Dinamo Press
17 09 2014
Movimenti sociali e sindacati di base si sono incontrati allo "Strike Meeting" di Roma per costruire una piattaforma comune e l'opposizione alle politiche neo-liberali del governo Renzi. Primo obiettivo: organizzare il 14 novembre uno sciopero sociale di 24 ore. Contro l'austerità, in lotta per il salario minimo orario, il reddito di base e i beni comuni.
Le domande proposte dallo Strike Meeting, che si è svolto lo scorso fine settimana a Roma, sono semplici, nella loro difficoltà. Le riportiamo, aggiungendo un commento singolare a un evento la cui ricchezza non può che essere espressa da tante voci: è possibile costruire un'opposizione sociale radicale alle politiche neoliberali europee e al governo Renzi? È possibile farlo, soprattutto, in un paese segnato dal declino e dalla marginalità, oltre che economici, politici e culturali? Queste le domande a cui le centinaia di precari, studenti, attivisti sindacali, dei centri sociali e dei comitati in difesa dei beni comuni, che hanno animato tre giorni intensi di confronto, proveranno a rispondere nei prossimi mesi.
Si comincerà con l’autunno, indubbiamente, con l’ambizione di dare vita (il 14 novembre, questa è la proposta) a uno sciopero sociale di 24 ore. Uno sciopero capace di andare oltre il lavoro dipendente e di coinvolgere le tante figure del precariato, i migranti, i disoccupati, le partite Iva. Uno sciopero della rete e della formazione, uno sciopero del genere, uno sciopero biopolitico e metropolitano. Ma l’idea uscita con forza dalle decine di interventi che si sono susseguiti nei tanti workshop e nelle plenarie è quella di avviare un processo aperto, espansivo, che non si risolva nella puntualità di una giornata di lotta. Lo sciopero sociale sarà uno sciopero, anche e soprattutto, però, un nuovo processo di soggettivazione e di conflitto.
Le due sfide a cui ‒ lo diciamo senza esitazioni ‒ ha già risposto positivamente lo Strike Meeting sono le seguenti: è possibile, nell’impasse dei movimenti italici, delineare uno spazio pubblico di movimento dove alla competizione tra gruppi si sostituisce la composizione delle differenze? Ancora: è possibile che questo spazio non sia generalista (o roboante nei toni) e produca, piuttosto, un discorso programmatico maturo?
“Sprovincializzare l’Italia!”, in sintonia con questo desiderio, che finalmente contagia molti, il Meeting si è aperto attraverso una tavola rotonda animata da attiviste/i provenienti da Germania, Grecia, Spagna, Portogallo, Francia. L’omogeneizzazione europea del mercato del lavoro e del welfare è stata al centro della discussione, così come l’esigenza di contrapporre a essa lotte precarie propriamente transnazionali. Come spesso ci troviamo a dire: lo spazio europeo è spazio minimo di un conflitto anticapitalista degno di questo nome. Nel senso della sprovincializzazione, poi, il metodo di lavoro: miscela di workshop e plenarie, con il primato indiscusso dei primi, pazienza del confronto e presa di parola corale, senza forzature o presidenze che decidono chi, quando e per quanto tempo. Cose scontate in quasi tutto il mondo, tranne in Italia, appunto.
L’insistenza sulle comuni pretese programmatiche, oltre alla partecipazione poderosa, hanno fatto la qualità dell’evento. Mai come in questa occasione, precari, studenti e sindacati conflittuali, hanno chiarito la necessaria combinazione delle lotte sul reddito con quelle sul salario minimo europeo, dei conflitti sulla formazione con quelli in difesa dei beni comuni. È consapevolezza diffusa, infatti, che la crisi abbia dismesso i panni dell’eccezione e si sia fatta nuova regola: working poor, privatizzazioni, in parole marxiane, una permanente accumulazione originaria.
