Il Messaggero
25 05 2015
Cominciano ad affiorare le prime cifre della battaglia di Palmira. Tra mercoledì e ieri, i Jihadisti avrebbero ucciso circa quattrocento abitanti e trecento tra soldati e milizie dello stato, gli Shabiha, composte da civili sia uomini che donne …
Il Manifesto
21 05 2015
Incontri. Un'intervista con Madame Moustache, artista francese che s'interroga sulla questione del genere. «Mi piace mescolare le apparenze»
Uomini dagli sgargianti rossetti rossi sotto baffi irsuti, ombretti colorati, ciglia lunghe, orecchini, vestiti femminili, gambe scoperte e scarpe col tacco, a fare da contraltare donne con i baffi, tatuate come marinai, un po’ rudi e dalle sembianze mascoline. Sono i personaggi rappresentati dall’artista francese Madame Moustache che gioca e si diverte con un immaginario ripescato dai primi del Novecento. Collage ispirati a fotografie tratte da vecchie riviste e accompagnati da slogan che recitano frasi così: «Ma chi ha deciso per me che io dovessi essere una donna», dove donna è sbarrato da una riga come se fosse un errore. O ancora «Perché a mettersi a nudo non si perde necessariamente la propria dignità».
Nelle sue composizioni di grandi dimensioni, Madame mescola elementi circensi e travestimenti, inganna con le apparenze, scardina i ruoli. Una maniera ludica per scombinare le identità, come fa a partire dal nome in cui accosta il termine signora a baffo anticipando già l’interesse per temi che riguardano la questione di genere. «Rappresento il mondo del teatro e per traslazione quello delle apparenze — spiega — quel luogo magico dove si può essere chi si vuole, a partire dal momento in cui ci si mostra agli altri. Tutto il mio lavoro si basa su questa idea. M’interrogo molto sulla questione del genere e sullo sguardo dell’altro, un’eredità lasciata dalla mia esperienza teatrale durata dieci anni. È il fil rouge che attraversa il mio lavoro, un tema importante perché universale. Per questo uso le maschere, il trucco per gli uomini, donne travestite. Mi diverto a giocare con le identità e le frontiere per fuorviare e far ridere».
Le sue opere, stampate su carta e affisse in strada, sono correlate da frasi efficaci che attraverso l’ironia invitano a una riflessione, come dimostra Boxing Bologna, il nuovo intervento realizzato a Bologna per Cheap, l’unico festival italiano di Poster Street Art (che usa la carta come supporto, fra gli altri ospiti anche Levalet e Vinz Feel Free) sul muro della palestra di boxe Le Torri intitolata al fondatore Gianfranco Cesari. «Non avevo avuto bisogno di violenza per imparare a battermi»: protagoniste sono due donne che uniscono le mani, sullo sfondo cuori e lacrime rosse.
L’edificio, in un parco vicino al grande complesso abitativo soprannominato «virgolone», e il quartiere popolare e multietnico in periferia non sono stati scelti a caso, ma rispondono a un preciso scopo del festival di coinvolgere parte di una comunità lontana e un po’ al margine rispetto alla vita pulsante del centro. Un territorio a volte fragile e problematico, in cui più che in altri la partecipazione dei cittadini assume un ruolo importante, raccogliendo le persone intorno ad un progetto artistico e simbolico dalla portata sociale e politica, intesa non per i messaggi, ma per quel coinvolgimento di una parte di persone spesso esclusa dai circuiti culturali e non solo. La palestra è anche luogo di aggregazione e la frase sulla violenza in quel contesto allarga ed espande il valore del suo significato.
«Mi ha entusiasmata lavorare sulla nozione di sport in senso esteso — racconta ancora l’artista — La difficoltà era creare qualcosa efficace come un pugno, ma al tempo stesso sottile tanto da suggerire altri spunti oltre la boxe. Difficoltà che ho ritrovato anche nel contesto in cui s’inseriva il muro stesso, un quartiere popolare non necessariamente sensibile all’arte. Volevo che quel muro fosse un legame fra dentro e fuori. Amo lo sport, ma detesto la violenza in tutte sue le forme. Parlare di sport può significare anche parlare di violenza e rappresenta un tentativo di affermare quanto sia inutile ovunque si manifesti».
Le sue opere s’inseriscono nel cuore dello spazio pubblico. «I miei collage — continua Madame Moustache — hanno una patina particolare per l’effetto dei colori sbiaditi e dell’aspetto rovinato. Taglio e metto insieme i pezzi a mano per conservare un aspetto volutamente fragile. La fotografia, il disegno e la stampa sono parte integrante del mio lavoro. Amo che le mie opere subiscano il tempo che passa, che vivano al ritmo del luogo in cui si trovano. Mi piace che una volta posata, l’opera non sia più mia e cominci una propria vita. Qualunque cosa le succeda amo che subisca gli effetti della strada, interagisca con essa e crei un dialogo».
