Communianet
21 09 2015
Da anni ci battiamo nei nostri territori per un'accoglienza degna, offrendo servizi gratuiti per chi arriva o transita nel nostro paese.
La nostra arma è sempre stata la solidarietà, usata per disinnescare il linguaggio di chi, secondo convenienza, definisce i migranti vittime o invasori. Rivendichiamo un'Europa accogliente e solidale dove il diritto di fuga e di circolazione è garantito a chi cerca un futuro lontano da morte e miseria.
Perciò non possiamo rimanere impassibili davanti ai crimini contro l'umanità che il governo Orban sta commettendo ai confini con la Serbia e la Croazia. Da settimane il governo ungherese sta attuando nel cuore dell'Europa una politica dichiaratamente razzista.
È inaccettabile che vengano eretti muri per fermare una popolazione in fuga dalla guerra.
È inaccettabile che l'esercito si schieri contro persone inermi.
È inaccettabile che siano i fucili ad accogliere chi cerca una via di salvezza in Europa.
Non possiamo rimanere immobili davanti ad una tragedia di enormi proporzioni che ci riporta indietro di 70 anni, ci trascina di colpo nella barbarie dei nazionalismi e dei fascismi che ci illudevamo di avere definitivamente sconfitto.
Non vogliamo far finta di non vedere, assistendo impassibili alle immagini trasmesse dai media.
Per questo anche noi aderiamo all'appello lanciato "dalle donne e dagli uomini scalzi" e saremo il 21 settembre alle 18:00 davanti all'ambasciata ungherese a gridare la nostra rabbia contro il governo neofascista di Orban.
Stay Human
#NoBorders
#RefugeesWelcome
Resistenze Meticce, Esc Atelier, Astra, Lab Puzzle!, Strike Spa, Communia, Senza Confine, A.L.A. (Assemblea Lavoratori dell'Accoglienza), Sans Papiers, L.O.A. Acrobax, Alexis Occupato, Laboratorio 53, C.R.A.P. (Coordinamento Romano Acqua Pubblica)
Comune - info
21 09 2015
Il popolo dei piedi scalzi torna a mobilitarsi
L’11 settembre più di 250mila persone hanno manifestato a piedi scalzi in 71città italiane chiedendo diritti e accoglienza per i migranti e profughi, senza sé e senza ma (GALLERIA FOTOGRAFICA). È stata prova di partecipazione e di mobilitazione straordinaria che ci consegna la domanda di come far vivere nei prossimi mesi un’azione di denuncia politica e di solidarietà concreta con i migranti. «La marcia delle donne e degli uomini scalzi non si fermerà. Continuerà anche dopo l’11 settembre».
Questo è stato detto nell’appello finale letto alla conclusione della manifestazione a Venezia: «È una marcia per la dignità, per la vita, per la libertà: per tutti quei valori per cui abbiamo voluto costruire un’Europa aperta al mondo e fondata sulla pace. Una speranza che vogliamo continuare a difendere e per cui vogliamo lottare».
I motivi ci sono tutti. Infatti, dopo qualche sussulto europeo, tra Berlino e Bruxelles, sull’onda dell’emozione della fuga dei profughi siriani, la Merkel ha annunciato che ora le frontiere si chiudono, i paesi dell’est europeo hanno ribadito che non accetteranno nessuna quota per l’accoglienza dei migranti, l’Ungheria finisce di costruire il muro, spara lacrimogeni e usa cannoni d’acqua contro i migranti, e la Francia minaccia nuovi raid aerei in Siria.
Invece sono altre le strade che andrebbero seguite per cercare di affrontare un flusso di profughi – che ormai avrà caratteristiche di permanenza – verso l’Europa. Sempre nell’appello conclusivo è stato affermato: «Molte sono le cose da fare e molti i rischi all’orizzonte. Bisogna creare un vero e proprio corridoio umanitario per chi scappa dalla guerra e bisogna istituire un diritto di asilo europeo che superi l’anacronistico regolamento di Dublino».