Sì, la domanda iniziale, quella con cui ci si è lasciati nella plenaria che domenica ha chiuso i lavori, è difficile come poche, e solo fatti reali potranno abbozzare risposte utili. Ma costruire le condizioni minime affinché le risposte possano essere cercate, questo è stato forse il risultato più prezioso dello Strike Meeting.
Pagina99
17 09 2014
Come siamo messi in Italia con la giustizia sociale? Male, molto male. Stando al report EU Social Justice Index 2014, risultato di un progetto della fondazione tedesca Bertelsmann Stiftung e della London School of Economics, siamo dietro a quasi tutte gli stati europei, a parimerito con la Lettonia in 23esima posizione su ventotto paesi. Dietro di noi solo Ungheria, Romania, Bulgaria e Grecia.
Il report incrocia dati forniti dall'Unione Europea e da esperti selezionati riguardanti prevenzione alla povertà, opportunità educative, accesso al mercato del lavoro, coesione sociale, lotta alle discriminazioni, sanità e pari opportunità tra diverse generazioni.
Il primo dato importante e preoccupante è che in Europa il 25% della popolazione è a rischio povertà o esclusione sociale, con una crescita dell'1,7% rispetto all'anno scorso.
In generale – ed è questa la conclusione principale del report - aumenta il gap tra i paesi con sistemi di welfare molto sviluppati e quelli con un welfare più primitivo, sebbene il report metta in luce che anche le nazioni europee meno colpite dalla crisi presentano dei problemi, soprattutto per quanto riguarda l'ingresso nel mondo del lavoro, con i paesi scandinavi che vedono aumentare il loro dato sulla disoccupazione.
Nel welfare italiano – sottolinea il report – funziona soprattutto la famiglia. Rispetto al 2008 e al 2011 facciamo registrare un calo sensibile. In queste due rilevazioni, riuscivamo quantomeno a superare Portogallo e Spagna. Nel 2014 i due paesi iberici ci sono sopra. Dal 2007 al 2013, il dato percentuale che indica il tasso di grave privazione materiale è addirittura quasi raddoppiato, oltrepassando la già preoccupante media europea. Solo Cipro, Grecia e Ungheria hanno fatto peggio.
Siamo al ventesimo posto per lotta alla povertà, ventitreesimo per accesso al mercato del lavoro, ventunesimo per opportunità educative (su cui pesa tra le altre cose la nostra altissima disoccupazione giovanile), ancora ventitreesimo per coesione sociale, diciannovesimo per salute e addirittura ventisettesimo per la cosiddetta giustizia intergenerazionale. Siamo il paese più vecchio dell'Unione e quello che offre meno possibilità alle generazioni più giovani. Addirittura, mentre cresce il rischio di povertà ed esclusione sociale per il totale della popolazione italiana, e parallelamente anche per quella della fascia d'età 0-17 anni, i nostri seniors sono gli unici a godere di un miglioramento. E se l'accesso al lavoro continua a rimanere quasi un miraggio per i giovani italiani, anche il dato sulla povertà – già di per sé preoccupante – rischia negli anni e decenni futuri di diventare assai più rilevante, forse tragico.
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Contropiano
17 09 2014
L'Unione Sindacale di Base denuncia di aver appreso dalla stampa dell'avvio della procedura di licenziamento di ben 1478 dipendenti delle società MeridianaFly e Meridiana Maintenance, praticamente tutto il personale in forza alle due compagnie aeree. Si tratta secondo il sindacato di base dell'ennesima accelerazione di un progetto di distruzione di un'azienda storica del trasporto aereo e del suo capitale umano e professionale, portato avanti da un management irresponsabile e inetto.