Madame ingrandisce e stampa le immagini in bianco e nero in grande formato, poi aggiunge il rosso con la tecnica del pouchoir, coloritura manuale usata negli anni Venti per le cartoline postali. Simultaneamente alla realizzazione del muro per Cheap la streetartist, classe 1982, ha allestito nello spazio 9mq la mostra Madame Moustache Solo, una dozzina di modelli originali attraverso i quali si può capire il processo di creazione. Da più di un anno, l’artista lavora con la Traffic Gallery di Bergamo, insieme agli italiani Orticanoodles e Lucamaleonte (ospiti entrambi della scorsa edizione di Cheap) e in passato ha già realizzato altri lavori in Italia. Nel 2013 alla Sorbona è intervenuta a una conferenza sulla street art femminile.
A Parigi ha alcuni quartieri d’elezione per lavorare in strada: torna spesso nelle zone che ha scelto perché ha amato l’accoglienza che hanno avuto le sue composizioni o semplicemente perché le piacciono. «È un modo d’iscrivermi in un paesaggio che amo», dice. Ha in programma altri lavori nel nostro paese, alcune mostre personali in Francia e vari festival. Il suo approccio al lavoro è improntato alla totale libertà, è uno specchio del suo carattere. «Il mio procedimento parte da una dimensione intima per approdare a una pubblica. Spesso incollo i lavori in maniera selvaggia, la finalità è arrivare al cuore dello spazio pubblico: mi interessa mettere a nudo l’intimità che ha fatto nascere l’opera».
Alfabeta2
11 05 2015
È cosa nota che Marcel Duchamp decise di lasciare, quella che diverrà poi la sua opera più importante, Le grand verre, incompiuta. Durante la lavorazione americana dell’opera, nel 1923, infatti, si ruppe il sottile vetro che doveva, sostituendo la tradizionale tela, contenere la sua sibillina rappresentazione. Ma come spesso accade nell’arte, l’incompiuto della forma ci dice molto sul suo contenuto espressivo rendendolo ancor più prezioso.
Per tentare di decifrare la complessa e controversa opera di Duchamp si deve partire dal suo famoso sottotitolo: La Mariée mise à nu par ses célibalaires, meme. È, in tal senso, il grande vetro, una straordinaria figurazione del rapporto tra capitalismo e desiderio, la storia di un amore impossibile tra una sposa semicompiacente e uno scapolo ansioso (Arturo Schwarz). È la storia di una interpellanza, di una chiamata, che (fortunatamente) non potrà mai realizzarsi fino in fondo, perché il rapporto sessuale non esiste. Il n'y a pas de rapport sexuel, riproporrà Lacan qualche decennio dopo. E neanche l’astuta macchina capitalistica è in grado di trasfigurare una volta per tutte, ricoprendo il buco di merci, il “mondo in giallo”. Il punto di partenza: l'Eros, motore del tutto. Chi sono i soggetti che mettono in scena l’opera di Duchamp? la Vergine nella sezione superiore del vetro a citare l'Assunzione come nei dipinti medievali e rinascimentali e i suoi Scapoli o Celibi sottostanti, in trepida, macchinica attesa di consumare e macinare gioia e dolore.
Ora questa premessa è necessaria perché sarebbe un errore interpretare il volume di Frédéric Lordon Capitalismo, desiderio e servitù, appena uscito in italiano per la nuova e promettente collana operaviva di DeriveApprodi, come un libro che, cercando di sviscerare le più interne e astute macchine del neoliberalismo, adagi senza scampo la vita alla logica del Capitale. Occorre precisarlo subito perché, in effetti, una lettura veloce e superficiale del testo potrebbe aprire la strada a questo fallace orientamento interpretativo. Sono, a mio avviso, certamente altri gli intenti dell’autore. Provo quindi di seguito a estrarne qualcuno.
