Internazionale
05 08 2015
Rubén Espinosa aveva 31 anni ed era un fotoreporter freelance. Collaborava con la rivista Proceso e con l’agenzia Cuartoscuro. Era specializzato nella copertura di proteste e manifestazioni e denunciava da anni le aggressioni nei confronti dei giornalisti nello stato orientale di Veracruz. Due mesi fa, si era accorto di essere pedinato e ha subito delle minacce di morte. Ha deciso in fretta di andarsene e si è rifugiato a Città del Messico, dove abitano i suoi genitori.
Venerdì 31 luglio, è stato trovato morto in un appartamento di un quartiere borghese della capitale. Insieme a lui sono state uccise quattro giovani donne, che si trovavano nella casa in cui si era fermato a dormire dopo una festa. Tutti erano stati ammanettati, picchiati e poi finiti con un colpo di pistola alla testa. Rubén Espinosa è l’ottavo giornalista ucciso in Messico dall’inizio dell’anno. Secondo Reporter sans frontieres, sono 88 dal 2000. Il 90 per cento dei casi è rimasto impunito. Lunedì sera si è tenuto il funerale, mentre il giorno prima, quando si è diffusa la notizia dell’omicidio, una manifestazione spontanea ha invaso una piazza della capitale.
La procura di Città del Messico, responsabile delle indagini, non ha ancora formulato nessuna ipotesi sull’omicidio e ha dichiarato di non escludere la pista della rapina. Ma nel paese cresce l’indignazione per l’incapacità delle autorità nell’affrontare le continue aggressioni contro i giornalisti che hanno il coraggio di raccontare la corruzione delle istituzioni e i traffici della criminalità organizzata. Associazioni di giornalisti e per i diritti umani, amici, colleghi e familiari di Espinosa chiedono verità e giustizia.
Nel 2014 il Messico è stato il sesto paese del mondo con più giornalisti uccisi e il primo del continente americano, secondo Reporter sans frontieres. Nella classifica mondiale sulla libertà di stampa, il occupa il posto 148 su 180, al livello dell’Afghanistan. L’organizzazione per la libertà d’espressione Article 19 calcola che ogni 26 ore un cronista messicano viene aggredito, minacciato, sequestrato o addirittura ucciso. La vulnerabilità dei cronisti è diffusa in tutto il paese, ma caratterizza soprattutto chi lavora nei mezzi d’informazione di regioni controllate dai cartelli della droga e dalla polizia corrotta, zone in cui lo stato è poco presente.
Proprio per questo, l’omicidio di Rubén Espinosa e delle sue quattro amiche segna un nuovo capitolo nel panorama di violenza contro i giornalisti in Messico. È la prima volta che un reporter fuggito a Città del Messico da un’altra parte del paese, dopo aver denunciato pubblicamente le minacce subìte, viene ucciso nella capitale. Lo ha sottolineato Article 19, un’organizzazione indipendente che prende il nome dall’articolo 19 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, quello sulla libertà di espressione e il diritto di essere informato.
Rubén Espinosa era nato a Città del Messico, ma da sette anni lavorava a Veracruz, uno stato fortemente condizionato dal controllo del crimine organizzato, specialmente del cartello degli Zetas. È lo stato più pericoloso per chi fa il suo mestiere: dal 2000, 17 giornalisti sono stati uccisi. Con quello di Espinosa, tredici di questi omicidi si sono verificati sotto il governo di Javier Duarte de Ochoa del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri). Nel 2012 è stata strangolata Regina Martínez, corrispondente della rivista Proceso, la stessa con cui collaborava Espinosa. Le autorità hanno chiuso l’indagine stabilendo che era stata vittima di un furto o di un crimine passionale.