"Di fronte a un scempio sociale di tali dimensioni - evidenzia l'USB - ci chiediamo chi sia davvero da licenziare, 1500 persone oppure pochi individui che siedono nel CdA. Certo che nessuno, per prime le Istituzioni rimaste da anni alla finestra, si aspetti che ci facciamo togliere il nostro lavoro in silenzio! Saranno utilizzati tutti gli strumenti in tutte le sedi possibili, all'interno di un conflitto che sarà il più duro vissuto dalla storica compagnia aerea. Piattaforma e modalità del conflitto saranno decise insieme ai lavoratori nelle assemblee che USB ha già indetto a Cagliari per il 19 settembre, il 23 a Milano Malpensa e il 25 a Verona, insieme alle sigle sindacali che finora hanno tentato di ostacolare l'operato dell'ing. Scaramella".
Ingenere.it
16 09 2014
a drastica e perdurante riduzione di assunzioni pubbliche fa sì che sempre meno giovani qualificati possano trovare uno sbocco occupazionale dovendo guardare al privato o all’estero. Le implicazioni per le donne, e in particolare quelle con maggiori qualifiche, sono ancora più forti. Un nostro precedente studio ha messo in luce che le donne che lavorano nel settore pubblico sono meglio posizionate in termini professionali rispetto alle colleghe che lavorano nel privato e con maggiori probabilità riescono a ricoprire, soprattutto se altamente scolarizzate, delle posizioni dirigenziali e a svolgere mansioni di tipo high skill. Un articolo (1) scritto da Solera e Bettio sulle donne italiane nate tra il 1945 e il 1974 evidenzia come il pubblico impiego, associato ad elevati livelli di istruzione, oltre a garantire alle donne posizioni di vantaggio sul mercato del lavoro, funge da surrogato alle politiche di conciliazione vita-lavoro e consente alle donne di divenire madri con maggior probabilità. Nello stesso articolo viene anche mostrata a partire dai primi anni duemila un’inversione di tendenza nelle retribuzioni femminili: nel 2004, l'ultimo anno di analisi, le retribuzioni annue nel settore pubblico hanno superato quelle del settore privato.
Da queste evidenze abbiamo deciso di approfondire l’analisi affrontando il tema del gap reddituale guardando alle retribuzioni: quali sono le differenze in termini retributivi tra uomini e donne rispetto al settore di attività economica? Dove è più marcato il gender pay gap? L’investimento in istruzione garantisce egualmente redditi più elevati sia che si lavori nel pubblico sia che si lavori nel privato? L’età e la correlata esperienza professionale sono remunerate analogamente nei due settori?
Dare risposta a queste domande non è semplice anche in considerazione delle limitate fonti dati che consentono di studiare i redditi da lavoro (sia dei lavoratori dipendenti ma soprattutto degli autonomi) distinguendo le informazioni rispetto al settore di appartenenza. Attingendo alla banca dati Isfol relativa alla III indagine sulla Qualità del Lavoro (2) siamo riuscite tuttavia a rispondere ad alcune delle domande e a rilevare le peculiarità italiane spesso “stupefacenti”. La prima evidenza, per alcuni versi inaspettata perché opposta al senso comune, riguarda le differenze nelle retribuzioni tra pubblico e privato: in media nel pubblico si guadagna più che nel privato - sia per gli uomini sia per le donne (Figura 1). A ciò ci si associa anche un minore differenziale di reddito tra i due sessi; le donne, come atteso, guadagnano sempre meno degli uomini ma il differenziale nel privato è molto più accentuato (in termini assoluti la differenza media tra le retribuzione degli uomini e quelle delle donne è nel pubblico pari a 272 euro e nel privato di 442 euro).
All’aumentare dell’età il differenziale di genere aumenta e raggiunge il massimo nel caso delle donne con più di 55 anni che lavorano nel privato (Figura 3). Contestualmente si osserva che per gli uomini all’aumentare dell’età il privato remunera di più che il pubblico mentre, per le donne, qualsiasi sia l’età, per guadagnare di più conviene lavorare nel pubblico (Figura 2).