Lordon apre il volume con tre citazioni, una di queste è attribuita a Deleuze. Le altre due, rispettivamente la prima e la terza, a Vinaver e a Spinoza. Il richiamo al filosofo francese (di cui però poi nel libro, per lo più, ci si dimentica) ci segnala che questo libro, questo utile e suggestivo libro, riparte esattamente da dove Deleuze e Guattari erano arrivati con i loro volumi (l’anti-Edipo e Mille piani) dedicati al rapporto tra capitalismo e schizofrenia: “Il desiderio è dell’ordine della produzione e ogni produzione è desiderante e sociale insieme” (L’anti-Edipo, p. 337). Lo scenario del capitalismo contemporaneo e neoliberale per Lordon, infatti, disegna, “ci mostra, un paesaggio passionale”. L’analisi del desiderio, o meglio del conatus, in senso spinoziano, è qui posta al centro di ogni dinamica di valorizzazione capitalistica; il modo in cui il desiderio è arruolato, allineato, ingaggiato, depredato e messo al servizio del capitalismo l’oggetto fondamentale della ricerca di Lordon. Questa tesi è costruita dall’autore secondo due mosse fondamentali tra loro strettamente combinate, e quindi anche inseparabili: a) per comprendere lo sfruttamento nel capitalismo contemporaneo occorre “combinare lo strutturalismo dei rapporti con un’antropologia delle passioni. Marx insieme a Spinoza” (p.9); b) a partire da qui assumere il dominio, e la sua gestione, non come esercizio di un “semplice bastone”, ma rendendo i dominati per lo più contenti e consenzienti rispetto alla loro condizione di assoggettamento.
Molto ordinato, chiaro e scritto con uno stile a tratti avvincente e incalzante, il libro è innanzitutto quindi, a miei occhi, importante perché produce un autentico sforzo teorico transdisciplinare per proporre un’analisi aggiornata, e quindi adeguata, dei processi di organizzazione del potere capitalistico nella contemporaneità, analisi che i concetti di sottomissione (formale e reale) utilizzati da Marx, oramai quasi due secoli fa, per quanto ancora necessari, non sono più sufficienti a consegnarci nella loro rinnovata dinamica operativa. Tale analisi, quella che vuole aggiornare l’apparato di critica al capitalismo, abbisogna, infatti, di uno sguardo che sappia de-sacralizzare e al contempo scuotere alle radici alcuni degli assiomi fondamentali del tradizionale pensiero critico. In particolare l’idea che il dominio del Capitale sia rappresentabile come un sistema di soli apparati coercitivi e disciplinari è qui denunciata con forza dall’autore e posta come fuorviante. Il testo di Lordon assume al contrario l’idea che per capire il potere neoliberale, dominio e consenso possano e debbano essere considerati come due momenti dello stesso movimento, sostenendo l’idea (neanche tanto originale, tra l’altro) che il concetto di dominio sia oggi caratterizzato “dallo spettacolo dei dominati felici”. Su questa questione specifica, che trovo fondamentale per apprezzare il volume, tornerò però più avanti, quando tenterò di indicare anche i limiti della proposta di Lordon.
Per cogliere la struttura del capitalismo occorre allora interpretarlo, seguendo il sociologo francese, come un tanto dinamico quanto specifico regime di desiderio. L’analisi dell’autore assume come momento fondamentale del suo approccio il rapporto tensivo tra le strutture soggettive e le cose sociali. È in seno a questo rapporto, mai determinato e chiuso una volta per tutte, che il metodo proposto da Lordon, definito della “genesi epito-timica”, acquista spessore (e interesse) teorico. Richiamando la teoria del campo di Bourdieu, dove gli attori convergono attraverso la reciproca accettazione delle norme che definiscono il frame del loro “gioco” sociale, l’autore definisce il capitalismo come un apparato di cattura degli immaginari desideranti, un apparato d’ingegneria dei desideri che cattura il soggetto, attraverso la selezione e la proposizione di alcuni oggetti fondamentali che poi lo animano e dinamizzano incessantemente. “L’epito-timia capitalistica, comunque inscritta nel trittico oggettuale di fondo del denaro, merce e lavoro, con forse l’aggiunta in trascendenza della grandezza come oggetto generico – per fare una forma a quattro lati, ma specificatamente ridefinita a partire dai tre vertici della base (grandezza della fortuna, dell’ostentazione e dei successi professionali) – sintetizza gli oggetti di desiderio degni di essere perseguiti e gli affetti che nascono dal loro perseguimento” (p. 72).