Lo scrittore e giornalista messicano Juan Villoro ha dichiarato a El País: “Il governo di Duarte non ha fatto nulla per proteggere i giornalisti. Anzi, ha cercato di promulgare una legge che prevedeva il carcere per chi pubblicava online notizie sulle violenze, che è stata bloccata dalla corte suprema. Ultimamente, il governatore ha chiesto ai giornalisti ‘di comportarsi bene’. Così ha criminalizzato in anticipo tutte le vittime future”.
In un’intervista che ha rilasciato a giugno al giornale online Sin embargo, Espinosa aveva dichiarato: “Non ci sono parole per descrivere le tristi condizioni di Veracruz. La corruzione è a suo agio dappertutto. La morte ha scelto Veracruz, ha deciso di vivere lì”.
Insieme al fotoreporter è stata uccisa Nadia Vera, di 32 anni, attivista per i diritti umani che aveva più volte denunciato la situazione e la negligenza complice del governo di Veracruz. L’identità delle altre tre vittime non è stata confermata dalle autorità. La stampa scrive che si tratterebbe di una ragazza di 18 anni, di una di 29 e della donna delle pulizie, di 40 anni, che stava lavorando nell’appartamento.
Il Manifesto
04 08 2015
Che il Messico sia un paese ad altissimo rischio per chi denuncia o combatte il narco-stato che lo governa, è documentato dal numero dei morti e degli scomparsi: secondo cifre ufficiali, circa 25.700 persone risultano desaparecidas negli ultimi anni, in maggioranza durante l’amministrazione del presidente neoliberista Enrique Peña Nieto, iniziata nel 2012.
Il brutale assassinio del fotoreporter Rubén Espinosa Becerril e di quattro donne che si trovavano con lui a Città del Messico sta però scuotendo il paese. I cinque sono stati torturati e infine uccisi con un colpo alla testa. I corpi delle donne – attiviste e una domestica diciottenne – presentavano anche segni di violenza sessuale.
Al grido di “Adesso basta impunità” si stanno svolgendo manifestazioni in tutto il paese. Attivisti e giornalisti sfilano con l’immagine del collega ucciso sovrapponendola al proprio viso. Dal 2000 a oggi sono stati assassinati 88 giornalisti. Con l’uccisione di Espinosa sale a 13 il numero di giornalisti eliminati nello stato di Veracruz – uno dei più pericolosi del paese -, governato da Javier Duarte.
E tre risultano scomparsi. Il 2 luglio è stato scoperto il corpo di Juan Mendoza Delgado, direttore e fondatore del sito web di notizie da Veracruz, Escribiendo la Verdad. A Xalapa, nello stato di Veracruz, il fotoreporter aveva lavorato per 8 anni, soprattutto per la rivista Proceso, in prima fila nel sostegno alle proteste sociali e sede di inchieste scomode per il potere.
Lo stato di Veracruz sintetizza la crisi che attanaglia il paese, resa drammaticamente visibile dal problema dell’insicurezza. A Veracruz imperversa la lotta dei cartelli per il controllo delle vie del narcotraffico e quella per il controllo del traffico dei migranti. Le aggressioni ai giornalisti sono quotidiane. Anche il giornale El Heraldo de Córdoba è stato attaccato con bombe incendiarie.
Per la sua attività, Espinosa aveva ricevuto ripetute minacce e si era rifugiato nella capitale, Città del Messico. Sabato, poiché risultava irreperibile, il gruppo di difesa della libertà di espressione Articolo 19 aveva chiesto alle autorità messicane di attivare il protocollo per localizzarlo. E così si è scoperto il corpo e quello delle altre quattro vittime nel Narvarte, un quartiere di classe media della capitale.
Espinosa aveva iniziato a lavorare come fotografo di Javier Duarte quando questi era candidato a governatore del Veracruz. In seguito aveva però smesso di lavorare per le istituzioni pubbliche, rendendo sempre più visibile il suo impegno nella denuncia della violenza di stato contro i giornalisti. Scelse di documentare l’attività dei movimenti sociali. Nel novembre del 2012, mentre seguiva le proteste degli studenti contro il governatore Duarte per l’omicidio di un’altra corrispondente della rivista Proceso nel Veracruz, Regina Martinez, gli venne impedito di scattare le foto del pestaggio a uno studente da parte della polizia.
