Sicilia come in Calabria, oltre ovviamene alla capitale, queste card vengono assegnate alle persone che arrivano dopo la loro presa in carico da parte della cooperativa che gestisce il centro.
Siccome i migranti non sono dei reclusi all'interno dei Cie e dei Cara, in molti casi si allontanano per raggiungere altre mete europee, senza lasciare tracce. Ma quello che molti non sanno è che queste card rimangono attive, quindi le cooperative continuano tranquillamente a incassare dallo Stato i 40 euro giornalieri previsti per la gestione di ogni singolo ospite. Una cifra che cresce per i minorenni. Basterebbe questo per far capire che il sistema, oltre ad essere marcio, è soprattutto sbagliato, sin dalle fondamenta. L'analisi più lucida è probabilmente quella che ci ha offerto Cazzullo sul Corriere della Sera che ha parlato dei migranti come di un grande paradosso del nostro Paese. Un paradosso che per certi versi è paradigmatico dell'intera società italiana contemporanea.