L’analisi si fa però ancora più stimolante e stringente quando Lordon si domanda le ragioni che portano l’attuale modello neoliberale a stravolgere le caratteristiche tradizionali del rapporto di lavoro salariato, rapporto sui cui poggia e organizza – ab origine - il rapporto di potere (e di produzione) capitalistico. L’esplosione in molteplici modi e forme del rapporto salariale nel modello liberale è consustanziale al tentativo neoliberale di allineare, senza più mediazioni, il desiderio dei lavoratori al del desiderio-padrone del capitale. Ma non è ancora sufficiente. Infatti, la stimolazione e il recupero da parte del modello delle componenti affettive, vocazionali, ed emozionali del lavoratore (e l’ingiunzione che ne segue al consumo compulsivo) ha lo scopo di instaurare, secondo Lordon, una “naturale” predisposizione dei lavoratori ad attivarsi dall’interno, spontaneamente al servizio dell’organizzazione capitalistica. È quella che viene qui definita la sedimentazione di una nuova “servitù volontaria”. Forma di servitù “decisamente particolare poiché, in effetti, gli asserviti vi acconsentono” (p. 76). Consenso, obbligo, coercizione, desiderio e godimento si impastano e si alternano fino a delimitare il territorio e la sincopata temporalità sociale del capitalismo neoliberale.
Evidentemente lo scenario che deriva dalla lettura di Lordon non può che delineare uno scenario in cui la soggettività appare per lo più subordinata, indirizzata inesorabilmente verso il desiderio dell’Altro. Lordon usa una figura efficace per leggere il paradosso di una soggettività sempre più individualizzata e al contempo (con buona pace di Durkheim) sempre più caratterizzabile da una “felice obbedienza” e dall’orientamento dei conatus: l’auto-mobile. “E benché auto-mobili, siamo irrimediabilmente eterodeterminati” (p. 80).
L’esito che produce il nuovo discorso capitalista è dunque, e qui mi sento molto in sintonia con Lordon, un soggetto che si crede indiviso e libero di agire (è quello che Alain Ehrenberg chiama l’imporsi di un nuovo stile di passione intrecciato all’emergenza dell’autonomia come imperativo sociale di soggettivazione) mentre invece il suo campo libidico, il suo desiderio, è già fin da subito confinato nell’orizzonte di quella che si può definire come soggettività fantasmagorica, in altri termini una società che sfrutta, orienta e produce, per funzionare al meglio, il fantasma soggettivo (che in senso psicoanalitico descrive la particolare modalità attraverso cui la realtà viene allucinata da ciascuno per sostenere il proprio desiderare e ottenere quote di godimento) dentro il regno della merce. Zizek chiama la qualità anfibia che caratterizza il fantasma, che permette l’instaurarsi di una connessione inedita e post-moderna tra individuo e società, il suo “scandalo ontologico”. Secondo il filosofo sloveno il fantasma appartiene, infatti, a ciò che si può definire attraverso la categoria dell’oggettivamente soggettivo. E questo è fondamentale perché spiega le ragioni profonde della necessità sia economica che ideologica della produzione di libertà nel modello neoliberale (Foucault) e al contempo svela il meccanismo osceno di formazione della monade iperegoica del contemporaneo.
La critica che invece mi sento di rivolgere al testo di Lordon riguarda la centralità che nella sua analisi sulle nuove logiche di sfruttamento continua a occupare l’impresa e il rapporto salariale. In questo senso mi pare che l’autore, pur dimostrando una certa insofferenza verso una teoria dello sfruttamento che assume il concetto marxiano di sottomissione/sussunzione come sua unica modalità di funzionamento, non segue fino in fondo le sue intenzioni, mostrando un eccesso di prudenza verso la necessità (a mio avviso oggi non più rimandabile) di comprendere le nuova logica dello sfruttamento. Logica che, pur in interazione con i processi in cui è ancora la forza-lavoro a venire direttamente interpellata dal Capitale, è la soggettività, come forza-valore, che viene direttamente chiamata in causa e processata dai nuovi dispositivi di estrazione e proprietarizzazione del valore.
D’altra parte, e in conclusione, ricordando le incrinature del “grande vetro” da cui siamo partiti, occorre sostenere con convinzione che comprendere le astute modalità attraverso cui il capitalismo neoliberale produce una nuova e allineata soggettività desiderante (Dardot e Laval) ci mette nella condizione, tutta politica, di produrre, al contempo, l’approfondimento delle incrinature che ne attraversano le stratificazioni e che devono essere continuamente saturate dal Capitale. Come preso in un inevitabile trade off, possiamo infatti credo affermare che maggiore è il livello e la capacità di penetrazione soggettiva dei diversi dispositivi mobilitati più il controllo e il governo del diagramma diverrà problematico, questo a causa della complessità crescente di gestione dei nuovi poteri molecolari. Come ha sostenuto Deleuze nel suo Foucault, ogni volta che si produce un mutamento nel capitalismo “si verifica forse anche un movimento di riconversione soggettiva con le sue ambiguità ma anche con le sue potenzialità”.
