Il Manifesto
25 06 2014
L'Italia condannata nuovamente per violazione dell’articolo 3 che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano e degradante. La Corte Europea ha condannato il nostro Paese per le violenze subite dal signor Dimitri Alberti nel 2010 a Cerea in provincia di Verona. Le violenze sarebbero state inferte dai Carabinieri. I giudici europei hanno sostenuto che le fratture alle costole e le lesioni ai testicoli non fossero compatibili con il normale uso della forza. Inoltre non vi sarebbe stata un’inchiesta giudiziaria effettiva. Il signor Alberti potrà ora avere un risarcimento di complessivi 19 mila euro.
“La decisione della Corte Europea – dichiara Patrizio Gonnella – questa volta riguarda direttamente un caso di dure violenze. Dopo questa sentenza, dopo le parole del papa ci auguriamo che subito, senza tentennamenti che sarebbero colpevoli, si arrivi alla introduzione per legge del delitto di tortura nel codice penale. Inoltre chiediamo che le massime cariche istituzionali si esprimano a riguardo e diano segnali forti e inequivocabili contro gli abusi, la tortura e ogni forma di violenza pubblica.”
Il Manifesto
30 10 2013
L'Italia è quello strano Paese dove moralismo e perbenismo possono fare la differenza anche in positivo. Qui un senatore come Giovanardi (Pdl), di fronte a uno stupro di gruppo verso una minorenne, può dire apertamente che essendo la sessualità «uno dei tanti beni di consumo», non ci si può scandalizzare «se i ragazzi non si rendono neppure conto dell'inaudita gravità di certi comportamenti». Mentre la senatrice Fattorini (Pd) può ardire, nell'appoggiare il «pacchetto sicurezza» da poco passato in parlamento, che «la donna è una vittima che, paradossalmente, è tale perché diventata troppo forte».
Di certo il cosiddetto decreto femminicidio, convertito in legge 15 giorni fa, ha fatto chiarezza tra chi dice «no», chi accarezza l'idea che così va bene, e chi invece non ne vuole sapere. Spartiacque che tra le femministe di Paestum ha prodotto un forte dibattito e la stesura, da parte di alcune, dell'appello «Non in mio nome» a cui sono arrivate molte adesioni, e che adesso promuove un'assemblea pubblica per domani a Roma (ore 17,30 alla Casa Internazionale delle donne in via della Lungara, 19), per «pensare insieme a prossime azioni politiche, in un quadro di provvedimenti che utilizzano il corpo delle donne per intervenire sulla vita di tutte e di tutti». Un dibattito acceso che, per esempio, all'interno di Snoq ha decretato una scissione pubblica tra le «Libere» e la «Factory», con le prime a favore delle normative del decreto, e l'altra fortemente critica.
Eppure non serve una rassegna stampa per dire che con le nuove normative le donne continuano a morire e a essere massacrate: una legge presentata come una «bacchetta magica» contro il femminicidio, con una storia però che non comincia qui. «È dal 2007 che va avanti il nesso tra politiche securitarie e violenza sulle donne - dice Anna Simone, sociologa del diritto e ricercatrice a Roma Tre - quando ci fu lo sgombero del campo rom a Tor di Quinto voluto dall'allora sindaco Veltroni dopo l'uccisione di Giovanna Reggiani. In quel momento la strumentalizzazione sul corpo delle donne e la costruzione del consenso politico su questo, portò alle misure d'urgenza dell'allora ministro dell'interno Maroni che, a partire dalla violenza sulle donne, puntava all'espulsione degli immigrati, eludendo i dati dell'Istat che proprio in quel momento dicevano che la violenza in Italia era soprattutto agita da italiani e in casa. Un decreto che fu epurato da quella mostruosità, ma che è in stretta relazione con quello che succede adesso, sebbene ora il governo abbia capito che si tratta per lo più di violenza domestica».
Per Anna Simone, che è anche una delle promotrici dell'incontro «Non in mio nome» a Roma, la manifestazione che ci fu nel 2007 portò in piazza 150 mila donne e aveva la stessa motivazione nel contestare il nesso tra violenza sulle donne e intervento securitario: «Quello che si sta facendo oggi - conclude - sui corpi delle donne ma anche su quelli dei gay, delle lesbiche, e sui corpi dei migranti, sono politiche di facciata che prescindono dai diritti reali di queste persone. Ed è per questo che si parla di vittime sia sul femminicidio, che a Lampedusa, o per l'omofobia, perché la messa in tutela non cambia nulla del tessuto culturale che è invece il nodo del problema». Un fattore che in Italia ci si guarda bene dall'affrontare anche perché in tempi di crisi servono soldi e finanziamenti certi, investimenti per un proficuo cambiamento culturale, sbandierato da molti ma solo in teoria.
