la Repubblica
26 02 2015
Banksy, l'anonimo artista di strada, è apparso di nuovo, questa volta mentre dipinge i muri di Gaza.
Nella sua pagina ufficiale l'artista ha pubblicato un breve documentario sulla sua ultima serie di lavori disegnati sulle pareti degli edifici distrutti. L'artista si filma in prima persona, stando attento a rimanere anonimo, mentre entra a Gaza passando dai tunnel sotterranei che collegano la striscia all'Egitto.
Il video, denso di messaggi politici e satira come ci ha abituato l'artista, finge di proporre una nuova destinazione turistica allo spettatore occidentale: "Make this the year you discover a new destination", ovvero "Fai in modo che quest'anno tu scopra una nuova destinazione".
Fra gli edifici distrutti dall'esercito israeliano durante l'ultima operazione militare si ergono i graffiti dell'artista, donne che piangono, bambini che giocano su una giostra costruita attorno a una torre di vedetta dell'esercito di Tel Aviv e un gattino che osserva un cumulo di rifiuti nascosto fra i detriti della città distrutta.
Il mini documentario si conclude con una frase scritta su un muro crivellato dai colpi: "If we wash our hands of the conflict between the powerful and the powerless we side with the powerful, we don't remain neutral", " Se ci laviamo le mani del conflitto fra potenti e oppressi stiamo dalla parte dei potenti e non possiamo rimanere neutrali".
Minima et Moralia
18 02 2015
Il mese scorso due iniziative hanno richiamato l’attenzione sulla rovinosa situazione del patrimonio archivistico e librario in Italia. Due gridi d’allarme disperati.
L’Associazione Italiana Biblioteca, l’ICOM e l’Associazione Nazionale Archivistica italiana, con A chi compete la cultura, avvisano che la riforma Delrio delle province mette a rischio centinaia di istituzioni culturali lasciandone indeterminata la responsabilità. “A chi toccherà finanziare, amministrare, salvaguardare e valorizzare il patrimonio culturale delle amministrazioni provinciali, continuare l’attività di enti, fondazioni e direzioni che lo hanno gestito in questi anni, custodire gli edifici che li ospitano (spesso essi stessi di enorme valore) e soprattutto tutelarne l’apertura, la qualità dell’offerta e tutti i servizi al pubblico?”, si chiedono. Già, che succederà?
Intanto, i presidenti delle associazioni degli storici italiani hanno inviato al ministro Franceschini una lettera aperta sulla “situazione di archivi e biblioteche”. Sottolineano come il sistema bibliotecario e archivistico abbia subito continui tagli di risorse e personale con una “grave e cronica condizione di sotto organico”, e riduzione di orari e servizi. Infine, esprimono preoccupazione sui possibili effetti della riforma del MIBACT su istituzioni che, come le biblioteche e gli archivi, “per loro natura non sono in grado di offrire ritorni economici dei servizi da loro offerti”. La riforma darà verosimilmente il colpo di grazia a un sistema al collasso. Risale a diversi anni fa la denuncia dell’ANAI sul mancato turn over; la Sissco ha costituito un osservatorio per monitorare la situazione, con risultati sconfortanti. Praticamente non è stato fatto niente, e il degrado avanza a colpi di tagli, riforme roboanti e sprezzo per le istituzioni pubbliche.
Nella loro lettera gli storici insistono dunque sulla “assenza di un complessivo investimento a lungo termine, in termini di memoria e di ‘identità nazionale’, che la tutela del patrimonio archivistico e bibliotecario sottende.”, cosa tanto vera quanto problematica.
Gli archivi, in effetti, appaiono oggi l’anello debole della tutela del patrimonio. Anzi, del patrimonio tout court. A che servono tutte queste carte, possiamo permetterci in tempo di crisi di pensare a scartoffie polverose buone solo per qualche storico per scrivere libri inutili?
In un saggio recente, due studiosi statunitensi hanno parlato di archival divide[1]. Per secoli, archivisti e storici hanno condiviso tra loro, e con le classi colte e il ceto politico, una cultura storica imperniata sulla storia politica e istituzionale e sullo stato-nazione, dalla quale dipendeva tanto il fine della ricerca storica, quanto l’organizzazione degli archivi e le politiche di conservazione e il valore stesso attribuito al patrimonio archivistico. Sensibilmente dagli anni Sessanta, e oggi in modo clamoroso, si è creato un divario. Gli storici non usano più gli archivi nello stesso modo, non le stesse fonti e per gli stessi fini, mentre gli archivisti si trovano di fronte a difficoltà tecniche e teoriche sempre più complesse, connesse al modo di intendere e preservare la memoria e le “identità” che non sono più (solo) quella nazionale o al massimo cittadina. Ciò pone grossi problemi di definizione, conservazione e accessibilità di una massa documentaria inarrestabilmente crescente, e una sfida di missione per gli archivi.
Storici e archivisti, nondimeno, condividono l’idea che gli archivi costituiscono un patrimonio culturale fondamentale in un paese democratico perché sono indispensabili alla conoscenza critica del passato contro ogni tentazione totalitaria o falsificazione politica. Dunque devono essere nella disponibilità degli studiosi e dei cittadini.
Viceversa, questa idea pare scomparsa dall’orizzonte della classe politica e di buona parte delle élites intellettuali (meno sensibili al tema degli archivi che ad altri aspetti della tutela del patrimonio, e ancora…). Naturalmente, stenta a vivere nel sentire comune.