Come è possibile, allora, rivoluzionare un sistema che è costitutivamente rivoluzionario? E che sa metabolizzare e fare proprie le mosse che l’azione critica gli rivolge? Lordon propone una via che mi pare condivisibile e su cui vale la pena soffermarsi: si tratta di produrre, attraverso la crescente mobilitazione delle passioni sediziose, “una radicale emancipazione del lavoro” (p. 170). In altri termini è necessario separare il lavoro dall’attività, contro quelle interpretazioni, che lui definisce essenzialiste e antropologizzanti, che hanno invece spinto ad assimilare al lavoro “tutte le possibilità delle effettuazioni (sociali) che si offrono alle potenze di agire individuali” (p. 171). Ecco allora che l’orizzonte del comunismo pare, seguendo Lordon, potersi riaprire nell’attuale dispiegarsi della potenza dell’operaviva.
Il Fatto Quotidiano
28 04 2015
L'iniziativa è nata grazie al contributo di Roma Matrix e con la partnership dell'associazione 21 luglio, del Comune e del consorzio Indaco: "Su 180mila che abitano in Italia", spiegano gli oganizzatori, "ce ne sono 130mila che vivono in case di muratura, versano le tasse, hanno un impiego regolare e si guadagnano il pane onestamente, come qualunque altra famiglia italiana”.
Susi è una barista, ha i capelli chiari legati sulla nuca, gli occhi scuri e, forse, se siete passati da Lucca vi avrà servito il caffè. Lei, come altre 130 mila persone in Italia, è una rom, paga le tasse regolarmente, abita tra le mura di una casa, e no, non vive di furti o di elemosina raccolte per strada. La sua storia è una delle 13 ritratte nella mostra “Viaggio tra rom e sinti nell’Italia che lavora”, inaugurata a Bologna il 22 aprile sotto il portico della corte Roncati, e aperta al pubblico per due settimane. Una piccola esposizione, un corridoio di immagini in un angolo nascosto della città, che però riesce ad aprire una finestra e a illuminare un intero pezzo del nostro paese. Una realtà troppo spesso schiacciata da stereotipi, inchiodata da opinioni grossolane e superficiali, e filtrata dalle immagini distorte della propaganda politica.
“La mostra – spiegano gli organizzatori – vuole scattare un’istantanea della condizione lavorativa delle comunità rom e sinti insediate in Italia. Il pensiero comune spesso associa l’universo rom all’immagine di uomini che rovistano nei cassonetti o chiedono l’elemosina per strada. Invece, su 180mila che abitano in Italia, ce ne sono 130mila che vivono in case di muratura, versano le tasse, hanno un impiego regolare e si guadagnano il pane onestamente, come qualunque altra famiglia italiana”.
L’iniziativa è nata grazie al contributo di Roma Matrix, progetto internazionale per l’inclusione di rom e sinti nell’Unione europea, e con la partnership dell’associazione 21 luglio, del Comune di Bologna e del consorzio Indaco, realtà che unisce diverse cooperative sociali. L’obiettivo è smantellare i cliché e i pregiudizi, per mostrare come la maggior parte di rom e sinti si guadagni lo stipendio onestamente, e abbia abitudini di vita identiche a quelle del resto della popolazione, italiana e straniera. Basterebbe un episodio per dimostrarlo. Alla presentazione della mostra avrebbe dovuto partecipare anche uno dei rom catturati dagli obiettivi dei fotografi. Essendo però una giornata feriale, il giovane ha dovuto rinunciare per mancanza di permesso lavorativo.
E se questo non fosse sufficiente, ci sono i numeri a parlare: solo uno su cinque dei rom e dei sinti in Italia ha dimora in un campo, in casette mobili. Un gruppo ristretto rispetto a una maggioranza che è in Italia da generazioni, vive e lavora in mezzo a noi, invisibile e mimetizzata. Anche perché spesso queste persone preferiscono non rivelare le loro origini, per evitare il rischio di essere emarginati o penalizzati nelle questioni di ogni giorno. Colpa del razzismo diffuso, che spinge anche chi riesce a riscattarsi dalla vita nei campi a tenere nell’ombra la propria identità, talvolta la propria famiglia e le proprie amicizie.
Dietro i 13 volti della mostra di Bologna ci sono storie e testimonianze, raccolte da nord a sud. Ciascuno di loro si mostra, con il proprio carico di coraggio e speranza. C’è chi, come Concetta è impegnata a sistemare uno degli abiti da lei disegnati, in un atelier di Isernia. O Gordon, sorridente davanti al suo camion. Ma poi ci sono anche Dolores, giovane videomaker di Melfi, Laura, regista di Torino, e Manuel, infermiere a Lucca. La mostra è gratuita e visitabile fino al 5 maggio, nella corte Roncati di via Sant’Isaia 90, a Bologna.
di Giulia Zaccariello