Una persona gli si avvicinò e gli disse “Smetti di scattare foto sennò finisci come Regina”. Ruben però non smise di partecipare alle manifestazioni e di documentarle. Il 14 settembre del 2013, mentre fotografava il violento sgombero a un presidio di maestri e studenti universitari, a Xalapa, venne brutalmente aggredito insieme ad altri giornalisti, e gli fu sequestrato il materiale.
Presentò numerose denunce, ma intanto era diventato sempre più scomodo per il governatore Duarte, che arrivò a comprare tutte le copie della rivista Proceso per una copertina di Espinosa, a lui sgradita.
Nel giugno scorso, alla vigilia delle elezioni, documentò l’aggressione subita da otto studenti che furono aggrediti da un gruppo di incappucciati, probabilmente legati alla Sicurezza pubblica. Da allora cominciò ad accorgersi di essere seguito e il 9 giugno, dopo aver nuovamente denunciato la persecuzione di cui era vittima, fuggì nella capitale. Inutilmente.
Intanto, in una delle 60 fosse comuni clandestine, rinvenute nel comune di Iguala, sono stati scoperti i cadaveri di 20 donne e 109 uomini. A Iguala, il 26 settembre dell’anno scorso, sono scomparsi i 43 studenti normalistas, a seguito di una feroce aggressione congiunta di polizia locale e narcotrafficanti. La loro ricerca, che continua grazie alla costante mobilitazione di famigliari e organizzazioni popolari, ha riportato all’attenzione del mondo l’entità del fenomeno delle scomparse, la responsabilità e le inadempienze del sistema politico che stritola il paese. Secondo le autorità del Guerrero (lo stato dove si trova Iguala), i cadaveri rinvenuti non sono quelli degli studenti della Normal Rural di Ayotzinapa. Attivisti e famigliari dei normalistas continuano però a denunciare pressioni e intimidazioni da parte delle autorità, e chiedono che si cerchi nelle caserme militari, ove – secondo testimonianze — esistono prigioni clandestine e luoghi di tortura.
Secondo Felipe de la Cruz, portavoce del comitato dei famigliari dei 43, le autorità messicane hanno offerto un risarcimento di oltre un milione di pesos (62 milioni di dollari) affinché cessino le ricerche.
La proposta è però stata rispedita al mittente: “La vita dei nostri figli non ha prezzo”, hanno risposto i famigliari. E le manifestazioni continuano. Contro le privatizzazioni di Nieto, che sta svendendo il paese alle grandi multinazionali si stanno mobilitando tutte le categorie. In prima fila, studenti e professori, vittime dei piani neoliberisti sulla scuola pubblica. In marcia anche infermieri, lavoratori e pensionati dell’Instituto Mexicano del Seguro Social. Pur sommerso dagli scandali che lo chiamano in causa anche a livello personale, Pena Nieto – ben sostenuto dai suoi padrini nordamericani – resta però aggrappato al potere.
Alfabeta2
13 07 2015
Stiamo vivendo l’agonia del capitalismo neoliberale, e nella fase che viene non c’è più spazio per la democrazia, non c’è più spazio per i diritti umani. Il capitalismo finanziario a questo stadio assume la faccia del crimine sistematico. Quel che accade in Messico, dove un pugno di grandi imprenditori controlla un esercito di narco-proletari salariati per seminare il terrore, è solo una variante di quel che accade in ogni altro luogo del mondo.