E proprio nella manifestazione conclusiva di Venezia, una delegazione della manifestazione di migranti e richiedenti asilo sono simbolicamente saliti sul red carpet della Mostra del cinema aprendo uno striscione davanti a fotografi e pubblico in attesa delle star: humanitarian corridors, now. È questa la priorità oggi. Questo il punto che non può essere più eluso. Non si tratta solo di accogliere chi – dopo interminabili sofferenze – arriva ai confini della nostra Europa, ma farsi carico anche chi non può, non riesce a fuggire e rischia la morte e la violazione dei diritti umani nelle zone di guerra. E alle nostre frontiere non arriverà mai.
Oggi i corridoi umanitari sono ineludibili. Ne servono almeno due: uno dalla Siria e l’altro dal Mediterraneo, assicurando in questo caso passaggi in mare sicuri. Ma su questa strada l’Europa e l’Italia per il momento non ci sentono e si barcamenano tra quote per la ripartizione dei profughi – quote molto modeste e non accettate – nuovi hot spot da istituire e che rischiano di produrre non maggiori tutele ma altre discriminazioni e nessuna resipiscenza sulla convenzione di Dublino.
Al governo Renzi dobbiamo chiedere di prendere una iniziativa che vada in questa direzione non solo in Europa, ma anche in Italia: chiudendo i centri di detenzione, introducendo il diritto di voto alle amministrative per i migranti, istituendo unilateralmente un corridoio umanitario dalle coste meridionali del Mediterraneo. Si tratta, dunque, di rilanciare una mobilitazione.
La marcia delle donne e degli uomini scalzi – con tutto il suo carico simbolico e di concretezza nella forma della partecipazione – ha dimostrato che c’è una grande disponibilità, che non va dispersa, ma rafforzata e sviluppata. Una grande alleanza delle donne e degli uomini scalzi che faccia argine alla xenofobia e al razzismo e che sia da ariete contro tutti quei fili spinati e muri che si cercano di alzare in Europa ancora una volta.
C’è un primo appuntamento: lunedì 21 settembre manifesteremo alle 18 davanti all’ambasciata d’Ungheria a Roma (via dei Villini 12) e davanti ai consolati ungheresi in Italia (come a Milano, Venezia, Palermo, Trieste e altre città che si stanno aggiungendo) per dire basta ai muri e ai fili spinati, basta alla criminalizzazione dei profughi, basta all ipocrisie europee (qui info). Se c’è qualcuno che deve andare fuori dall’Europa non sono i migranti, ma Viktor Orban (fonte il manifesto).
Meltingpot
21 09 2015
La staffetta #overthefortress giunge a Tovarnik, al confine tra Serbia e Croazia, dove continuano ad arrivare migliaia di migranti che restano sospesi per giorni in attesa di ripartire. Senza sapere per dove.
La fila in attesa dell’arrivo dei pullman si ingrossa a vista d’occhio. I migranti lasciano le loro valigie a “tenere il posto” mentre si riparano all’ombra o si rifocillano grazie alla distribuzione efficiente di generi di prima necessità dei volontari tedeschi e croati. Il flusso di persone in arrivo a Tovarnik è costante, il confine con la Serbia da questa mattina è riaperto a intermittenza, anche se è possibile attraversarlo solo a piedi. In poche ore le persone presenti, nello spazio adiacente alla stazione dei treni della cittadina croata, sono circa 3.000.
L’accampamento precario di Torvarnik è un’altra tappa obbligata del viaggio che per i migranti sembra non finire mai. La maggior parte delle persone sono arrivate ieri, alcune sono ferme da più giorni: donne, uomini, bambini, di tutte le età; tanti sono siriani, ma ci sono anche afgani , pakistani e bengalesi. I più fortunati sono riusciti a ripartire quasi subito, gli altri attendono pazientemente il loro turno: se venissero bloccati qui si creerebbe in poco tempo un piccolo villaggio, una “Jungle” come quella di Calais. Anche oggi però i pullman e il treno partiranno, ma nessuno sa l’ora e soprattutto quanti potranno salire e dove verranno portati.
Le informazioni, quando ci sono, sono poche e discordanti: Zagabria, Ungheria, Austria, il centro d’identificazione di Jerezo vicino alla capitale croata, sono quelle che circolano, ma non c’è nessuna certezza.