Uno dei modi per superare tale divario è stato, nel tempo, sottolineare il valore, appunto, memoriale degli archivi, favorendo la raccolta di documentazione personale e familiare a tutti i livelli, e di soggetti sociali, etnici, di genere storicamente meno presenti negli archivi. Si può citare per esempio la recente campagna di deposito di ricordi della Grande Guerra, lanciata in vari paesi europei. Per quanto la nozione di memoria sia problematica, si tratta di una politica intesa a rinnovare il ruolo degli archivi e ad attualizzarne il senso.
Ma gli archivi meno recenti? Raramente i documenti hanno valore in sé, come attestazione di proprietà e diritti, o per il loro intrinseco valore materiale. Per di più, sono refrattari alla valorizzazione estetizzante che (alcuni) libri e biblioteche sono ancora capaci di sostenere nell’era digitale. Per la verità, qualche tentativo in tal senso c’è. Non mi riferisco allo sforzo degli archivisti stessi di organizzare eventi rivolti al pubblico, ma a mostre nelle quali i documenti sono isolati e mostrati come cimeli, curiosità o capolavori, all’incrocio tra Dan Brown e le esposizioni di opere d’arte stracelebri. Ovvero il contrario della ricerca storica, che ricostruisce il passato stabilendo delle relazioni tra documenti.
Apparentemente il punto sta proprio qua, nel valore che si attribuisce al lavoro dello storico per la vita democratica, anzi: alla storia e basta. Poco o nulla, a giudicare dalle politiche governative, ormai da tempo, e non solo in materia di archivi.
Ogni parte del patrimonio culturale, ogni quadro, pietra, paesaggio, festa, ha il suo senso profondo in un contesto, in un reticolo e un palinsesto di significati, e ha bisogno di essere studiato e reso fruibile. Ma è anche evento in sé, suscettibile di essere ogni volta (re)investito di significati personali. I documenti d’archivio invece – è un paradosso, trattandosi di carte scritte- sono monumenti muti. Antichi o recenti, ‘parlano’ a un lettore esperto, grazie a un dispositivo istituzionale che li ha selezionati e ordinati e all’interno di una narrazione scientificamente fondata. Supporti materiali di una memoria, che sia familiare o cittadina o nazionale, vicina o lontana, si attivano davvero solo quando entrano a far parte di una storia. Nonostante la tendenza a contrapporre queste due dimensioni, non senza una vena polemica contro la storiografia come disciplina autoritativa ed escludente, esse sono in realtà complementari.
Importa relativamente poco che sia un accademico a farne la lettura esperta, ma che sia fatta con i necessari strumenti critici, ossia importa che ci sia una conoscenza storica diffusa. In ogni caso, è impossibile difendere ciò che non si conosce e di cui non si condivide il significato. In fondo, gli archivi sono una questione di democrazia, ossia di inclusione, e gli storici per primi dovrebbero spiegarlo più chiaramente. È un compito degli storici attenuare il ‘divario archivistico’, e scrivere libri scientifici leggibili da tutti, non c’è dubbio. Ma dovrebbe anche essere uno dei fini della politica culturale di un paese democratico.
[1] Francis X. Blouin Jr., William G. Rosenberg, Processing the Past: Contesting Authority in History and the Archives, Oxford, Oxford University Press, 2011
La Stampa
22 01 2015
Per risolvere i suoi casi più difficili, la polizia di New York ha deciso di affidarsi all’arte. Nel senso che ha chiesto agli studenti della New York Academy of Art di ricostruire i volti delle vittime non identificate di undici omicidi, basandosi sul cranio e poco altro.
New York è una città dove avvengono ancora circa 300 omicidi all’anno, e in alcuni casi i cadaveri sono irriconoscibili. Gli investigatori usano tutte le tecniche possibili per identificarli, dalle impronte digitali, alla dentatura, fino al DNA, ma alle volte le condizioni delle vittime sono tali che tutto risulta inutile. Negli ultimi 25 anni, sono stati circa 1.200 i corpi a cui non è stato possibile dare un nome, e la maggior parte di questi casi sono rimasti senza un colpevole.
Per cercare di riaprirli, il Dipartimento di Polizia si è rivolto alla New York Academy of Art. Secondo il New York Times, gli investigatori hanno chiesto agli studenti di aiutarli a risolvere undici casi tra i più difficili, cercando di ricostruire i volti. L’Accademia ha accettato, e quindi la polizia ha portato quello che aveva: i crani, spesso severamente danneggiati, e poco altro. I professori poi hanno chiesto ai loro studenti di partire da li, per cercare di rimodellare le facce nella maniera più fedele possibile ai tratti naturali dei teschi. Niente interpretazione artistica, dunque, ma massimo realismo.
Le sculture poi verranno fotografate dalla polizia e poste su un sito speciale che raccoglie tutte le denunce delle persone scomparse. L’obiettivo è che siano abbastanza fedeli agli originali, e che qualcuno le riconosca: un parente, un amico, un conoscente. Il sito poi inviterà queste persone a contattare la polizia, per dare tutte le informazioni che possiedono, nella speranza che siano utili a indentificare le vittime e riaprire i casi. Se l’esperimento funzionerà, il Dipartimento chiederà all’Accademia di firmare un accordo per diventare parte organica permanente delle sue inchieste.
Paolo Mastrolilli