Il Manifesto
23 10 2013
Funerali senza bare né superstiti per le vittime del naufragio di Lampedusa. Contestato il ministro Alfano. Alla cerimonia di Agrigento non ha partecipato per protesta il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini. Il governo delle larghe intese tocca il fondo
«Faremo funerali di stato per le vittime di quello che è avvenuto, sono tutte scelte che stanno in una logica di compartecipazione a una sofferenza drammatica, una tragedia immane, che in queste dimensioni non è mai accaduta nel Mediterraneo. Le parole che abbiamo detto a tutti coloro che abbiamo incontrato in questi giorni sono anche le parole di scuse per le inadempienze del nostro paese rispetto a una tragedia come questa».
Queste le parole pronunciate da Enrico Letta il 9 ottobre scorso. Ma quello che si è svolto ad Agrigento su di un molo che non ha visto, per fortuna, mai approdare cadaveri di migranti, non è stato un rito funebre ma una semplice cerimonia che ricorda chi è morto traversando il mare. Una cerimonia «in absentia» delle bare, in contumacia, verrebbe da dire, dato che quei corpi erano rei del reato di immigrazione clandestina. Seppellito in località segreta, per ora, il corpo di Priebke, sepolti in loculi sparsi e spersi per la Sicilia con un numero al posto della lapide, i corpi dei migranti.
A questo squilibrato parallelo la cerimonia avrebbe voluto porre il sigillo, silenziare con la presenza del Governo le polemiche legate alla mancanza di rispetto dovuta alla tragedia che ha colpito centinaia di famiglie di qua e di là dal Mediterraneo. E qui si svela il volto ipocrita ma soprattutto la fragilità dei poteri costituiti, che mettono la sordina allo scandalo della mancata accoglienza senza nemmeno il coraggio di un riconoscimento, di un riguardo, per le vittime, come invece il funerale di Stato avrebbe mostrato.
Rispetto e riguardo hanno la stessa radice, significano «guardare due volte», per accorgersi che il volto che hai di fronte è il tuo stesso volto, il corpo nella bara è il tuo stesso corpo che solo un caso fortuito ha voluto avesse un altro destino. Ma è proprio questo riconoscere che è mancato, che si è fatto mancare: un funerale, un rito funebre dinanzi alle bare, ne avrebbe invece dato testimonianza. Ma è possibile il riconoscimento dell'alterità migrante quando sono in gioco equilibri politici così fragili come quelli che oggi governano il nostro paese? Sarebbero veramente stati possibili funerali, addirittura di Stato, ancora vigente la Bossi Fini? La risposta è chiara, e la cerimonia di Agrigento è solo l'ombra di ciò che avrebbe dovuto essere e non è stato.
Le parole che il Ministro degli Interni, contestato da alcuni rappresentanti delle associazioni di accoglienza dei migranti e portato via, ha pronunciato rispetto alla «difesa delle nostre coste», chiudono la porta a quella riforma della legge sull'immigrazione che, nello stesso momento, a Roma, il Sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini e il Senatore Luigi Manconi chiedevano al Presidente della Repubblica.
Agrigento è una occasione mancata anche perché mancavano i parenti delle vittime, che la pelosa protezione di Stato non ha voluto portare il quel luogo, mentre, invece, erano presenti emissari di quei governi da cui molti, tutti, sono scappati e dunque, per evitare tardivi riconoscimenti e altri drammi, i profughi sono stati lasciati nei Centri di Accoglienza.
Il presidente dell'associazione Habeshia, che si occupa dell'assistenza dei profughi eritrei in Italia, Mussie Zerai, ha scritto una lettera alla ministra Kyenge per chiedere urgentemente un incontro: «L'ambasciatore eritreo e i suoi funzionari si aggirano indisturbati a Lampedusa tra i richiedenti asilo, raccogliendo dati e fotografie per la schedatura dei fuggitivi senza che nessuna autorità italiana intervenga», mentre l'Associazione Culturale Askavusa di Lampedusa sceglie di restituire «al Presidente della Repubblica le medaglie al valore che l'isola aveva ricevuto nel 2011 e 2012», con la motivazione che troppa è la distanza tra ciò che si promette e ciò che si mantiene. Un paradosso tra gli altri, come paradossale è l'aiuto che si continua a fornire a questi governi senza che la politica estera dell'Italia prenda in minima considerazione la precondizione dei rispetto dei più fondamentali diritti umani.
Il prossimo Consiglio europeo sarà dedicato ai temi dell'immigrazione, e se non si darà spazio sufficiente a questi problemi l'Italia non sarà soddisfatta; così ancora ha dichiarato il premier Letta insieme al suo omologo greco. Vedremo presto se alle parole seguiranno i fatti e quali.