I migranti sono in ostaggio della diplomazia dei singoli Stati e dell’Unione Europea, costretti ad affidarsi a informazioni scarse e vaghe che li costringono a muoversi improvvisamente e velocemente da un luogo ad un altro spesso percorrendo molti chilometri a piedi.
Le modalità di gestione dei flussi migratori da parte dei diversi governi sono diversificate in relazione al momento: qui a Tovarnik stiamo assistendo a come, impossibilitati a bloccare migliaia di corpi in movimento, si sono arrogati il diritto di controllarne e deciderne i tempi e i luoghi, vincolando la libertà e le possibilità di scelta delle persone a criteri decisionali puramente diplomatici e burocratici, senza tenere conto dell’umanità e delle esigenze dei migranti.
Tutto questo si traduce in estenuanti attese durante le quali le persone sono abbandonate a sé stesse, obbligate a soste e ripartenze improvvise, sospesi in un’infinita odissea tra i confini alle porte d’Europa. Gli ostacoli che incontrano lungo il percorso sono innumerevoli e di diversa natura: fisici, pratici ma nondimeno psicologici: alla stanchezza di un viaggio che può durare parecchi mesi si aggiunge la frustrazione di una meta che si allontana di giorno in giorno ma nonostante ciò resta l’obiettivo irrinunciabile; a questa si somma inoltre l’incertezza dovuta a un sistema di gestione che non fornisce né informazioni né aiuti; anzi: spesso i migranti sono vittime di raggiri da parte delle stesse istituzioni, con finte aperture di varchi seguite da respingimenti immediati.
In queste zone di confine, di passaggio da uno Stato all’altro il migrante è considerato una merce di scambio tra i vari capi di governo, un oggetto legato ad interessi geopolitici nazionali e sovranazionali, irresponsabilmente scaricato o accolto a seconda della convenienza del momento.
A Tovarnik, come a Horgos, gli unici interventi umanitari sono organizzati e gestiti dal basso da volontari e associazioni di base che in pochi giorni sono riusciti, senza grossi mezzi e finanziamenti, a mettere in piedi raccolte di fondi e materiali di prima necessità, ad allestire spazi attrezzati con cucine da campo, tende e punti di distribuzione di vestiario e coperte. Il sostegno umanitario di queste iniziative, non dissimili da quelle di altri luoghi, se da un lato dimostra che la solidarietà è un valore presente in tutti i paesi europei e si muove lungo canali concreti e di mobilitazione sociale, dall’altro mette in luce le carenze strutturali delle “grandi” organizzazioni non governative che per motivi politici e di interdipendenza dai governi sono del tutto assenti in queste circostanze.
Di fronte a questo scenario le persone dimostrano la loro determinazione riuscendo a coniugare lucidamente momenti di attesa ad altri dove, per aprire i varchi, è necessario fare pressione reagendo all’apatia e alla perdita di speranza cui facilmente questa situazione potrebbe portare.
È così che anche oggi le persone sono rimaste pazienti e sono riuscite ad autogestirsi aspettando il loro turno prima di salire sugli autobus. Dalle 15.30, quando è arrivato il primo pullman, circa una ventina si sono susseguiti fino a sera. Alle 19 si è aggiunto un treno di cui si sentiva parlare dalla mattina: né i pullman né il treno portavano alcuna indicazione sulla destinazione ma nonostante questo sono stati visti come l’unica possibilità per continuare il cammino.
Lasciamo la stazione di Tovarnik alle 20, quando meno della metà delle persone in attesa era riuscita a salire, accompagnati dai saluti e dai ringraziamenti di chi si affollava ai finestrini. Ce ne andiamo con la consapevolezza che il loro viaggio non è finito e con la convinzione che quanto abbiamo visto non costituisce nemmeno in minima parte una soluzione per quanti continuano e continueranno ad attraversare la rotta balcanica.
Staffetta #overthefortress
Dinamo Press
21 09 2015
Un reportage collettivo dalla frontiera di Ventimiglia. Dal 15 giugno sul lungomare alla frontiera tra la Francia e l'Italia, tra le città di Ventimiglia e Menton, si è stabilito il presidio #noborders, nato e mantenuto in una dimensione totalmente indipendente ed autorganizzata.