L’analisi secondo il titolo di studio fa emergere da un lato che l’investimento in capitale umano, nonostante permetta rendimenti economici nettamente più alti, amplifica i differenziali retributivi di genere: più il livello di istruzione è elevato più la distanza tra i redditi delle donne e quelli degli uomini cresce (Tavola 1). Dall’altro si evidenziamo situazioni ben distinte tra pubblico e privato. Se si lavora nel pubblico si assiste ad una evidente riduzione del differenziale di genere, ciò soprattutto per gli occupati diplomati. Inoltre, mentre per la componente maschile dell’occupazione solo i titoli di studio bassi hanno una convenienza in termini economici a lavorare nel pubblico, per le donne, qualsiasi sia il titolo di studio, il settore pubblico garantisce guadagni maggiori o pressoché uguali al privato (l’unico saldo negativo tra pubblico e privato si ottiene per le donne laureate ma è di solo 26 euro). Le donne diplomate registrano la minore penalizzazione, rispetto ai loro colleghi, nel pubblico con 146 euro in meno, mentre nel privato la differenza salariale rispetto ai colleghi è di circa 500 euro.
Infine, se si analizzano i livelli retributivi in base alla tipologia di qualificazione, ovvero il livello professionale associato al lavoro, si evidenzia che le professioni high skill (4) sono, nel nostro paese, remunerate in media più nel settore privato (in media un uomo dirigente o imprenditore guadagna nel privato 2.619 euro netti mensili mentre nel pubblico il valore è pari a 2.349 euro; per le donne i redditi netti medi sono invece rispettivamente 2.040 euro e 1.801 euro). Inoltre, il tetto di cristallo che ostacola le donne nello svolgimento di lavori high skill è “ispessito” in considerazione del fatto che le poche donne che riescono a svolgere questa tipologia di lavori hanno comunque un reddito nettamente più basso degli uomini, ciò sia nel pubblico e nel privato.
In conclusione, il settore privato sembra maggiormente penalizzante sia in termini di chance occupazionali che di livello retributivo. Per le donne sembrerebbe dunque poco conveniente, in termini comparativi con il settore pubblico ma anche in termini di equità di genere, cercare occupazione o lavorare nel settore privato. Ciò probabilmente dipende da logiche diverse cui risponde il settore privato ma anche da dinamiche di reclutamento meno soggette a vincoli e meno obiettive. Forse un maggiore sforzo di lucidità e neutralità di genere nelle assunzioni, così come nella determinazione dei livelli retributivi e nelle possibilità di promozione professionale, ridurrebbe la seppure (ci auguriamo) inconscia propensione ad escludere le donna competenti dal settore privato o remunerarle non equamente rispetto agli uomini.
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Note
(1) Solera C. e Bettio F. (2013), Women's Continuous Careers in Italy: The Education and Public Sector Divide, Population Review, Volume 52, Number 1
(2) L'indagine è stata condotta nel 2010 su un campione di cinquemila lavoratori, rappresentativo della popolazione occupata in Italia. Cfr. Gualtieri V. (a cura di) (2013), Le dimensioni della qualità del lavoro. I risultati della III indagine Isfol sulla Qualità del Lavoro, I libri del Fondo Sociale Europeo n. 183, Isfol editore
(3) Nell’indagine sulla Qualità del Lavoro il reddito netto mensile è rilevato tramite il seguente quesito: “Mi può dire a quanto ammonta la sua retribuzione/guadagno mensile al netto di tasse e contributi (calcolare la media mensile tenendo conto eventualmente di 13a, 14a mensilità, assegni familiari e buoni pasto)?
(4) Seguendo la classificazione delle professioni CP2001 dell’Istat al primo digit, nella categoria “professioni high skill” rientrano le professioni 1 e 2 (legislatori, drigenti e imprenditori).i gay che, a suo dire, s’inventerebbero di essere perseguitati in Gambia per ottenere asilo politico in Europa.