Ni vivos ni muertos è il titolo di un libro di Federico Mastrogiovanni, un giornalista italiano che da molti anni vive in Messico. Il libro, pubblicato da DeriveApprodi, descrive i settori di intervento dell’impresa criminale, che non si limita più unicamente alla produzione e distribuzione di droghe, ma punta a investire nel settore dello shale gas: il Messico ha ingenti riserve di questo nuovo tipo di petrolio, e per poter sfruttare queste riserve occorre allontanare la popolazione da territori come il Tamaulipas. Decine di migliaia di donne sono costrette alla prostituzione, migliaia di uomini sono sequestrati per lavorare gratis in miniera.Oltre agli schiavi, sequestrati obbligati a lavorare fino alla morte, ci sono diversi strati criminali.
Si fa presto a dire narco, come se si trattasse di un mondo omogeneo, senza distinzioni interne. In realtà non si può più parlare della criminalità messicana senza allargare lo sguardo al necro-capitalismo come ciclo economico decisivo dell’economia globale contemporanea. Emerge dovunque un nuovo settore di produzione: produzione di terrore, produzione di violenza e di morte. Dai deserti della mezzaluna fertile alle montagne del Beluchistan, dal corno d’Africa alla Nigeria petrolifera milioni di giovani si arruolano negli eserciti del necro-capitale. Daesh è una corporation globale che dà un salario di 450 dollari a disoccupati inglesi, francesi, austriaci, egiziani e tunisini. E il cartello di Sinaloa, come los Zetas, sono corporation che funzionano esattamente alla stessa maniera di Blackwater, o della FIAT. I cosiddetti Narcos sono in ultima analisi dei neoliberisti coerenti, dei neo-darwinisti sociali radicali.
Scrive John Gilber nel libro Morir en Mexico: “Il governo federale messicano stima che i narco-trafficanti abbiano guadagnato più di 132 miliardi di dollari tra il 2006 e il 2010. Il capo più ricercato, el Chapo Guzman, è regolarmente nella lista dei miliardari pubblicata da Forbes. La prima volta che il suo nome apparve sulla lista che elenca i più ricchi finanzieri e capitani d’industria della terra, (il 2009) la rivista scrisse che la fonte della sua fortuna erano i trasporti”.
La pubblicazione del nome di uno dei più efferati assassini del nostro tempo sulla rivista in cui compaiono i business leaders della terra è così eloquente che non occorre commentarla. Forbes dovrebbe forse introdurre una novità nelle sue pubblicazioni: accanto alla lista dei più ricchi potrebbe anche pubblicare una classifica delle migliaia di persone che ogni business leader ha fatto uccidere dai suoi salariati. Occorre infatti parlare di salariati del crimine. Difficile dire quanti siano i lavoratori del narco quante decine o centinaia di migliaia siano impiegate a importare, raffinare, distribuire, esportare controllare e quante a sequestrare, torturare uccidere.
Occorre però distinguere tra i narco-proletari e i narco-profittatori. I primi, abitanti dei quartieri poveri e autocostruiti, ex-operai e immigrati di diverse parti del Messico, discendenti di comunità indigene e in generale “morenos”. I secondi, imprenditori e politici della classe alta, in generale bianchi o “gueros”. Gli uni e gli altri sono armati, naturalmente, ma ben diversa è la vita che vivono i primi e quella che vivono i secondi. I narco-proletari debbono fare i conti con le azioni della polizia federale, della polizia statale, dell’esercito, della marina, infiltrati dal narco-capitale, ma talvolta imprevedibili. I narco-profittatori sono protetti da eserciti personali, e i loro rapporti di alleanza sono continuamente rinegoziati con le elite politiche e militari.
Il libro di Federico Mastrogiovanni, che uscì in Messico proprio nei giorni in cui la questione della violenza di massa esplodeva nella coscienza nazionale in seguito al sequestro dei 43 studenti di Ayotzinalpa getta una luce su questa realtà da un punto di vista particolare, quello del destino di un giovane sequestrato e della sua famiglia, dell’ambiente in cui è cresciuto e da cui è stato strappato.
Federico Mastrogiovanni