Il presidio, ad oggi, ha assunto proporzioni impressionanti: una cucina attrezzata per più di 200 pasti, bagni, docce e collegamenti elettrici, un ufficio e zona stampa. Assemblee quotidiane in arabo e in inglese sono la norma a Ventimiglia. Si discute della vita in comune nello spazio così come delle azioni dimostrative da mettere in pratica al confine, distante solo pochi metri ma orizzonte lontano per molti migranti. Cosi', bloccare il traffico al grido di "Open the borders" o decidere di attraversare la frontiera via mare, come hanno fatto sabato 12 settembre circa 35 persone, tra migranti ed attivisti, diventano parte della quotidianita'.
Il presidio di Ventimiglia è uno di quei luoghi in cui le contraddizioni non fanno più paura e la solidarietà e la vita in comune spazzano via ogni traccia di deriva umanitarista. Si vive insieme e si lotta insieme, e spesso si subisce insieme la violenza da stato d'eccezione che ha fatto della frontiera una zona di battaglia. Le scene a cui si può assistere in questi luoghi vanno al di là di ogni immaginazione e costituiscono un laboratorio di gestione violenta dei flussi, una ridefinizione continua dell'azione poliziesca in senso repressivo.
Nella minuscola stazione di Menton Garavan, la prima dopo la frontiera, non c'è mai nessuno, solo un massiccio presidio di gendarmi pronti a salire sui treni per far scendere i migranti ed arrestarli, con controlli veloci basati esclusivamente sul colore della pelle. L'agitazione è perenne come se da un momento all'altro dovesse accadere qualcosa. Sempre. Sono pronti, i poliziotti, a catturare ogni vita in fuga per sbatterla su una camionetta e rispedirla da dov'è venuta. Anche da parte italiana la repressione non si è fatta attendere: ad oggi 18 denunce, 8 fogli di via e due arresti nei confronti degli attivisti del presidio.
Non manca, ad aumentare lo stato d'incertezza, la confusione fra le diverse forze dell'ordine ai due lati della frontiera: sebbene i migranti dell'Africa subsahariana rischino il rimpatrio forzato nel caso in cui vengano scoperti in territorio francese, la maggior parte delle volte vengono invece trattenuti e ammassati in container per ore, prima di essere rimandati in Italia. Al presidio è possibile incontrare persone che già più di una volta hanno tentato il passaggio e subito la cattura e il respingimento in Italia.
La maggior parte dei migranti che si trovano al presidio noborder vengono da Sudan ed Eritrea (vedi mappa). Fuggono dai conflitti nel Darfur (regione occidentale del Sudan) e nel Sud Sudan, nonché dal regime eritreo, dai rischi della mai conclusa guerra in Somalia e dalle minacce della desertificazione.
Non c'è davvero da stupirsi se queste spinte economiche, politiche e ambientali abbiano portato i flussi a fare pressione su Ventimiglia, e se solo di recente iniziamo a parlarne e a notare la loro potenza è perché dal 2011 ha smesso di funzionare il sistema di controlli, detenzioni e respingimenti che Italia e UE avevano finanziato ed esternalizzato in territorio libico.
Già all'interno della regione si trovano centinaia di migliaia di profughi e migranti, ma non accenna a diminuire il numero di quelli che trovano la forza di spostarsi verso altri paesi, attraversando il deserto e il mare, in direzione dell'Italia, della Francia, e magari oltre. Ventimiglia è, allo stesso tempo, un punto fermo e un luogo di passaggio per la maggior parte di chi ci vive. La frontiera tra l'Italia e la Francia è soltanto uno dei luoghi da attraversare, il primo confine dentro la fortezza Europa. La giungla di Calais è per tanti la meta successiva.
Eppure tra i tanti incontri e le tante soste in questi viaggi interminabili, ci sembra che a Ventimiglia qualcosa si rompa nel terribile ingranaggio delle migrazioni. La resistenza, la speranza, la semplice quotidianità paiono spezzare la solitudine del viaggio e l'individualità della ricerca di un futuro. Certo, i percorsi saranno ancora lunghi e diversi. Certo, non tutt* attraverseranno l'odiosa frontiera insieme, e ancora, le diversità sono tante e palpabili. Ma allo stesso tempo, paradossalmente, il solo trovarsi di fronte a quel confine significa essere vite e corpi resistenti: non ci chiamerete rifugiat*, né migrant* economici, né in nessun altro modo! Già cadono frontiere a Ventimiglia, e sono quelle di categorie artificiali o strumentali malamente calate sui migranti: abbatterle significa incunearsi nell'incapacità e nelle divisioni di un'unione europea balbettante, trincerata dentro una fortezza che ai confini sfoggia la sua assurda violenza. Significa mettere le vite dei migranti avanti a tutto, anche agli interessi di quei paesi, Germania in testa, che dietro il paravento umanitario organizzano la selezione all'ingresso della forza lavoro.
Dentro il campo abbiamo incontrato un meccanismo orizzontale, che inventa continuamente le sue forme di organizzazione e supera le barriere create da lingue e storie differenti. Ma la vita del campo non resta dentro al campo, esce e grida per essere riconosciuta.
Azioni collettive di blocco alla frontiera sono la quotidianità, insieme ad azioni di visibilità come quelle già accennate. Ciò che impressiona è come questa sia una prospettiva cercata e messa in primo piano dagli stessi migranti. Sabato, sono stati per primi i migranti a voler varcare a nuoto, simbolicamente, il confine.
Simbolicamente, certo, ma a pensarci bene, la ricerca dell'azione, della visibilità (anche mediatica), della rappresentazione, sono figlie della vita di fronte a una barriera che in confronto al No Borders Camp altro non è che un feticcio, e come tali aprono un campo di ipotesi politiche altamente riproducibili. Quanto successo ieri tra Serbia e Ungheria si pone sulla stessa linea: più di un migliaio di migranti ha abbattuto alcuni tratti della rete costruita dal governo Orban. L'attraversamento delle frontiere diventa così un'opzione reale, un fenomeno che nei prossimi mesi sarà probabilmente inarginabile.
La dimensione del confine, luogo di passaggio ma anche luogo di soggiorno e di intersezione, pone la questione di "fare rete" dentro le migrazioni. Che si tratti di poter comunicare con altri migranti a Parigi o Calais o in altri angoli d'Europa, che si tratti di una dare supporto legale e logistico diffusamente su tutto il continente, o che si tratti di rivendicare collettivamente e in luoghi diversi il diritto a spostarsi, crediamo che emerga come priorità assoluta quella di identificare parole d'ordine e pratiche comuni che raccontino i percorsi di libertà dentro le linee migratorie, contro i muri della fortezza Europa. La disobbedienza alla frontiera sta divenendo il tratto comune, il collante concreto, di questi movimenti. È attraverso queste pratiche che si definisce la possibilità di fare rete, non tanto attorno a dei nodi geografici, quanto attorno a dei flussi che determinano un campo di resistenza in ogni luogo in cui si condensano.
Oggi i confini dell'Ungheria sono in fiamme, alle porte dell'Europa si alzano barriere di filo spinato. Il confine torna luogo militare, barriera fisica, disperato tentativo di trincerarsi in una identità aggrappata a radici inesistenti. Ma mille altre frontiere si alzano ogni giorno: quelle culturali di chi vorrebbe nazioni frammentate nell'identitarismo, quelle di chi racconta le migrazioni come fenomeni da selezionare, piuttosto che coglierne la dimensione epocale e collettiva, quelle tra virtuosi e fannulloni, tra un Nord Europa austero e laborioso e un Sud insolvente e parassita. Umiliare la Grecia mentre si selezionano i migranti da ammettere sono facce della stessa medaglia: il ricatto del debito e quello del passaporto sono figli dello stesso "there is no alternative".
“Ventimiglia ovunque” non è per noi soltanto uno slogan ma una possibilità reale, un’opzione da praticare, per abbattere e cancellare tutte le frontiere, un nome comune a differenti desideri di libertà.
di Exploit